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    David Hume nasce da una famiglia della piccola nobiltà nel 1711 a
    Edimburgo, in Scozia, una regione all’epoca molto arretrata rispetto all’Inghilterra,
    nonostante l’unione amministrativa delle due corone portata a compimento
    nel 1707. Il dispotismo ecclesiastico della Chiesa presbiteriana,
    maggioritaria in Scozia, che esercitava un rigido controllo sulla vita
    morale dei fedeli, impedisce a Hume di ottenere la cattedra universitaria
    dopo la laurea in legge, a causa delle sue posizioni scettiche verso le
    superstizioni religiose. Tra il 1739 e il 1740, in Francia, mosso dall’insoddisfazione
    per l’orientamento filosofico del suo tempo e da un’avversione critica
    per la metafisica tradizionale, scrive il Trattato sulla natura umana (A
    treatise of human nature), che si colloca al vertice dell’impostazione
    empiristica del problema della conoscenza. L’ambizioso obiettivo del
    Trattato è quello di elevare la filosofia al livello di certezza della
    scienza, individuando basi certe e incontrovertibili per lo studio della
    natura umana, che Hume reputa, per le funzioni che compie, il fondamentale
    criterio di unificazione della conoscenza umana, tramite l’applicazione
    alla filosofia morale del metodo sperimentale di Newton. Il Trattato si
    rivela inizialmente un grave insuccesso editoriale a causa dell’estensione
    della cultura ad un pubblico più ampio ma meno abituato a complesse
    trattazioni sistematiche del calibro dell’opera di Hume, che viene quindi
    rielaborata in  Saggi sulla conoscenza umana e  Saggi sulla morale. Costretto
    a rinunciare alla professione di docente universitario, nel 1752 Hume
    ottiene il posto di direttore della biblioteca nazionale dell’ordine degli
    avvocati e si dedica alla composizione di una  Storia d’Inghilterra. Nel
    1757 pubblica la Storia della religione naturale, mentre i  Dialoghi sulla
    religione naturale vengono pubblicati postumi, nel 1779, per timore di
    incorrere nella censura della Chiesa presbiteriana. Il pensiero di Hume è
    la sintesi di tre categorie filosofiche: 
    Lo  scetticismo moderato, che lo induce a ritenere adeguate e accettabili
    soltanto le idee che trovano un riscontro empirico nelle impressioni; 
    L’illuminismo, che si traduce nella critica agli oggetti della metafisica
    e della religione naturale; 
    L’antropologia, che individua nell’uomo in quanto tale il proprio
    oggetto d’indagine. 
    Hume definisce percezione  ogni contenuto mentale, distinguendo le percezioni
    in impressioni e idee: le impressioni sono  percezioni del sensibile in
    atto,
    esperienze presenti e puntuali, chiare, distinte e vivaci, uniche portatrici
    di verità e criterio di tutto ciò che pretende di essere vero, mentre le
    idee sono una  riflessione su una passione o un oggetto che non è presente
    e, come tali, sono più deboli e confuse e, “per quanto vivaci, sono
    sempre inferiori alla più ottusa delle sensazioni”. Le impressioni sono a
    loro volta distinte in impressioni esterne, o di sensazione, e impressioni
    interne, o di riflessione, che riguardano passioni ed emozioni, che pur
    derivando da una sensazione esterna hanno la stessa vivacità. Riprendendo
    la tesi dell’immaterialismo di  Berkeley, Hume sostiene che il criterio di
    una conoscenza adeguata sia il confronto tra le idee e le impressioni  che le
    hanno generate, e non tra le impressioni e la realtà che nel senso comune
    esse rispecchiano e che tuttavia l’uomo non può che conoscere attraverso
    le impressioni stesse. Le impressioni costituiscono il punto di partenza
    imprescindibile, oltre cui un empirista non può ambire a spingersi, e di
    cui non si può conoscere la causa. Hume riprende da  Berkeley l’idea che
    
    essere significhi essere percepito  e che non si possa razionalmente
    dimostrare l’esistenza della materia indipendentemente dalla nostra
    percezione, ritenendo nonostante questo che sia ragionevole credere che la
    materia esista e non arrivare alle soluzioni estreme di Berkeley, secondo
    cui è Dio a generare in noi le impressioni. 
    Le impressioni riappaiono alla nostra mente sotto forma di idee grazie all’azione
    della memoria, che ne conserva la forma originale e la primitiva vivacità,
    e dell’immaginazione, che attribuisce alle idee una forma e un ordine
    diversi e opera attraverso il principio psicologico di associazione. Il
    processo di associazione delle idee è messo in moto da una  mild  o  gentle
    force, che genera una successione spontanea, non arbitraria e non
    inalterabile di idee e permette alla mente di spezzare il legame e
    ricomporlo creativamente. Il meccanismo di associazione opera secondo tre
    criteri: 
    Somiglianza: un’impressione o un’idea ne richiamano un’altra simile.
    La somiglianza può essere intesa come rapporto naturale che mette in
    relazione un ristretto numero di individui in virtù di una proprietà
    particolare (il rapporto che intercorre, ad esempio, tra Napoleone e un suo
    ritratto), o come relazione filosofica, che accomuna molti individui in base
    ad una proprietà generale (il rapporto tra Napoleone e una pianta in base
    alla comune natura vegetativa); 
    
    Contiguità nel tempo e nello spazio; 
    Causalità: un effetto richiama alla mente la sua causa, o viceversa. 
    In quanto empirista, Hume si propone di risalire alle impressioni che stanno
    all’origine del principio di causalità: empiricamente si possono
    riscontrare  la successione tra causa ed effetto, la loro contiguità
    spaziale e il rapporto di congiunzione costante, ma non la necessità, che
    nel senso comune è ritenuta costitutiva del rapporto tra causa ed effetto.
    Hume rifiuta la soluzione razionalista, secondo cui la necessità sarebbe un
    elemento a priori della conoscenza, un’idea innata, confutandola sulla
    base della distinzione che introduce tra due tipi di conoscenza: 
    La conoscenza delle relazioni tra idee (relations of ideas), fondata
    su proposizioni certe ricavate per  intuizione o  dimostrazione con una pura
    operazione di pensiero, come nella conoscenza matematica, su cui lo
    scetticismo non influisce; 
    La conoscenza delle questioni di fatto (matters of fact), che, come
    nella scienza naturale e nella metafisica,  è ritenuta vera solo se dimostra
    empiricamente l’origine delle idee. 
    Secondo Hume, è assurdo dimostrare una questione di fatto come quella della
    necessità con argomenti a priori e di conseguenza è l’esperienza a
    costituire il fondamento dei ragionamenti che riguardano i rapporti tra
    causa ed effetto. La necessità è dunque frutto di una credenza (belief),
    un processo psicologico generato dall’abitudine (custom o habit)
    e fondato sulla supposizione che “i casi di cui non abbiamo avuto
    esperienza assomiglino a quelli di cui l’abbiamo avuta”. La conformità
    del futuro rispetto al passato è una questione di fatto che non ammette
    altre prove se non quelle ricavate dall’esperienza, ma l’esperienza del
    passato non può provare nulla per il futuro, non può garantire l’uniformità
    della natura. La dimostrazione sintetica (a posteriori) della causalità si
    fonda su un procedimento induttivo, che giunge ad affermare la validità di
    una legge universale sulla base della ripetizione costante e concordante di
    una serie di casi particolari; ma  l’induzione, che prevede che un rapporto
    di causalità riscontrato in passato si ripeta necessariamente anche in
    futuro, ha come premessa fondamentale  la regolarità e uniformità della
    natura, che può essere a sua volta dimostrata soltanto attraverso l’esperienza
    empirica, e quindi  per via induttiva. 
    Questa critica sistematica alla metafisica tradizionale infligge un duro
    colpo alla fisica newtoniana, che presuppone la necessità come elemento
    costitutivo del rapporto di causalità, e sancisce il primato sulla
    conoscenza ricavata dalla ragione dell’istinto e dell’abitudine, vero
    fondamento della sintesi sperimentale. Mettendo in discussione la validità
    del rapporto causa-effetto, Hume rimuove anche il presupposto inconsapevole
    che regola costantemente i comportamenti dell’uomo, che in ogni momento
    agisce come se la causalità fosse una legge naturale e incontrastabile. A
    differenza di Cartesio, che riteneva la scienza molto più certa della vita
    comune, in Hume il sapere scientifico eredita la stessa accettazione
    acritica di idee del senso comune, e solo la filosofia è in grado di
    sottoporre queste idee inadeguate a una critica razionale. Così, mentre lo
    scetticismo cartesiano ha un carattere metodico ed è finalizzato all’acquisizione
    di una certezza incontrovertibile destinata ad annullarlo, Hume si riconosce
    in uno  scetticismo moderato, che non porta la critica ad estremi distruttivi
    ma al tempo stesso non può essere neutralizzato. 
    Nel meccanismo antropologico della credenza, irrinunciabile per l’uomo che
    cerca nella natura stabilità e prevedibilità, sono coinvolti, oltre al
    principio di causalità, anche l’esistenza del mondo esterno e dell’io
    personale. 
    L’esistenza del mondo esterno, ovvero l’esistenza degli oggetti
    continuata e distinta dalla nostra percezione, non può essere dimostrata
    dai sensi, che non possono presentarci le impressioni come indipendenti da
    noi e ci forniscono percezioni intermittenti e transitorie, ma dall’immaginazione:
    l’opinione dell’esistenza continuata dei corpi dipende dalla coerenza e
    costanza delle impressioni e si basa sull’abitudine e sulla necessità di
    attribuire al mondo esterno una regolarità maggiore di quella che vi
    possiamo osservare. A partire dalla convinzione che in natura ogni cosa sia
    individuale, Hume assume, come  Berkeley, una posizione nominalista: ogni
    impressione è completamente determinata in qualità e quantità, le
    immagini sono sempre particolari, ma vengono utilizzate come universali nei
    ragionamenti per via dell’abitudine di attribuire uno stesso nome a più
    individui per somiglianza. 
    L’indimostrabilità dell’identità dell’io personale si fonda sull’applicazione
    alla  res cogitans cartesiana della definizione di sostanza di Locke. La
    mente può quindi essere definita come collezione di contenuti mentali o
    come substratum, un’anima sostanziale che permane invariata al
    mutare dei contenuti mentali e a cui tutti i contenuti mentali ineriscono.
    La mente come substratum è ritenuta da Hume un’idea inadeguata,
    che non trova alcun riscontro empirico e non può essere oggetto di
    pensiero, dal momento che l’uomo è in grado di pensare alla propria mente
    solo nell’atto di compiere una certa attività e non in quanto tale, priva
    di contenuti mentali. L’io si riduce allora, secondo la definizione di
    Hume, ad un “fascio di percezioni che si susseguono con un’inconcepibile
    rapidità, in un perpetuo flusso e movimento”, senza una propria unità
    naturale. Hume individua la ragione che ci spinge ad “attribuire un’identità
    a queste percezioni successive e un’esistenza invariabile e ininterrotta a
    noi stessi” in un errore del pensiero e dell’immaginazione: quando
    attribuiamo agli oggetti un’identità continua e distinta dalla nostra
    percezione, si genera la finzione di qualcosa di invariabile e ininterrotto,
    un’identità fittizia che tendiamo ad attribuire a tutte le cose complesse
    e mutevoli della natura. Sostenendo l’indimostrabilità dell’identità
    personale, Hume riprende il problema della desostanzializzazione impostato
    da  Locke, che distingue tre specie di sostanze: Dio, la cui definizione
    implica una perfetta identità con se stesso, le intelligenze finite, la cui
    identità è determinata solo in relazione al tempo e al luogo, e i corpi.
    Locke ammette dunque la possibilità dell’esistenza di più di una
    sostanza in una persona e di più di una persona in una sostanza. 
     
    La morale 
    La morale, intesa come studio delle azioni umane, è per Hume impossibile da
    comprendere senza un’analisi dei  sentimenti e delle passioni, che non
    sono, in senso cartesiano, “percezioni rese confuse dalla stretta unione
    tra anima e corpo”, ma agiscono secondo un meccanismo regolare. Le
    passioni, distinte dalle emozioni per la loro vivacità, sono impressioni di
    riflessione interne, originarie, in quanto non copiate da percezioni
    precedenti, e al tempo stesso  derivate mediatamente da una sensazione che
    genera l’idea, che a sua volta, operando sull’anima produce nuove
    impressioni di desiderio o avversione, speranza o timore. Le passioni
    possono essere: 
    Passioni dirette, che derivano immediatamente da bene e male sensibili, sono
    universali e hanno un oggetto determinato. Le passioni  dirette sono:
     gioia e tristezza, che derivano dalla certezza del bene o del male, timore e
    speranza, che sono generate dall’incertezza del bene e del male,  desiderio
    e avversione, che hanno origine dal bene in quanto bene e dal male in quanto
    male, e volontà, che consiste nell’atto fisico o mentale di perseguire il
    bene o evitare il male; 
    Passioni indirette, derivate da bene e male sensibili con l’aggiunta di
    altri principi:  orgoglio (compiacimento di se stessi) e  umiltà (disgusto di
    se stessi),  amore (compiacimento per un’altra persona) e  odio (disgusto
    per un’altra persona). Orgoglio e umiltà sono passioni statiche, complete
    in se stesse, e non suscitano desiderio o avversione; amore e odio, invece,
    sono passioni dinamiche, generano desiderio o avversione per la felicità e
    possono diventare moventi di azioni. Il completamento dell’impulso all’azione
    generato dalle passioni dinamiche corrisponde alla volontà. 
    Un terzo genere di passioni comprende appetiti e bisogni fondamentali che ci
    portano a cercare il possesso dell’oggetto che è loro congiunto per
    raggiungere il piacere e nascono da un “impulso naturale o istinto
    assolutamente inesplicabile”. Queste passioni sono la vendetta, l’amicizia,
    la fame, la concupiscenza e altri desideri fisici. 
    Secondo Hume la ragione, “una vaga e tranquilla passione che guarda le
    cose da un punto di vista generale e remoto e che mette in moto la volontà
    senza eccitare alcuna sensibile emozione”, ha un ruolo puramente
    strumentale: non può stabilire il fine di un atto volontario né esserne il
    solo movente, dirige le azioni con un ragionamento ma non le genera, non
    produce azioni e volizioni e non può conferire né togliere la preferenza
    ad un’emozione.  La ragione è schiava delle passioni, che non può
    combattere senza la direzione della volontà, dal momento che “nulla può
    opporsi ad un impulso passionale se non un impulso contrario”. 
    Tra la fine del II e l’inizio del III libro del Trattato, è esposta la
    cosiddetta  legge di Hume (is-ought question o great division),
    che ambisce a provare l’indimostrabilità delle norme morali:  un
    ragionamento non è valido, e quindi non è dimostrata la conclusione, se da
    premesse sul piano dell’essere (piano descrittivo, in cui le proposizioni
    descrivono la realtà empirica e sono vere nella misura in cui la
    rispecchiano)  giunge a una conclusione sul piano del dover essere (piano
    
    prescrittivo, in cui le proposizioni esprimono un dovere e non possono
    essere vere o false). In virtù del criterio aristotelico di validità dei
    ragionamenti, i ragionamenti impiegati per giustificare le norme morali di
    carattere prescrittivo sono fallaci, dal momento che la conclusione non è
    implicitamente inclusa nelle premesse descrittive. Il fondamento della
    morale non è quindi la ragione, che non può stabilire il fine ultimo ma
    solo concorrere alla scelta dei giusti mezzi per perseguirlo, ma il 
    sentimento morale (moral sense), che già  Anthony Ashley Cooper,
    conte di Shaftesbury (1671-1713), aveva definito come la facoltà specifica
    per riconoscere, mediante una semplice percezione, il giusto, discernendolo
    da ciò che è moralmente negativo. Lord Shaftesbury aveva introdotto una
    distinzione tra passioni utili all’individuo e dannose per la comunità,
    utili all’individuo e alla comunità e dannose per l’individuo e per la
    comunità; a questa suddivisione Hume si ispira per individuare quattro
    generi di qualità morali: quelle che procurano piacere immediato a chi le
    possiede, quelle che procurano piacere immediato ad altri, quelle che
    procurano piacere mediato e utilità a chi le possiede e quelle che
    procurano piacere mediato e utilità ad altri. Questi quattro generi di
    qualità morali possono essere ricondotti a due categorie più generali, le
    qualità che procurano interesse personale e quelle utili alla società. L’obiettivo
    della morale era, secondo Shaftesbury, indirizzare i comportamenti umani a
    passioni utili all’individuo e alla società, e così per Hume la morale
    è utile solo se i doveri costituiscono anche un vero interesse per l’individuo:
    la virtù non deve essere ricoperta da un “abito di lutto”, dev’essere
    priva di “inutili austerità e rigori”, “sofferenze e umiliazioni” e
    non deve comportare il sacrificio del piacere se non con la speranza di un
    compenso maggiore in un altro periodo della vita. 
    Riprendendo la Teoria dei sentimenti morali di  Adam Smith, Hume ritiene che
    il criterio di valutazione morale si basi sulla simpatia, la “tendenza
    naturale a simpatizzare con gli altri e ricevere per comunicazione le loro
    inclinazioni e sentimenti per quando diversi o contrari rispetto ai nostri”,
    la causa dell’uniformità nel carattere e modo di pensare degli uomini di
    una stessa nazione. Quando una passione si insinua per simpatia, prima se ne
    manifestano gli effetti e i segni esteriori, che risvegliano l’idea, che a
    sua volta si trasforma in impressione e produce tanta emozione quanto una
    passione originale. La  simpatia  rende gli spiriti degli uomini simili nei
    sentimenti, così che nessuno può avvertire un’impressione che gli altri
    non possono; come la vibrazione si propaga da una corda ad un’altra
    ugualmente tesa, così le impressioni si trasmettono facilmente da una
    persona ad un’altra con cui ha in comune il sentire universale. Tramite il
    
    sentimento disinteressato di simpatia, secondo Hume, assimiliamo come nostro
    un sentimento altrui, come se provenisse originariamente dal nostro
    carattere e dalla nostra disposizione naturale, rendendoci capaci di
    addentrarci nel bene e nella fortuna di persone estranee, nelle loro cause
    ed effetti, per provarne gioia ed esprimerne una valutazione morale. La
    simpatia ha la funzione di ricordare all’uomo l’esigenza di principi
    generali di valutazione delle azioni e influenza il giudizio, permettendo di
    correggere i contrasti che derivano dalla libera manifestazione di interessi
    egoistici attraverso l’universalizzazione dell’agire umano. 
    Il sentimento di simpatia è connaturato all’essere umano ma può essere
    appannato dalle condizioni di vita e dall’educazione:  nella visione
    ottimista tipica dell’illuminismo, eliminando ignoranza, povertà e
    disumanità, la simpatia potrebbe svilupparsi fino a far coincidere l’interesse
    personale con il benessere collettivo della società. L’esempio più
    significativo dell’influenza dell’ambiente sociale sulla formazione del
    senso morale soggettivo è la giustizia, che sarebbe un valore superfluo in
    una realtà caratterizzata dall’abbondanza e dalla possibilità di
    soddisfare le esigenze di ciascuno, ma riveste un ruolo di indispensabile
    importanza per tutelare un vivere sociale privo di questa condizione di
    abbondanza, che ha bisogno di regole e criteri di distribuzione. Anche gli
    altri valori morali universalmente riconosciuti sono funzionali alla vita
    comune e la loro mancanza arrecherebbe danno alla vita sociale. Per questo
    motivo, Hume esalta l’obbedienza come virtù più importante dal punto di
    vista politico: nulla danneggerebbe la società più della mancanza di un
    governo che necessita, per esercitare la propria funzione, dell’obbedienza. 
    L’oggetto della valutazione morale non sono per Hume le azioni, “segni
    esterni o indici della presenza di certi principi nello spirito”, ma i
    moventi che le hanno generate, in cui si deve scoprire la qualità positiva
    o negativa, di bontà o malizia. Dal momento che non possono esistere tanti
    istinti originari quanti sono i sentimenti morali che proviamo, i principi
    generali su cui si fondano tutti i sentimenti morali  non possono che essere
    naturali e l’esperienza testimonia che sono profondamente radicati nella
    natura umana e che non esistono individui o nazioni del tutto privi di senso
    morale. Nonostante i principi dei sentimenti morali siano naturali, le
    virtù possono essere naturali, se caratterizzate da stabilità e
    continuità, o artificiali, se legate a particolari momenti storici. Il
    metro di valutazione dei comportamenti morali è la loro ricaduta sulla
    dimensione sociale: è da considerarsi moralmente positivo quanto va a
    vantaggio della società e moralmente negativo quanto la danneggia. 
     
    
    Il pensiero politico 
    Hume esprime il proprio pensiero politico in uno scritto del 1748, Del
    contratto originario, in cui cerca un punto di conciliazione tra la
    filosofia del diritto, che sostiene l’origine divina dei governi, e il 
    contrattualismo di  Locke. Secondo Hume, entrambe le posizioni sono
    legittime, ma nessuna delle due possiede un carattere universale: è vero
    che, come tutto ciò che esiste al mondo, i governi hanno origine divina, ma
    ciò non ne implica la bontà; è vero che gli uomini accettano di
    sottostare alle leggi per garantirsi una pacifica convivenza, ma questa non
    è una condizione universale di tutti i governi, molti dei quali sono nati
    da rivoluzioni o sottomissioni di popoli. 
    Hume focalizza la propria analisi politica sui doveri, distinguendo tra i
    doveri naturali dai quali nessun uomo può prescindere, come l’amore per i
    figli, e i doveri che devono essere rispettati per necessità sociale, come
    l’obbedienza. L’obbedienza civile e il rispetto dei governi sono
    tuttavia condizionati dalla loro legittimità, stabilita in base ai seguenti
    principi: 
    Il lungo possesso del potere, anche se ottenuto con un atto di usurpazione
    è fonte di legittimità; 
    Il potere presente è considerato comunque valido in mancanza del lungo
    possesso; 
    E’ legittimo il potere conquistato; 
    E’ legittimo il potere monarchico ereditario; 
    Sono legittime le leggi positive, stabilite da un potere legittimo. 
     
    
    Il pensiero religioso 
    Hume tratta il tema della religione in due scritti, la  Storia della
    religione naturale, in cui analizza le origini della religione dalle
    operazioni complesse della natura umana, e i  Dialoghi sulla religione
    naturale, che hanno lo scopo di individuare i fondamenti razionali della
    religione. Nel tentativo di mascherare le proprie posizioni scettiche, Hume
    sostiene che la critica al fondamento razionale della religione sia
    finalizzata ad aprire la strada all’affermazione della fede e della
    rivelazione. 
    Nella  Storia della religione naturale, Hume individua l’origine della
    religione nel terrore, nella necessità di cercare protezione e placare i
    timori per il futuro rivolgendosi a Dio, una causa ignota a cui l’uomo
    tende a trasferire passioni tipicamente umane. La religione non può,
    secondo Hume, fondarsi sui miracoli, che sono trasgressioni alle leggi della
    natura e alla sua uniformità e potrebbero essere considerati attendibili
    solo nel caso in cui la falsità della testimonianza fosse un prodigio
    superiore al fatto stesso. Nella vita quotidiana, ragioniamo sulla base
    delle testimonianze e raggiungiamo la certezza quando riscontriamo
    conformità tra testimonianza e fatti, ma la violazione delle leggi della
    natura non può mai raggiungere un grado di certezza tale da costituire il
    fondamento del sentimento religioso:  il miracolo è possibile a priori ma
    non raggiunge mai la certezza di una prova. 
    I Dialoghi sulla religione naturale  presentano maggiori difficoltà di
    interpretazione a causa delle correzioni apportate da Hume, non si sa se per
    un effettivo cambiamento di posizione o per non incorrere nella censura
    della Chiesa presbiteriana. I personaggi che intervengono nei  Dialoghi sono
    tre:  Demea, credente convinto, Cleante, che rappresenta la posizione deista
    basata sull’accettazione dei soli aspetti della religione dimostrabili con
    la ragione, e Filone, che incarna lo scetticismo moderato. Si è a lungo
    dibattuto se il pensiero di Hume debba essere individuato nella posizione di
    Filone o in quella di Cleante. Cleante si occupa di confutare le prove della
    metafisica tradizionale a sostegno dell’esistenza di Dio: 
    L’argomento a priori, basato sul principio che tutto ciò che accade ha
    una causa e sull’identificazione della causa prima incausata con Dio, è
    confutato sostenendo che non si possano dimostrare questioni di fatto con
    argomenti a priori. “Non c’è un essere la cui esistenza sia
    dimostrabile” perché niente è dimostrabile a meno che il contrario non
    implichi una contraddizione. 
    Hume confuta l’argomento  finalistico a posteriori, sostenendo la mancanza
    di prove empiriche che consentano di individuare il principio da cui deriva
    l’ordine del cosmo: sappiamo che c’è un principio di ordine nello
    spirito e per analogia siamo portati a credere che ci sia anche nella
    materia, ma i ragionamenti sperimentali per analogia non possono portare a
    conclusioni certe. 
    Gli argomenti morali, che intendono attribuire a Dio le virtù di giustizia,
    benevolenza, misericordia e rettitudine, sembrano essere confutati dalla
    miseria e malvagità dell’uomo: se Dio avesse la volontà di impedire il
    male ma non il potere, non sarebbe onnipotente, se invece ne avesse il
    potere ma non la volontà, sarebbe malvagio. 
    A conclusione dei Dialoghi, Hume afferma che “i principi di Filone sono
    più probabili di quelli di Demea, ma quelli di Cleante si avvicinano di
    più alla verità.”
     
    
 risorse
internet su Hume 
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