La voce del popolo, 17 giugno 2021, pag. 23

 

 

 

 

Paolo VI e le ACLI, 50 anni dopo

Il 19 giugno 1971 Paolo VI si rivolgeva ai Vescovi per deplorare l'orientamento assunto dalle ACLI. Ne parliamo con l'allora presidente Emilio Gabaglio

 

intervista di Maurilio Lovatti 

 

 

Il 19 giugno 1971, esattamente mezzo secolo fa, Paolo VI si rivolgeva ai vescovi italiani per deplorare l'orientamento assunto dalle ACLI: “Noi abbiamo visto con rammarico il recente dramma delle ACLI: e cioè abbiamo deplorato, pur lasciando piena libertà, che la direzione delle ACLI abbia voluto mutare l'impegno statutario del movimento e qualificarlo politicamente, scegliendo per di più una linea socialista...”. Voce ha intervistato in esclusiva Emilio Gabaglio, presidente nazionale delle ACLI dal 1969 al 1972, uno dei protagonisti di quella vicenda.

Nell'agosto del 1970, il convegno nazionale di studi delle ACLI di Vallombrosa aveva avanzato l'ipotesi socialista. Nella sua relazione affermava che l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione era condizione necessaria, ma non sufficiente per costruire una società più umana, non basata sul profitto. Nello stesso tempo criticava anche la proprietà statale delle imprese (come nell'URSS). Che tipo di nuova società avevate in mente? Come pensavate di poterci arrivare? Eravate consapevoli che gran parte del mondo cattolico percepì la proposta come confusa e utopistica?

Il convegno di Vallombrosa del 1970 costituisce il punto d’approdo della critica al capitalismo che le ACLI, guidate da Livio Labor, erano venute sviluppando nell’arco degli anni Sessanta in corrispondenza con la domanda di cambiamento espressa da una fase di grandi lotte sociali culminata poi nell’autunno caldo del 1969. Per noi allora l’alternativa al sistema capitalista doveva necessariamente misurarsi con soluzioni ispirate al socialismo, ovviamente nel pieno rispetto delle libertà democratiche. Nulla a che vedere, anzi l’opposto del “socialismo reale” di marca sovietica. Non eravamo d’altra parte i soli in questa ricerca: penso per esempio alla Cfdt, l’erede del sindacalismo cristiano francese, che proprio in quegli anni reclamava la socializzazione dei mezzi di produzione e l’autogestione operaia. C’era dell’utopia nei nostri propositi? Difficile negarlo, ma cinquant’anni dopo continuiamo a fare i conti con “l’economia dello scarto”, la crescita delle diseguaglianze, l’urgente necessità di garantire la “dignità” del lavoro e i diritti dei lavoratori.

Le ACLI avevano ormai stabilito, fin dal congresso di Torino (giugno 1969) il principio del pluralismo politico dei cattolici. Nonostante la Octogesima adveniens del 1971 avesse riconosciuto per i cattolici “una legittima varietà di opzioni politiche” e che “una medesima fede cristiana può condurre ad impegni diversi”, Paolo VI riteneva per l'Italia ancora indispensabile l'unità politica dei cattolici nella DC.

L’Octogesima adveniens sostiene anche altro. Parla del discernimento necessario per valutare il grado del possibile impegno dei cristiani in direzione del socialismo una volta assicurati i valori che consentano lo sviluppo integrale dell’uomo. Impegno condizionato ma non precluso a priori. Quando però feci notare al card. Benelli che la nostra “ipotesi socialista” poteva leggersi in questo quadro, la sua risposta fu: “L’Italia non è il Senegal”. Difficile pensare che le preoccupazioni maggiori in Vaticano non fossero di natura politica è cioè volte a preservare in ogni caso il sostegno del mondo cattolico alla DC, in funzione di contenimento del partito comunista più forte ed influente del mondo occidentale.
Aggiungo tuttavia che già in precedenza, in una fase ancora di pieno “collateralismo” con la DC, Paolo VI aveva espresso riserve sulla “politicizzazione” delle ACLI. Ne ho un ricordo personale. Nell’udienza concessa alla nuova presidenza nazionale dopo il congresso del 1966, egli rese esplicite le sue riserve rimarcando il fatto che le ACLI apparivano andare troppo “ad extra” rispetto alla loro natura e vocazione originaria.

Nonostante questo momento contingente di contrasto col Pontefice, tra Paolo VI e le ACLI vi è stata una ben più profonda sintonia di valori, di ideali, di visione pastorale e antropologica.

Non c’è dubbio che le ACLI debbano molto a Paolo VI a cominciare per così dire dal loro battesimo. E’ infatti mons. Montini sostituto della Segreteria di Stato che organizza l’incontro tra il nostro fondatore Achille Grandi e Pio XII che porta al “consenso” della Chiesa alla costituzione delle ACLI. Ma questo sarà solo il primo di una lunga serie di gesti di attenzione e di aiuto.
Il contrasto del 1971 - un momento doloroso per tutti - nulla toglie quindi alla figura di un Pontefice che non solo in ragione del suo insegnamento sociale, ma anche e non meno con con gesti concreti ha sempre dimostrato la sua comprensione e vicinanza al mondo del lavoro, anche a costo di suscitare lo “scandalo” dei benpensanti e degli ambienti padronali. Come accadde a Milano quando l’allora arcivescovo Montini rivolse la sua benedizione ai lavoratori elettromeccanici e alle loro famiglie, che per sostenere la lotta sindacale per il rinnovo del contratto di lavoro si riunirono in gran numero proprio il giorno di Natale nella piazza del Duomo del capoluogo lombardo.

 

 

Emilio Gabaglio con Maurilio Lovatti in occasione della presentazione del libro Giovanni XXIII, Paolo VI e le ACLI (Roma, 12 aprile 2019)

 

La voce del popolo, 17 giugno 2021, pag. 23

indice degli articoli

Maurilio Lovatti main list of papers