Maurilio Lovatti

Il caso del questore di Brescia Manlio Candrilli

 

 

Il ruolo del questore Candrilli nella deportazione degli ebrei nei campi di sterminio
(citazioni scelte dal libro di Marino Ruzzenenti)

 

 

 

Non tutti gli ebrei riuscirono a mettersi in salvo prima del tragico 10 dicembre 1943, quando con sorprendente tempestività iniziò a Brescia la caccia all'ebreo. Il questore Manlio Candrilli era evidentemente già allertato, con gli elenchi sulla sua scrivania (gli stessi consegnati un mese prima ai tedeschi), con "sei squadre di polizia comandate al rastrellamento", pronto a far scattare la trappola, prima che gli ultimi ebrei rimasti potessero sfuggirgli. L'ordine era stato emanato soltanto il giorno prima, il 30 novembre, con l'ordinanza di polizia n. 5 firmata da Guido Buffarini Guidi, ministro dell'interno della Rsi. Questa disponeva che:

"Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni mobili e immobili devono essere sottoposti a immediato sequestro in attesa di essere confiscati nell'interesse della Rsi (…) Siano pertanto concentrati gli ebrei in campo di concentramento provinciale, in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati". (pag. 73)

Il sequestro dei beni di Guido Dalla Volta

Ma sin dal 13 dicembre lo zelante questore Candrilli, di sua iniziativa (non erano ancora state emanate disposizioni esplicite in tal senso!), aveva proceduto presso la locale Banca S. Paolo al fermo del conto corrente intestato al Dalla Volta n. 3713 con deposito £ 13.499,70, anticipando un'analoga iniziativa, del successivo 31 dicembre, su ordine della Banca d'Italia che disponeva presso la locale sede del Credito agrario bresciano il fermo del conto corrente corrispondenza n0 2095 intestato all'ebreo in oggetto e alla di lui moglie Emma, anche ebrea, di £ 18.732,85. Del 18 gennaio 1944 è il decreto N. 1598 di sequestro dei beni, con nomina del rag. Rocco Salatino, sequestratario. Anche la moglie Emma subì la vessazione della confisca dei beni personali, che non potevano sfuggire all'occhiuto Candrilli:

...comunico che questo ufficio ha disposto il fermo presso la locale sede del Credito italiano di numero 24 azioni Sameis depositate presso la citata sede della nominata Viterbi Emma fu Ettore e fu Levi Enrichetta nata a Mantova il 10 settembre 1893, ebrea, moglie del soprascritto Dalla Volta. Ha pure disposto il fermo di azioni del Prestito Città di Mantova 4 per cento = capitale nominale di £ 9.300, nonché un conto corrente depositati anche da Viterbi Emma [...] Con l'occasione comunico che la citata Viterbi dai primi del corrente mese si è allontanata da Brescia per ignota direzione.

Ma il questore non era ancora soddisfatto, sicché il 18 gennaio poteva informare che, "da indagini eseguite, questo ufficio è riuscito a rintracciare buona parte dei mobili dell'appartamento del Dalla Volta presso i depositi della Impresa generale trasporti Fert con sede in Brescia via Tresanda del Sale n° 1,  presso cui erano stati depositati verso i primi del decorso dicembre", mobili poco dopo ceduti ai tedeschi: "La partita di mobili depositati presso l'impresa Fert e di cui all'unita distinta è stata data in uso alla Gendarmeria Politica germanica con sede in Brescia in via Boifava 11. Come si vedrà, sia le sedi occupate dai tedeschi che gli arredi delle stesse in gran parte furono prelevate agli ebrei, in competizione spesso con le autorità della Rsi, quando non con le mire predatorie di singoli gerarchi. (pag. 87-88)

L 'incredibile vicenda di Ugo Coen, conteso tra i fascisti e i nazisti

Si ricorderà che Ugo Coen, in forza anche della sua convinta adesione al fascismo (era centurione della Milizia), aveva cercato ed ottenuto un distacco netto dalla sua antica origine ebraica, acquisendo nel 1942 non solo l'appartenenza alla "razza ariana", ma anche la cancellazione dell'ultima traccia che lo legava a quello scomodo passato, il cognome, con l'assegnazione di uno nuovo, Cieli, per sé e per il figlio Dante.
Ciononostante, con la costituzione della Rsi, le disgrazie per il Coen non finirono. In data 28 settembre 1943 gli venne sequestrata, con decreto della prefettura e per ordine del militàrkommandantur germanico di Brescia, un'auto-vettura Fiat, 1100 cabriolet, probabilmente ancora intestata al vecchio cognome Coen. Il Coen, alias Cieli, quindi, presentava istanza di rimborso per £ 35.000, provocando involontariamente un certo risentimento nel capo della Provincia, il quale chiedeva alla questura di "accertare l'arianità del rag. Ugo Coen"'. La questura rispondeva richiamando i decreti del ministero dell'interno del 1942 per cui "non è considerato di razza ebraica", missiva su cui il capo della Provincia, Barbera, annotava a margine: "Le deliberazioni di quell'epoca non sono valide". Il 18 dicembre, come già rammentato, il prefetto dava disposizioni con propria circolare per l'immediato sequestro di tutti i beni degli ebrei, per cui il 21 dicembre, ripresa in mano la pratica Coen, comunicava al questore: "si significa che il rag. Ugo Coen non può essere considerato di razza ariana, bensì di razza ebraica, e pertanto dovrà procedersi al sequestro dell'automobile Fiat 1100 targata Bs 1437, requisita dal Comando germanico di Brescia, e di tutti i beni mobili ed immobili, di proprietà della persona suindicata, che dovrà essere avviata in campo di concentramento ai sensi della Circ. Min 1 dicembre 1943 n. 3711". Ma, essendo la nota pervenuta il 29 dicembre, il questore comunicò il 1° gennaio 1944 (si noti la data: per la caccia agli ebrei Candrilli rinunciava anche a festeggiare il Capodanno!) "che non si è potuto dare esecuzione a quanto richiesto (…), essendo stato il rag. Coen tratto in arresto dalla locale Gendarmeria germanica. Lo studio professionale sito in via Ettore Muti n0 24 trovasi chiuso e le chiavi sono state asportate unitamente a carteggio che era colà giacente dalla Gendarmeria germanica, mentre nell'abitazione, sottoposta anche a perquisizione, sita in via Bronzetti n° 7 trovasi soltanto la cameriera la quale peraltro ha fatto conoscere di aver avuto dalla detta Gendarmeria ordine di non farvi accedere chicchessia e per nessun motivo".
A questo punto la vicenda assume i toni del paradosso. Attorno all'arresto del Coen si era involontariamente scatenata una competizione fra fascisti e tedeschi. Ma ciò che più sorprende e dà l'idea delle più profonde intenzioni della Rsi è che da parte dei fascisti si volesse deportare anche uno come Coen, riconosciuto non ebreo, con un nuovo cognome e per di più fascistissimo. E' un'ulteriore indicazione di quella rottura in senso estremista e fanatico che in qualche modo operò la Rsi rispetto al fascismo del ventennio precedente.

L'intricata questione dei misti

Ciò che stupisce, inoltre, in questo accanimento del prefetto e del questore di Brescia è che nel frattempo l'ordinanza di polizia n. 5 era stata in parte rivista delimitandone, anche se solo "per ora", l'estensione. Il nuovo capo della polizia Tamburini il 10 dicembre 1943 aveva emanato una nuova ordinanza: "…ebrei stranieri devono essere assegnati tutti at campo di concentramento. Uguale provvedimento deve essere adottato per ebrei puri italiani, esclusi malati gravi et vecchi oltre 70 anni. Sono per ora esclusi i misti e le famiglie miste salvo adeguate misure di sorveglianza". E che questa ordinanza fosse perfettamente a conoscenza sia del Candrilli che del Barbera è attestato dalla liberazione, dagli stessi disposta il 14 dicembre 1943, di Sacerdoti Dina Wanda (di cui si dirà più avanti), proprio sulla base di quell'ordinanza. Si è di fronte, in questo caso come in altri, ad una gestione del tutto arbitraria e discrezionale della sorte degli ebrei, una sorta di gioco macabro con le loro vite, una gestione probabilmente condizionata da imponderabili fattori, come antipatie o rivalità, o amicizie importanti o, forse anche, da argomenti più concreti, pratiche peraltro diffuse a livello nazionale, anche se nel Bresciano non sono rintracciabili prove al riguardo.
Si noti che l'esclusione dei misti era peraltro una prassi seguita in generale anche dagli stessi nazisti (nel rastrellamento di Roma, ad esempio, ed anche nella richiesta degli elenchi degli ebrei presentata dal comando germanico di Brescia il 15 ottobre); del resto il semplice buon senso faceva capire anche ai più intransigenti come la deportazione di un "misto" avrebbe arrecato un danno irreparabile anche al coniuge o genitore "ariano".
La stessa definizione di "misto", comunque, non era univoca: in particolare tra italiani e tedeschi vi erano divergenze normative rilevanti (ad esempio nel caso degli italiani per i figli era fondamentale il battesimo prima del 10 ottobre 1938; mentre per i tedeschi era dirimente non avere tre avi completamente ebrei e, nel caso di due, non essere iscritti alla comunità israelitica ed essere sposato con un non ebreo o essere nato da un matrimonio celebrato prima dell'entrata in vigore della legge). Va anche fatto notare che per le autorità italiane le esclusioni introdotte il 10 dicembre 1943 non valevano per gli ebrei stranieri, destinati allo sterminio senza eccezione alcuna, compresi gli ebrei tedeschi, introducendo in questo caso un potenziale conflitto con gli stessi nazisti, come si vedrà.

 

I gerarchi della Rsi conoscevano il terribile segreto

Tornando alla drammatica vicenda di Ugo Coen, il capo della Provincia Barbera, vuoi per la nuova ordinanza di Tamburini, vuoi per probabili pressioni di qualche gerarca fascista, sembrò avere un ripensamento ed il 2 gennaio scrisse una lettera indirizzata al comando tedesco, chiedendo che venisse disposta "la immediata scarcerazione del rag. Ugo Coen" perché "a seguito di ulteriori accertamenti" "è da ritenersi che (…) appartenga effettivamente alla razza ariana". Ma la lettera non partì. barrata con una croce e, con annotato a mano da Barbera, "attendere": preferì, prudentemente, chiedere il parere al ministero dell'Interno il 3 gennaio, onde evitare "di incorrere in eventuali rilievi da parte del locale comando germanico".
Nel frattempo venne fatto fortunosamente pervenire al capo della Provincia, probabilmente attraverso qualcuno che aveva accesso al settore delle carceri di Canton Mombello controllato dai tedeschi e indirettamente attraverso la GNR, un biglietto manoscritto a matita su un piccolo foglio rosa pieghettato in formato di 3 per 5 centimetri:

E' urgente e necessario che i consoli Volante e Valzelli si accordino col Comando e la Gendarmeria germanici perché non mi portino via di qui se no è finita.

Quell'è finita suona come l'estremo appello, agghiacciante, di chi sa di essere destinato alla morte, alla "soluzione finale" per l'appunto, di un centurione della GNR che nel proprio ambiente aveva raccolto le voci su quale terribile flagello si stesse abbattendo sugli ebrei e che per questo inviava l'ultimo disperato grido di soccorso ai suoi camerati, ai capi della Gnr che fino al giorno prima aveva fedelmente servito e che, come lui, sapevano.
Immediatamente il capo della Provincia si attivò per cercare di prendere tempo con il Comando tedesco: "in attesa di tale decisione [del ministero dell'interno, nda] vi prego di disporre perché il predetto Coen Ugo rimanga in Brescia a disposizione di questa Prefettura". Lo stesso Ernesto Valzelli, comandante della 15° legione della GNR, intervenne dichiarando che "il Centurione Coen rag. Ugo è ufficiale di questa Legione". Finalmente il 12 gennaio il capo della Provincia decideva di interporsi con fermezza alla deportazione del Coen: "in considerazione che l'Ufficiale in oggetto appartiene ai quadri della 15° legione della Gnr e come tale NON può rimanere associato nelle locali carceri giudiziarie, si dispone che il centurione Coen rag. Ugo sia trasferito a disposizione di questa prefettura nel Castello di Brescia in custodia al Comandante della 15° Legione della GNR in attesa della definizione della sua posizione razziale". Ma due giorni dopo il primo tenente e comandante Peek della Gendarmeria di via XX Settembre rispondeva che il Coen "venne consegnato il 30 dicembre 1943 dalla gendarmeria 733 al servizio di sicurezza (S.D.) in Verona". Nel frattempo, inutilmente, dal ministero dell'interno partiva la "conferma che il sig. Coen Ugo, (…) è da considerarsi tuttora non appartenente alla razza ebraica", per cui il capo della Provincia il giorno stesso disponeva la sua immediata, quanto praticamente inefficace, scarcerazione. Da due appunti manoscritti di Barbera ("Per l'affare Coen telefonare al Militaerkommandantur 1009 Verona" e "Verona - Polizia segreta. Befehlshaber der Sicherheitspolizei") si può dedurre che la pressione, sia degli organi istituzionali che dei capi del fascismo di Brescia, si fosse concentrata su Verona, conseguendo alla fine la liberazione del Coen. La conferma si trova in un memoriale dello stesso Coen, senza data, ma presumibilmente del febbraio 1944, in cui l'interessato dichiarava: "anche le SS germaniche, comando di Verona, ebbero ad interessarsi della posizione del rag. Ugo Coen e dichiararono anche per iscritto che non vi era ragione alcuna di provvedimento di sorta, in quanto il Coen Ugo è in regola non solo con la legge italiana, ma anche con quella germanica. In effetti, il 7 febbraio 1944, venne ribadito dal ministro dell'Interno che Coen aveva diritto a sostituire il proprio cognome con quello di Cieli.

La sorte altalenante dei misti

Come si è visto, per i "misti", che a Brescia erano particolarmente numerosi, anche dopo la nuova ordinanza di polizia del 10 dicembre 1943 la situazione era tutt'altro che tranquilla. Il "per ora" che accompagnava l'esclusione non poteva non echeggiare sinistro alle orecchie degli interessati. Molti ebrei misti bresciani non si fidarono e comunque cercarono di fuggire sottraendosi al rischio di un possibile ripensamento delle autorità della Rsi o ad una sfavorevole interpretazione dei tedeschi.
E' il caso, già citato, di Cino Orefici o della professoressa del Liceo Calmi Pia Treves che si rifugiò con la famiglia presso i nobili Pontoglio Bina, nella frazione Rucco di Roé Volciano.
Altri, come il professor Dario Riso Levi, pur essendosi in un primo tempo, nel novembre 1943, allontanato da Brescia per rifugiarsi a Verolanuova in casa di parenti della moglie, si sarebbe lui stesso fatto vivo presso le autorità della Rsi nell'aprile 1944, come vedremo, evidentemente nella convinzione che comunque sarebbe stato risparmiato.

Per altri invece in un primo tempo scattò l'arresto da parte della Rsi.
Ottolenghi dott. Giorgio, di Adolfo nato a Milano il 7 novembre 1903, residente a Rovato, ebreo, in un primo tempo, il 10 dicembre 1943, fu arrestato per il successivo internamento dai carabinieri di Rovato, vicebrigadiere Induni Carlo, appuntato Ogliari Antonio e carabiniere Colleoni Antonio, e tradotto nelle carceri di Rovato, da dove venne liberato il 21 gennaio 1944 su ordine della questura: "Poiché il soprascritto Ottolenghi è coniugato e convive con l'ariana Battagli Cristina di Valerio nata a Costantinopoli il 13 ottobre 1909, prego codesto comando disporre l'escarcerazione e sottoporlo ad assidua vigilanza, segnalando a questo ufficio eventuali emergenze e spostamenti".

 Stessa sorte toccò inizialmente a Sacerdoti Dina Wanda, nata a Venezia l'8 luglio 1914, ebrea, sfollata da Milano con la famiglia a Palazzolo sull'Oglio dove fu arrestata ai primi di dicembre del 1943. Pochi giorni dopo, il marito, tal Lovisoli, disperato, presentò un esposto al capo della provincia di Brescia:
il giorno 3 dicembre u. s. veniva in Palazzolo arrestata dai Carabinieri locali, pare su istanza del commissario del PFR (partito fascista repubblicano, ndr) del luogo, la moglie dell'esponente, Sacerdoti Dina Wanda, e tradotta alle carceri di Brescia perché ritenuta di razza ebraica"; il Lovisoli faceva "sommessamente" presente che essa era figlia di padre nato da matrimonio misto e che era coniugata dal 2 giugno 1938, "anteriormente ad ogni norma razziale", con lui, "ariano", e con matrimonio cattolico, alla cui religione la stessa si era convertita; inoltre avevano un figlio maschio di 3 anni regolarmente battezzato, (...) privo di quelle cure materne che sono per la sua tenera età indispensabili. (…) Per quanto esposto ed in particolare a nome del piccolo figlio Gianfranco si permette il ricorrente di fare istanza perché la moglie venisse messa in libertà. Venne liberata il 14 dicembre 1943 "in ottemperanza alle disposizioni diramate dal ministero con la circolare telegrafica dell'11 corrente n. 57460, (…) perché coniugata con l'ariano Lovisoli Augusto". Si noti quindi che già dal 14 dicembre veniva data attuazione da Candrilli, in questo caso correttamente, alla nuova ordinanza di polizia del 10, mentre nel caso di Ugo Coen, già riconosciuto non ebreo, da sempre battezzato, la caccia iniziò il 21 dicembre. (pag. 91-95)

Candrilli implacabile ingranaggio dell'efficiente macchina di Eichmann

Abbiamo già visto le terribili vicende dei Dalla Volta e di Massimo Lowy.
Ora ne consideriamo alcune altre, in cui la tragedia della deportazione si accompagna anche alla lugubre farsa della maniacale spoliazione di ogni bene.
Fu il questore Candrilli ad ordinare la cattura di due ebrei residenti in una sperduta borgata in collina di una frazione di Gavardo, Benecco di Soprazzocco, dove evidentemente si erano rifugiati ritenendosi al sicuro, lontano dai centri controllati dalla Rsi, ma esposti alla segnalazione di qualche anonimo delatore. Lo stesso questore ne dava informazione alla prefettura, agli inizi del 1944: "la stazione carabinieri di Gavardo ha proceduto il 22 dicembre decorso, a richiesta di quest'ufficio, all'arresto di Davide Arditi fu Beniamino nato a Varna il 16 febbraio 1883, commerciante, e della moglie Rifka Yerohan di Yerohan nata a Pleven il 3 gennaio 1885, entrambi cittadini italiani e di razza ebraica". Arditi Davide verrà ucciso all'arrivo ad Auschwitz il 26 febbraio 1944, avendo già 61 anni, la moglie Jerohan o Jerchan (così nell'elenco della Picciotto) morirà in luogo e data ignoti". (pag. 113)

Il questore Candrilli, infaticabile, attua la collaborazione di tutto l'apparato della Rsi

Ma Candrilli non si limitò alla caccia agli ebrei della provincia di Brescia, quelli compresi negli elenchi consegnati ai tedeschi ai primi di novembre del 1943. Ogni minima traccia del passaggio o di una remota presenza di ebrei sul territorio, o di loro proprietà, venne rinvenuta con fiuto da segugio e seguita con la massima tenacia. Vennero a tal fine attivate tutte le propaggini periferiche dell'apparato repressivo, le stazioni locali dei carabinieri e della GNR, i podestà, i fiduciari dei fasci loculi, i funzionari degli uffici imposte, delle banche, ma anche semplici delatori. A tal fine il 3 gennaio 1944 inviava una circolare a tutti i podestà per richiedere l'elenco degli ebrei residenti al 10 dicembre 1943 e, qualora si fossero allontanati dal comune, la località di destinazione.
Nel contempo Candrilli raccoglieva tutte le informazioni sugli spostamenti degli ebrei scoperti e sistematicamente le inviava alle altre questure interessate sollecitandole al "rintraccio" e alla successiva deportazione, ma anche a trasmettere alla questura di Brescia un rapporto su quanto era stato fatto, instaurando con le stesse una sorta di controllo incrociato. Le "pratiche" relative agli ebrei espletate personalmente e firmate da Candrilli sono diverse centinaia, si può dire che non passava giorno (neppure il 1° dell'anno, come si è visto) che Candrilli non si occupasse del problema ebraico, definito inesistente dal suo predecessore nel 1938. Fra a tal punto meticoloso da occuparsi anche delle sorti di alcuni disgraziati ebrei moribondi e ricoverati in case di cura di Brescia, di cui relazionava puntualmente la prefettura.
Numerosi furono i podestà o commissari prefettizi che si distinsero nella campagna contro gli ebrei e non possiamo che dar conto di alcuni casi tra i più significativi, da cui a volte partiva l'iniziativa che poi, tramite la questura, si prolungava, spesso, anche fuori dai confini provinciali interessando altre questure.
Fu il caso del commissario prefettizio di Borgo S. Giacomo, Giuseppe Lazzaroni, che, in seguito a pratiche amministrative, si premurò di segnalare subito la "scoperta" di un'ebrea: "Si comunica che Ascoli Elisa fu Simone, credesi residente in Milano, ebrea, possiede in questo Comune un molino idraulico e 7 piò di terreni adiacenti. L'Ascoli non risiedette mai in questo Comune e si venne a conoscenza della sua qualità di ebrea nello svolgere le pratiche dei figli, Levi Graziano fu Primo e Levi Livio fu Primo". Subito scattò la macchina investigativa del Candrilli: sollecitati i carabinieri del luogo, si scoprì che l'Ascoli era completamente sconosciuta a Borgo S. Giacomo e che era invece residente a Milano. Immediata, quindi, l'attivazione di quella questura:

"Prego pertanto far conoscere se l'Ascoli sia effettivamente costà residente e di indicare nell'affermativa se sia stata arrestata in ottemperanza alle note disposizioni razziali oppure se cotesto ufficio abbia diramato ricerche per conseguirne l'arresto."

Fu il commissario prefettizio di Chiari, Piero Cassani, ad inviare presso i carabinieri per l'arresto l'ebrea, sfollata da Milano, Baumgarts Bassia, che, poi, verrà dispensata dalla deportazione in quanto coniugata con "ariano". (pag. 117-118)

In un caso, le segnalazioni di Candrilli alle diverse questure colpirono l'obiettivo. A Gardone Riviera, come già si è accennato, in Corso Zanardelli 24, vi era un negozio di bigiotteria, chincaglierie, pelletterie e oggetti ricordo, Alla bomboniera, gestito da Umberto e Arturo Soliani, nel 1938 iscritto negli elenchi degli appartenenti alla "razza ebraica", nonostante non risultassero associati alla comunità israelitica di Mantova. Arturo, il più anziano, era il capo famiglia ed era sposato con Lina Terracina insieme con il fratello Umberto costituivano una unica famiglia".
Durante il periodo badogliano avrebbero lasciato il loro domicilio in via Roma 92, per riparare nella capitale, città da cui proveniva la moglie, probabilmente nella convinzione di portarsi in prossimità del fronte e quindi della liberazione.
Il questore, ai primi di gennaio 1944, si occupava di Soliani, il quale "si era allontanato per ignota direzione da Gardone unitamente alla moglie Terracina Elvira, anche ebrea, dopo aver venduto a certo Ferrario Paolo di Pasquale nato a Milano il 10 dicembre 1903, domiciliato a Cernobbio, villa Sorriso, il suo negozio di pelletteria e di regalo valsente £ 250 mila circa. Poiché non è da escludersi che il Soliani sia ricorso ad una vendita fittizia per sottrarre le sue attività ad una procedura di confisca, reputo opportuno segnalare quanto sopra all'Ecc. V. [capo della Provincia] per gli eventuali provvedimenti che si riterranno opportuni". Anche sulla base di un'informativa della compagnia dei carabinieri di Salò del 7 gennaio successivo, venne appurato che "gli ebrei in oggetto hanno lasciato Gardone Riviera verso la fine di luglio u. s., a quanto pare diretti a Roma, via Galvani 33 B". La segnalazione raccolta dal questore Candrilli era precisa e circostanziata, tale da permettere al capo della Provincia di attivare le prefetture di Roma, Milano e Como trasmettendo tutte le informazioni raccolte, compreso il nuovo recapito nell'Urbe". Dieci giorni dopo, il 4 febbraio 1944, i fratelli Soliani furono arrestati da italiani a Roma, inviati prima a Fossoli ed il 16 maggio 1944 ad Auschwitz: Arturo risulta deceduto a Flossenburg nel 1945 ed Umberto a Dachau il 15 marzo 1945".

La rete stesa da Candrilli si dimostrò efficiente anche nel catturare un ebreo di passaggio, in fuga per la Svizzera. Si trattava di Lorenzo Sacerdoti fu Moisè nato a Treviso il 12 aprile 1885, residente a Milano in via Marconi 48, ebreo, che venne arrestato il 3 dicembre 1943 a Palazzolo sull'Oglio, dove si era portato "unicamente per tentare di espatriare clandestinamente in territorio svizzero e di sottrarsi in tal modo ai noti provvedimenti di polizia". Quindi venne tradotto a Milano e "associato alle locali carceri a disposizione delle autorità germaniche. Si ignorano i provvedimenti adottati nei suoi confronti". In effetti fu deportato prima a Fossoli e poi da qui il 5 aprile 1944 ad Auschwitz, senza ritorno. Risulta deceduto in luogo ignoto dopo il 30 aprile l944. (pag. 126)

Il caso di Alfredo Russo

Nelle stesse condizioni di solitudine e di abbandono si trovò anche un altro ebreo austriaco, Alfredo Russo, con l'aggravante di essersi rifugiato nel 1939, pensionato dal teatro di Merano. proprio in quel Gardone Riviera che sarebbe diventata la tana del lupo. a due passi dalla residenza di Mussolini e dagli apparati di potere della Rsi.
Russo Alfredo fu Israele nato a Vienna il 25 settembre 1871 ebreo. domiciliato a Gardone Riviera, veniva prima arrestato e poi subiva il sequestro di quanto possedeva, nella camera in affitto in via Roma 91, ad opera dei carabinieri, maresciallo maggiore Gavinelli Pierino e appuntato Gorcai Pietro, il 27 dicembre 1943: dal verbale risultavano oltre a pochi abiti, 157 libri in lingua tedesca.
Il Russo non aveva parenti che potessero intervenire in suo aiuto, ma accadde, ed è l'unico caso verificatosi nel Bresciano, che un italiano, anzi un'italiana, senza legami di parentela si esponesse di persona. con grande coraggio, per chiedere la sua liberazione. Ai primi di gennaio del 1944 una nobildonna di Merano. Luisa Lerber contessa Saracini, si rivolse, con un'istanza scritta col cuore, al prefetto di Brescia:

Eccellenza, se il viaggio non fosse così difficoltoso e la mia età così avanzata. mi sarei presentata di persona. Devo spiegarvi. Eccellenza, in poche righe il fatto che mi sta a cuore e che mi induce a rivolgermi a voi. Si tratta di un prigioniero nelle carceri di Salò, il signor Alfredo Russo. tradottovi perché di razza ebrea. Egli è suddito tedesco (viennese) ma ha vissuto 40 anni a Merano. dove, membro del Civico Teatro, fu considerato cantante di valore. Nel 1939 si portò a Gardone, dove condusse una vita assai era ma. La sua pensione gli fu levata e sua moglie, preferendo unirsi ad un 'ariano' lo lasciò per un ricco prestinaio di Innsbruck. Russo è una persona affatto innocua, d'uno spirito gaio, gioviale, felice quando può stare al sole e dire una buona parola a ciascuno che l'avvicina. Ha 73 anni, è ammalato d'artrite. acquistata nella misera e umidissima stanzetta occupata a Gardone, via Roma casa Bacca. La prigione lo sfinisce. I suoi dolori sono insopportabili. Ha le mani contratte e non può più aprire le dita. Non so se voi. Eccellenza, trovate opportuno intromettervi in questo caso pietoso, ma delicato nei tempi che corrono. Le mie righe non sono altro che una semplice preghiera dinnanzi all'altare della carità cristiana. Sono fiduciosa che voi le interpreterete in questo senso e non mi terrete il broncio per la mia audacia. Se si potesse almeno concedere un lettino d'ospedale a quel poveretto! Temo che non sia possibile rilasciarlo. Voi, Eccellenza, non mi conoscete. Se l'avvocato dott. Camillo Lozzi si trovasse di nuovo a Brescia e non più a Monfalcone. vi potrebbe dare le dovute spiegazioni sul mio conto. Ossequi e complimenti a voi. Eccellenza .

La lettera fece breccia nella coscienza del capo della Provincia di Brescia, Barbera, che annotava a margine di Suo pugno: "liberarlo in considerazione delle sue precarie condizioni di salute. Aderire presto notizie del Com[missario] prefettizio e dell'Arma e rispondere alla…" Quindi faceva partire con tempestività le richieste perché venisse informato "con sollecitudine" sul "carattere morale e civile, oltre che politico del Russo, indirizzate al podestà di Gardone e al ten. col. Masina comandante dei carabinieri". Una vera corsa contro il tempo condivisa dallo stesso podestà che subito riscontrava: "Da quanto risulta a questo Comune il Russo viveva mediante una piccola pensione e attraverso l'assistenza di varie famiglie gardonesi. Il carattere mite e la buona condotta tenuta dal suddetto hanno valso a destare una buona opinione sul suo conto da parte della popolazione locale". Dello stesso tenore il rapporto informativo di Masina, il quale, dopo aver ribadito che non vi era nulla di negativo a carico del Russo, concludeva: "si esclude che egli sia pericoloso per l'ordine pubblico". Barbera, il giorno stesso, passava un appunto al proprio capo di gabinetto perché predisponesse la lettera al questore. Quindi finalmente partiva l'indicazione del capo della Provincia alla questura, spedita il 26 gennaio: "Prego esaminare l'opportunità di far liberare dal carcere l'ebreo in oggetto in considerazione che trattasi di un vecchio di 73 anni innocuo".
Secca la riposta dell'implacabile questore Candrilli, il successivo 8 febbraio:
"comunico che l'ebreo in oggetto in data odierna è stato avviato al campo di concentramento di Carpi come da ordine telegrafico dell'Eccellenza il capo della polizia [Tullio Tamburini, ndr] del 4 corrente n. 20 17/447/024. Non si è potuto esaminare l'opportunità della sua liberazione per l'età avanzata in quanto nessuna sospensione dell'internamento è stata prevista dal ministero nei confronti degli ebrei stranieri". A questo punto al capo della Provincia non rimase che il penoso compito di rispondere alla contessa Saracini: "Sono spiacente di comunicarvi che non mi è stato possibile aderire alla vostra richiesta..".
In questa vicenda angosciante sono importanti anche le date. La disposizione della prefettura per la liberazione del Russo era del 26 gennaio e lo stesso era ancora a Brescia nelle mani del questore Candrilli che avrebbe potuto liberarlo aderendo all'atto di clemenza, come nel caso già esaminato dei Levi Minzi. Russo era, però, ebreo tedesco e pochi giorni prima, esattamente il 21 gennaio, Candrilli era stato costretto, obtorto collo, dallo stesso prefetto a liberare le sorelle Lowy su pressione tedesca. I due casi sono in certo modo speculari e non può sfuggire che in questo inumano accanimento nei confronti del Russo vi sia anche una sorta di ritorsione da parte del Candrilli per l'affronto subito con l'imposizione della messa in libertà di due ebree che a tutti gli effetti, a suo parere, meritavano la deportazione.
E' arduo, di fronte alla vicenda di Russo, sostenere che la Rsi avrebbe arrestato gli ebrei per evitare loro la deportazione per lo sterminio e che il vero obiettivo sarebbe stato di mandarli in campi di lavoro. Un vecchio di 73 anni, malato d'artrite, che lavoro poteva svolgere? Che senso aveva questa testarda determinazione del Candrilli a deportarlo, anche contro il parere del capo della Provincia, se non quello di spedirlo alla "soluzione finale"?
Sia Alfredo Russo che Malvine Weinberger fecero parte dello stesso convoglio di Primo Levi e furono eliminati all'arrivo ad Auschwitz il 26 febbraio l944.
Ambedue hanno lasciato dietro di sé come traccia della loro presenza nel Bresciano le poche cose personali che gli sono state sequestrate, abbandonate in chissà quali magazzini dell'Egeli.
Fra quelle poche ed umili cose in tutti e due i casi (ma vedremo che accadde anche per altri ebrei) si trovavano dei libri. E si noti che i fascisti, nei verbali di sequestro, mentre elencavano in dettaglio anche gli stracci o il singolo cucchiaino, per i libri, merce di nessun conto, indicavano genericamente "cassa di libri" (Weimberger) o al massimo il numero totale, 175 (Russo). Per le vittime, invece, doveva trattarsi di oggetti particolarmente preziosi se si erano sobbarcati il peso, non solo metaforico, di portarseli in giro nelle loro infinite peregrinazioni, un bene da loro tanto amato quanto disprezzato dai fascisti. (pag. 135-138).

 

 

Fonte: Marino Ruzzenenti, La capitale della RSI e la Shoah: la persecuzione degli ebrei nel bresciano, GAM, Brescia 2006, pag. 73, 87-88, 91-95, 113, 117-118, 126, 135-138; il grassetto è stato aggiunto per individuare più facilmente le frasi riferite al questore Manlio Candrilli.

 

 

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