Maurilio Lovatti

 

La disgregazione del mondo cattolico e il tramonto dell'era Boni a Brescia

(1965 - 1975)

 

 

Nel periodo 1958-1965 la dialettica interna alla Democrazia Cristiana e al mondo cattolico bresciano era incentrata soprattutto sulla questione ideale e politica dell'apertura a sinistra, che vedeva i fanfaniani e la sinistra DC favorevoli e i dorotei contrari.[1] Il percorso faticoso che portò alla formazione tra la fine del 1964 e l'inizio del 1965 delle giunte organiche di centro sinistra in Comune e Provincia, era caratterizzato dalla preminenza delle questioni politico-ideologiche e la politica della DC era profondamente influenzata dal dibattito interno al mondo cattolico e dall'azione delle varie organizzazioni collaterali.

Nel decennio successivo si assiste ad una rapida e radicale trasformazione di questo quadro storico e si manifestano contemporaneamente sia la disgregazione del mondo cattolico come totalità organica, sia una mutazione "genetica" del partito cattolico. Mentre il primo fattore, pur avendo una specificità locale, è largamente determinato da elementi esterni alla situazione bresciana, come l'autunno caldo e la crescita di consenso elettorale alla sinistra, la contestazione studentesca, l'attuazione del Concilio Vaticano II, l'autonomia della CISL e delle ACLI, viceversa la trasformazione della DC è largamente determinata da cause locali.

Questa "mutazione genetica", quasi una sorta di degenerazione della DC, è riconosciuta a posteriori perfino da alcuni dei suoi autorevoli dirigenti. Per il sen. Fabiano De Zan,[2] negli anni della ricostruzione e nei primi anni '60 nella DC «la politica era strettamente collegata alla questione sociale, e chi si azzardava a fare "politica pura", cioè a proporsi mete esclusive di potere personale, era messo ai margini come usurpatore. Furono gli anni in cui la DC, per il tramite principale di Boni,[3] seppe imporre, insieme ad un forte spirito d'iniziativa, la sua attitudine alla sintesi e alla mediazione.»[4] Viceversa «è possibile situare a metà degli anni '70 la svolta di metodo e di comportamento che gradualmente modificò l'assetto e il volto della DC bresciana […] La sua classe dirigente assunse sempre più l'aspetto di una oligarchia di regime, distaccata dall'area del consenso. I voti continuavano, con lenta regressione, a sostenere la DC, ma in molti elettori si percepiva la scarsa convinzione, quando non addirittura la riluttanza.»[5]

E l'on. Mario Pedini, nel 1978, in occasione della lettura del libro di Fossati su mons. Bongiorni (ausiliare del vescovo Giacinto Gaggia), riflettendo sui personaggi emblematici del mondo cattolico bresciano, come Giuseppe Tovini o Lodovico Montini "gente che amava la Chiesa, ma sapeva amare anche la Patria", si domanda: "Siamo i loro eredi col nostro volgare correntismo o col nostro culto del potere?"[6]

Ancor più esplicito è Matteo Perrini,[7] che vede negli anni '70 il periodo che ha portato a quell'«intreccio perverso di affari e politica divenuto sistema negli "anni di fango" (1977-93) […] e alla degradazione della politica a pubblicità e a organizzazione di interessi personali.»[8]

Perrini individua anche una precisa causa statutaria tra le ragioni del declino della DC. Il consiglio nazionale della DC del 24-27 gennaio 1964 (quello in cui Mariano Rumor è eletto segretario nazionale al posto di Aldo Moro, divenuto presidente del consiglio dei ministri) approva una modifica sostanziale del regolamento congressuale del partito: gli organi del partito non saranno più eletti col tradizionale metodo del panachage, che consentiva ai delegati di esprimere preferenze anche per candidati di liste diverse, ma col metodo proporzionale a liste bloccate, cioè senza preferenze, con il quale ogni corrente eleggeva un numero di componenti l'organismo direttivo proporzionale ai voti congressuali ottenuti e nell'ordine di lista dei candidati predisposto dalla corrente stessa.[9] Evidentemente questa procedura, che conferisce ai capi corrente un potere smisurato e impedisce un rinnovamento dei gruppi dirigenti basato sulle qualità umane e morali dei candidati, contribuirà in maniera significativa alla mutazione genetica della DC, nonostante non possa essere considerata la causa prevalente dell'involuzione del partito cattolico.

Paradossalmente questa involuzione, se non vogliamo usare il termine "degrado", avviene in un periodo in cui il consenso elettorale, a livello provinciale, rimane pressoché immutato: dal 51% delle elezioni politiche del 1963 al 51,4% del 1976, con un minimo del 50,7% nel 1972 (dati relativi alla Camera dei Deputati). La DC, che nella intera regione Lombardia ha in questi anni un consenso attorno al 40%, mantiene sempre la maggioranza assoluta in provincia di Brescia, mentre il secondo partito (il PCI) passa dal 15,2% del 1963 al 26,1% del 1976, ma rimane comunque enormemente distanziato. Si può quindi affermare che dal punto di vista elettorale l'egemonia democristiana nella provincia appare immutata.

In primo luogo si rende dunque necessario comprendere la cause profonde di questa mutazione genetica della DC bresciana, partendo dal fatto che negli ultimi mesi del 1965 si erano create le condizioni per una nuova maggioranza interna alla DC bresciana, formata da un alleanza tra la componente fanfaniana del sindaco Bruno Boni e la sinistra DC, che per la prima volta mette in minoranza la componente dorotea moderata guidata da Pedini,[10] Camadini[11] e Salvi.[12] Il XV congresso pro­vinciale (13-14 novembre 1965) che si tiene al Franciscanum, presieduto dall'on. Ubaldo De Ponti, vede l’affermazione di un listone di maggioranza, nel quale confluiscono la corrente fanfaniana di Nuove cronache, quella della sinistra e i rappresentanti del movimento giovanile guidati da Giovanni Prandini,[13] che ottiene 24 membri su 36 per il comitato provinciale; il resto va ai morodorotei di Impegno democratico (con 11 componenti) e alla destra di Centrismo popolare (con un membro). La nuova maggioranza si presenta al congresso con un documento politico che pone al centro dell'alleanza il rilancio della politica di centro sinistra in chiave antidorotea:

 

«La DC bresciana ha saputo allargare […] la sua autonomia rispetto ai tradizionali gruppi di potere; tuttavia non si è valsa a sufficienza di questa sua autonomia per rendere determinante la sua influenza sulle pubbliche decisioni e per diminuire il peso sproporzionato di alcuni gruppi nelle scelte riguardanti la collettività. Il superamento di tale situazione si rende particolarmente urgente in coerenza alla politica di centro-sinistra, la quale trova, infatti, il suo significato politico più qualificante proprio nella volontà di determinare lo spostamento dei rapporti di potere al fine di superarne la tradizionale concentrazione in ristrette oligarchie. La scarsa incidenza dell'indirizzo di centro-sinistra nella vita pubblica bresciana è da imputarsi non solo alle difficoltà e all'involuzione subita in sede nazionale, ma in larga misura è dovuta alla insufficienza degli strumenti politici locali. […] si rende particolarmente urgente da parte del partito, anche a livello locale, il superamento dell'attuale paralisi dovuta essenzialmente al frazionismo e al trasformismo, che hanno impedito la formazione di una maggioranza efficiente che avesse una chiara linea politica»[14].

 

Da parte sua, nel dibattito congressuale, il moroteo on. Franco Salvi esprime le sue critiche alla nuova maggioranza, che ritiene fondata su un mero accordo di potere tra i capi delle due correnti:

 

«Quello che solo ci auguriamo e che chiediamo all'eventuale futura maggioranza è che vengano rispettate le regole del gioco democratico, che sia rispettata la nostra presenza, che non si cerchi con operazioni di tesseramento o con interventi cosiddetti organizzativi, di rendere impossibile la nostra azione ed il nostro contributo. Non vogliamo fare di questo congresso una tribuna per denunce di scorrettezze, ma non possiamo certo dichiarare che gli uffici di segreteria siano stati in questi anni organi imparziali […] e nemmeno questa imparzialità possiamo riconoscere alla segreteria organizzativa»[15].

 

Martinazzoli,[16] della sinistra, difende invece la nuova maggioranza: «Altrimenti – ove si voglia rifiutare radicalmente il senso di questa operazione – si dovrà avere il coraggio di affermare che si poteva effettivamente continuare nella situazione di questi due ultimi anni, con un partito svuotato di ogni scelta dalle prevaricanti scelte dei gruppi, tenuto insieme da estenuanti operazioni di ortopedia affidate alla pazienza, al senso di responsabilità, alla difficile solitudine del suo Segretario politico»[17].

Molto positivo è anche il giudizio di Boni sulla nuova maggioranza, che «continua sulla linea avanzata e impegnata che emerse almeno fin dal 1959» e che può essere considerata «una novità veramente significativa nella storia della DC bresciana». Secondo il Sindaco di Brescia solo il rilancio dell'attività di partito in conseguenza della nuova maggioranza consentirà che «il centro-sinistra, da alleanza formale di partiti, possa trasformarsi in uno strumento vigoroso di riequilibrio dei rapporti di potere e di ammodernamento della società provinciale».[18]

Il Comitato provinciale del 6 dicembre 1965 elegge Giulio Onofri[19] nuovo Segretario politico della DC bresciana, mentre Bruno Boni è confermato presidente del partito. Giacomo Mazzoli[20] e Gianni Prandini[21] sono i nuovi vicesegretari; oltre ai due vicesegretari, i fanfaniani ottengono anche il segretario organizzativo (Giuseppe Recher) e il suo vice (Alessandro Guindani). La sinistra, oltre alla direzione de «Il Cittadino» (Pietro Padula[22]), ottiene anche la formazione (Sandro Fontana[23]), gli enti locali (Ciso Gitti[24]) e altri incarichi minori.

Complessivamente la nuova maggioranza interna si mostra stabile almeno fino al 1968, anno delle elezioni politiche (19 maggio) e del XVII Congresso provinciale (23-24 novembre).[25]

Le Giunte comunale e provinciale di centro sinistra organico svolgono senza grandi problemi politici la loro attività amministrativa. Nelle elezioni del 22 novembre 1964, nel comune di Brescia, la DC aveva ottenuto il 41,2% dei voti, risultato che rappresenta un calo di poco più del 2% rispetto alle precedenti amministrative, ma un incremento di circa il 3% rispetto alle politiche del 1963. I seggi scendono da 24 a 21, su un totale di 50[26]. Per la prima volta il gruppo consiliare non è più completamente controllato da Boni: le ACLI riescono infatti a far eleggere una quaterna di consiglieri espressione dei circoli aclisti (Battista Fenaroli, Angelo Boniotti, Giovanni Baresi e Mario Dioni), mentre altri 4 consiglieri (Giulio Onofri, Pietro Padula, Mario Cattaneo e Luigi Bazoli) appartengono alla sinistra DC. La destra di Centrismo popolare elegge invece 3 consiglieri: Carzeri, Freddi e Mearini. Gli "amici di Boni" o "boniani puri", come si diceva all’epoca, sono solo 9 su 21, anche se in realtà Boni, per la sua autorevolezza e le sue indiscusse capacità di mediazione, non solo è confermato Sindaco, ma rimane anche l'arbitro indiscusso in tutte le decisioni rilevanti del gruppo consiliare.

Il 21 dicembre 1964 il Consiglio aveva eletto la nuova giunta, la prima di centro sinistra, formata da 7 assessori democristiani, 2 socialdemocratici e 3 socialisti[27].

Nel dibattito consiliare che aveva preceduto l'elezione della giunta, il nuovo capogruppo democristiano, Pietro Padula, aveva definito il programma della nuova amministrazione «estremamente largo ed impegnativo, né arretrato né utopistico, un serio impegno nei confronti di tutta la cittadinanza», mentre da fronti opposti il liberale Sam Quilleri e il socialproletario Mino Giori sottolineano la sostanziale continuità con le precedenti giunte centriste e il carattere liberale e poco socialista del programma stesso. In effetti il programma della nuova giunta non era radicalmente innovativo. Osserva in proposito Massimo Tedeschi:

 

«A questa svolta, che rompe l’unità delle sinistre e segna il ritorno in Giunta dei socialisti dopo 16 anni di opposizione, il Consiglio comunale e i partiti bre­sciani arrivano in maniera quasi inerziale: senza gli entusiasmi, le polemiche e le speranze che avevano accompagnato la nuova formula politica a livello na­zionale. Senza accordi significativi su riforme ad alto valore simbolico. Senza dichiarati segni di disconti­nuità rispetto alle Giunte centriste precedenti. Al momento del varo della nuova compagine non viene presentato un chiaro programma di governo, non vengono enunciati espliciti intenti riformatori, non vengono evocati elementi di novità che non sia­no alcuni generici impegni sul terreno della scuola e della cultura. I partiti contraenti del nuovo patto di governo, del resto, arrivano piuttosto frastornati alla sua sti­pula dopo l’esito delle elezioni di novembre, in cui il progetto della nuova alleanza era stato chiaramente prospettato agli elettori»[28].

 

Rilevante era stato tuttavia l'ingresso in giunta di tre esponenti della sinistra DC (Onofri, Cattaneo e Bazoli) che cercano di imprimere un marcato rinnovamento nel governo della città, in un rapporto di pacifica convivenza con Boni e nel rispetto del ruolo predominante che il Sindaco di Brescia si era costruito negli anni. Particolarmente significativo è il ruolo del nuovo assessore, avv. Luigi Bazoli, iniziatore di un radicale rinnovamento della politica urbanistica cittadina[29].

La presenza dei consiglieri aclisti si manifesta invece nell'avvio di una riflessione sulla partecipazione e il decentramento, con la costituzione di un'apposita commissione del gruppo consiliare DC[30]. Si assiste in sostanza all'emergere di idee e tendenze amministrative non riconducibili alla volontà o alla diretta iniziativa di Boni, anche se la discontinuità tra la nuova giunta di centro sinistra e le precedenti giunte comunali centriste non è così politicamente marcata come avrebbero desiderato i più convinti assertori dell'apertura a sinistra all'interno della DC. E’ innegabile tuttavia un particolare fervore amministrativo nel governo della città in quegli anni[31].

Per quanto riguarda invece la Provincia, la DC aveva  mantenuto la maggioranza assoluta (52,3%) anche se in calo rispetto al 55% delle precedenti amministrative, mentre i seggi erano scesi da 21 a 20 (su 36 totali). Nonostante questa maggioranza assoluta, in omaggio all'accordo complessivo tra i partiti della nuova maggioranza di centro sinistra, la DC aveva acconsentito alla formazione di una Giunta di centro sinistra, varata il 16 gennaio 1965, quasi un mese dopo quella comunale, sempre presieduta da Ercoliano Bazoli; ne fanno parte 6 assessori democristiani, un socialdemocratico (Ugo Pedrali) e un socialista (l'on. Gianni Savoldi[32]).

Nello periodo nel quale erano in corso le trattative per la formazione delle prime giunte di centro sinistra, si erano anche registrate significative novità  ai vertici della Chiesa bresciana. L'8 dicembre 1964 aveva fatto solenne ingresso in diocesi il nuovo vescovo mons. Luigi Morstabilini[33], mentre poche settimane dopo, l'11 gennaio 1965, mons. Giuseppe Almici era stato nominato vescovo di Alessandria[34]. Fin dall’inizio il nuovo vescovo mons. Morstabilini si presenta piuttosto prudente nei confronti della politica bresciana in generale, e particolarmente nei confronti della DC.

Nel periodo fino alle elezioni politiche del 1968, le due vicende dell'Amministrazione comunale con maggior rilevanza politica sono la Variante al Piano Regolatore e la municipalizzazione della Nettezza Urbana. Negli ultimi mesi del 1965 l'Assessore all'urbanistica Luigi Bazoli propone al consiglio comunale di richiedere al Ministero l'autorizzazione ad una Variante per le aree agricole e collinari. Infatti l'allora vigente Piano Morini prevedeva degli indici di costruzione molto alti nelle zone agricole, e ciò aveva consentito un'edificazione massaccia delle zone collinari e in particolare dei Ronchi, con gravi deturpazioni paesaggistiche: era sorta dunque l'esigenza di una drastica riduzione degli indici di fabbricazione, che ovviamente trovava però resistenza, soprattutto dai proprietari delle aree. Nel dicembre 1968 la Variante sarà definitivamente approvata e segnerà una vera e propria inversione di tendenza rispetto alla politica urbanistica molto espansiva degli anni della ricostruzione e del centrismo.

Altrettanto rilevante, dal punto di vista della discontinuità con le precedenti amministrazioni, è la municipalizzazione della nettezza urbana, che allora venne percepita come simbolo per eccellenza della politica locale di centro sinistra. Prima la raccolta dei rifiuti era appaltata ad una ditta privata, la Ceresetti e Rossi, ma la gestione del servizio non era sempre soddisfacente e aveva generato numerosi contenziosi col Comune. Il 27 luglio del 1967 il consiglio comunale delibera la municipalizzazione della raccolta e smaltimento dei rifiuti, che viene attribuita all'ASM. La progettazione e organizzazione del servizio fu affidata dall'allora Direttore dell'Azienda, prof. Gian Franco Rossi, all'ing. Renzo Capra.[35] Tra le ipotesi presenti negli studi preliminari, per la prima volta venne avanzata la proposta di realizzare un inceneritore, anche se poi venne scelta la soluzione della discarica (a Bosco Sella di Ospitaletto).

Nel complesso la maggioranza interna alla DC, che aveva espresso la segreteria Onofri, governa il partito senza grossi problemi, nonostante le numerose scaramucce prodotte dalla quotidiana gestione del partito stesso.[36] In modo tutto sommato sotterraneo, in entrambe le componenti della maggioranza si assiste a significative dinamiche interne. Tra i fanfaniani, il gruppo detto dei "giovani fanfaniani" guidato da Prandini erode inesorabilmente consensi a scapito del gruppo dirigente storico di Boni e Fada[37]. Nella sinistra DC permangono le divergenze tra le storiche subcomponenti: i basisti (Padula e Martinazzoli) e il gruppo di Mario Faini, vicino a Padula, maggioritario nelle ACLI, ma in minoranza nella CISL, spesso in contrapposizione con i sindacalisti di Forze Nuove, guidati da Michele Capra e appoggiati dal segretario della FIM-CISL Franco Castrezzati.[38] Segno evidente di queste dinamiche interne è l'esito del Comitato cittadino della DC del 24 giugno 1966, quando Bruno Ferrari,[39] è eletto segretario cittadino con 24 voti, quelli dei fanfaniani di Prandini e dei sindacalisti di Forze Nuove, che ottengono la vicesegreteria con Egidio Papetti, mentre i basisti di Padula e Martinazzoli votano per Perfumi, che ottiene 16 voti. La sinistra DC è ormai nuovamente spaccata, e al congresso del 1968, si presenterà in due distinte liste. Un'alleanza analoga, prandiniani e Forze Nuove, governa anche il movimento giovanile della DC.

Tuttavia le elezioni politiche del 19 maggio 1968 si svolgono senza scontri interni tra le varie componenti della DC. Anzi si può affermare che in questa occasione funziona pienamente e per l'ultima volta, il piano provinciale delle preferenze predisposto dalla Segreteria, che a Brescia era in uso fin dalle elezioni per la Costituente e che solo nel 1963 non era stato da tutti rispettato.[40] Ciò si spiega anche tenendo presente che le operazioni di predisposizione delle candidature erano state facilitate dal fatto che tutti e quattro i seggi sicuri al Senato erano disponibili: Pietro Cenini (Chiari) e Francesco Zane (Salò) avevano completato le tre legislature, anzi il secondo era Senatore dal 1948, Ludovico Montini (Brescia) non intendeva ricandidarsi dopo l'ascesa al soglio pontificio del fratello (Paolo VI) e infine Enrico Roselli (Breno) era deceduto il 14 dicembre 1964. Pertanto passano dalla Camera al Senato i fanfaniani Fada e De Zan (rispettivamente a Brescia e Salò) e il doroteo Fausto Zugno, rappresentante dei coltivatori diretti (a Chiari), mentre a Breno viene candidato il fanfaniano Giacomo Mazzoli, il grande escluso nel 1963. I tre deputati uscenti passati al Senato sono sostituiti con Pietro Padula,[41] esponente della sinistra di Base, Michele Capra[42], leader della sinistra di Forze Nuove e Cesare Allegri, rappresentante dei commercianti vicino ai dorotei. Complessivamente i dorotei perdono due parlamentari a vantaggio dei fanfaniani che ottengono un nuovo senatore (Mazzoli) e della sinistra interna (Capra e Padula alla Camera, a fronte dell'uscita di Cenini dal Senato). In realtà il rafforzamento della maggioranza interna che aveva espresso la segreteria Onofri è ancora più significativo, se si considera che Franco Salvi veniva ancora computato tra i dorotei, ma pochi mesi dopo, e precisamente a novembre, quando Moro si distacca dai dorotei, completerà il suo avvicinamento alla maggioranza interna e lascerà definitivamente la corrente di Pedini e Camadini.

L'unica polemica sulle candidature è quella relativa a Michele Capra: proposta da Giovanni Landi, Sandro Fontana e Gianni Prandini, la candidatura di Capra, che era vicesegretario provinciale dal 24 gennaio del 1967, è ben accolta da Boni che sperava di rafforzare l'appartenenza alla maggioranza interna dei "sindacalisti" guidati di fatto, ma non ufficialmente, da Castrezzati e Pillitteri. Capra era stato presidente provinciale delle ACLI dal '55 al '59, e la sua candidatura si pensava potesse consentire di limitare la dispersione a sinistra di voti aclisti e cislini. Tuttavia proprio le ACLI provinciali, con un comunicato del 9 maggio, precisano che "eventuali indicazioni di candidati aclisti o sostenuti dalle ACLI in ragione di passate o presenti benemerenze acliste, sono del tutto prive di fondamento e da considerarsi come scorrette e indebite pressioni nei confronti degli iscritti al movimento."[43] «La Notte», citando la nota, titola a piena pagina: "Le ACLI buttano a mare il candidato aclista Capra". Se la posizione del movimento cristiano dei lavoratori di non appoggiare ufficialmente Capra è strumentalmente giustificata dalla maggioranza delle ACLI con gli orientamenti nazionali tesi a realizzare l'autonomia dal partito, un comunicato così duro ed esplicito viene interpretato come uno sgambetto di Mario Faini a Capra e alla minoranza di sinistra delle ACLI. A molti militanti del movimento appare paradossale che le ACLI, che in passato avevano appoggiato ufficialmente le candidature di Roselli (nel '53 e '58) e di Salvi (nel '63) nonostante essi fossero sostanzialmente estranei alla vita del movimento, non muovano un dito per appoggiare l'elezione del loro ex presidente e storico protagonista di tante battaglie.[44] Nonostante ciò, Capra viene eletto con 37048 voti di preferenza (quinto tra i bresciani, davanti a Padula) grazie al fatto che tutte le correnti rispettano il piano provinciale di distribuzione delle preferenze.

Il consolidamento della maggioranza interna alla DC, già reso più difficile dall'evoluzione politica nazionale, in particolare dall'alleanza tra dorotei e fanfaniani al X congresso nazionale di Milano (novembre 1967), subisce una prima battuta d'arresto in occasione del congresso provinciale del 23 e 24 novembre 1968, celebrato al Cinema Aquiletta. In questo congresso, a differenza delle 3-4 mozioni dei congressi precedenti, caratterizzati dalla tradizionale competizione tra dorotei, fanfaniani e sinistra, si assiste ad una proliferazione delle correnti interne e delle relative mozioni. Le novità politicamente più rilevanti sono tre. In primo luogo la definitiva frattura nella sinistra interna, che si presenta con due mozioni distinte: Provincia Democratica (sinistra di Base) che ottiene 9 seggi nel Comitato provinciale (tra gli eletti Onofri, Martinazzoli, Sora e Ciso Gitti) e Forze Nuove con 3 eletti (Capra, S. Fontana e Papetti).[45] Altrettanto notevole è l'affermazione della nuova corrente di Iniziativa di Base, soprannominata i texani, che ottiene 5 seggi (tra gli eletti Giacomo Rosini e Arturo Minelli) e la definitiva dissoluzione della destra interna: la corrente di Centrismo Popolare di Rubens Carzeri, che negli anni precedenti si era apertamente battuta contro l'alleanza di centro sinistra, non ottiene alcun seggio. I fanfaniani ottengono 8 seggi (primo e secondo eletto sono Boni e Prandini) e 10 i dorotei (fra gli eletti, oltre ai parlamentari Pedini, Zugno e Allegri, vi sono Mauro Savino e Giuseppe Camadini), mentre Franco Salvi, moroteo, non si schiera con nessuna mozione.[46] Complessivamente la maggioranza uscente resiste: sommando i fanfaniani e le due mozioni della sinistra, essa ottiene 20 seggi su 36 nel nuovo comitato provinciale. In realtà ne esce politicamente indebolita per il perdurante conflitto nell'area fanfaniana tra i dirigenti storici, come Fada e De Zan e i "giovani fanfaniani" di Prandini ormai predominanti. Inoltre altra fonte d'instabilità è il successo dei texani, una nuova corrente guidata da Aventino Frau[47]: per la prima volta nella DC bresciana una corrente si forma senza una ben definita piattaforma ideologica o programmatica, avendo come collante principale solo la comune aspirazione a rivestire ruoli rilevanti da parte dei fondatori, come Giacomo Rosini, Alessandro Guindani, Arturo Minelli, Filippo Parola, Battista Giacomini, che era una sorta di segretario organizzativo della corrente, oltre allo stesso Frau, provenienti in gran parte dai fanfaniani, ma con qualche innesto di ex dorotei e con l'eccezione di Arturo Minelli che proveniva dalla sinistra. La natura peculiare di questa componente, alquanto eterogenea rispetto alla tradizione della DC bresciana, è non solo attestata da esponenti di tutte le altre correnti, ma risulta confermata da vari dati. Mentre infatti, da un lato i fanfaniani e la sinistra si schieravano al congresso con un esplicito orientamento favorevole ad un consolidamento della formula di centro sinistra, attraverso una rafforzata collaborazione coi socialisti, per favorire un più radicale processo riformatore, e dall'altro lato i dorotei si richiamavano esplicitamente alla posizione di don Sturzo e ai "valori spirituali, morali e culturali" per sostenere una maggior fermezza nei confronti dei socialisti e degli altri partiti alleati e per confermare la loro opposizione al gruppo dirigente locale,[48] il gruppo di Iniziativa della base (texani) si presentava al congresso con una mozione generica nei contenuti relativi alla politica nazionale, senza una precisa caratterizzazione ideologica e che si differenziava dalle altre per la forte critica al gruppo dirigente locale e alla segreteria Onofri. Affermavano infatti che a livello locale il partito democristiano:

"non ha esercitato il ruolo che poteva e doveva esercitare a causa degli accordi di potere tra gruppi di estrazione diversa; che è stato gestito in tutto il periodo della segreteria Onofri con l'obiettivo di conservare il potere e di darne di più ad alcune forze senza cambiare assolutamente il metodo politico. Non si può negare che la sinistra bresciana ha deluso le aspirazioni di coloro che credevano in un cambiamento di stile politico: così, unitamente alla forze tradizionali, si è fatta una politica di conservazione."[49]

Tuttavia i rimedi auspicati non differivano da quelli delle altre mozioni (valorizzazione di tutte le forze del partito, maggior coinvolgimento delle Sezioni nelle scelte provinciali, frequenti consultazioni della base, ecc.).

In quasi tutti gli interventi congressuali si manifesta un'insoddisfazione per l'eccessiva frammentazione correntizia interna e per i limiti e i danni che ne conseguono per l'efficacia dell'azione politica: da Prandini ("posizioni di correnti e schemi politici nominalistici" che per troppo tempo hanno bloccato il partito in "contrapposizioni semplicistiche e preconcette"[50]) alla sinistra, sembra esserci consapevolezza della degenerazione della vita politica interna.

L'allora giovane Tino Bino, della sinistra di Base, esprime in modo particolarmente esplicito e chiaro questo generale disagio: "si avverte anche da questo congresso […] c'è ormai veramente una sfiducia, siamo qui al congresso, ma non crediamo più che da questo congresso possano nascere delle linee orientative per il partito a Brescia, siamo tutti convinti che il Congresso non può altro che servire a dividere i posti nel Comitato provinciale […] stiamo discutendo delle correnti perché non riusciamo a discutere di politica […] ci dividiamo i posti perché non sappiamo fare altro…"[51]

Dopo un mese di laboriose trattative che seguono alla conclusione del congresso, sabato 11 gennaio 1969 Mino Martinazzoli è eletto nuovo segretario provinciale della DC bresciana. La maggioranza che lo sostiene, composta dai fanfaniani e dalle due correnti di sinistra, Base e Forze Nuove, è numericamente salda (20 componenti il Comitato provinciale su 36, poiché sono contrari i 10 dorotei e si astengono i 6 texani), ma per concludere l'accordo di maggioranza, Martinazzoli è costretto a concedere la segreteria organizzativa a Gianni Prandini, il cui gruppo domina ormai di fatto la componente fanfaniana, anche perché in quei giorni il sen. Annibale Fada, tradizionale stratega del gruppo fanfaniano bresciano, è nominato sottosegretario alle Finanze del I governo Rumor e pertanto risulterà nei mesi successivi meno presente a Brescia. Data la scarsa attitudine di Martinazzoli a mantenere costanti contatti con gli iscritti e i militanti delle sezioni, il ruolo ottenuto da Prandini consente a quest'ultimo di estendere significativamente la sua influenza sul partito. Pare che nell'ambito dell'accordo complessivo sulle nomine e gli incarichi, Prandini e Martinazzoli concordino anche l'esclusione di Boni dalla presidenza del Comitato provinciale della DC, caratterizzando quindi l'operazione anche come rinnovamento generazionale.[52] L'ex segretario provinciale Giulio Onofri ottiene la direzione de «Il Cittadino».

Gli assetti interni decisi all'inizio del 1969 rimarranno stabili e immutati fino alle elezioni amministrative del 1970, particolarmente importanti perché per la prima volta in Italia saranno eletti i consiglieri regionali. Anche nel precongresso del 7 giugno 1969, convocato per eleggere i delegati al congresso regionale in vista del XI congresso nazionale che si terrà a Roma il 27-30 giugno, le variazioni nella consistenza delle componenti interne non sono tali da alterare l'equilibrio complessivo. I dorotei calano dal 25 al 19,5%, cala anche la sinistra interna di Provincia democratica (dal 22,2 al 17,7%). Crescono invece i fanfaniani (Boni, Fada e Prandini) dal 21,2 al 26,2%, mentre si afferma con forza il nuovo raggruppamento di Salvi ("amici di Moro") che ottiene il 9,2%.

Nel corso del 1969, durante la segreteria Martinazzoli e per scelta principalmente del sindaco Boni, si definisce l'orientamento del Comune di Brescia a favore della creazione dell'università statale. Fin dal 1963 il comune di Brescia aveva deliberato di partecipare con Provincia e Camera di Commercio al CUB (Consorzio universitario bresciano) che aveva come scopo primario la costituzione della facoltà d'ingegneria a Brescia. L'Università Cattolica, che nel 1965 aveva inaugurato in via Trieste il primo corso di laurea della facoltà di Magistero, e che era già stata autorizzata dal Ministero a istituire la Facoltà di scienze matematiche (i cui corsi inizieranno nel 1971) era interessata alla possibilità d'istituire la facoltà d'ingegneria. Il 21 settembre 1967, la Banca San Paolo con varie fondazioni e istituzioni cattoliche, aveva costituito l'EBIS (Ente bresciano iniziative scolastiche) per finanziare il funzionamento e l'espansione dell'Università Cattolica a Brescia. Alla fine del 1968 il CUB aveva sottoscritto una convenzione con l'EBIS impegnandosi ad erogare 125 milioni all'anno per almeno 11 anni, in modo da consentire l'avvio del primo biennio d'ingegneria alla Cattolica.[53] Pochi giorni dopo, il 14 dicembre 1968, il Comitato regionale per la programmazione economica approva la proposta di istituire a Brescia il terzo polo universitario regionale (dopo Milano e Pavia) a servizio del bacino d'utenza della Lombardia orientale. I giochi si riaprono e l'attribuzione della facoltà d'ingegneria alla Cattolica, che fino a qualche settimana prima appariva ormai decisa, torna in discussione. All'interno della DC, Mario Pedini, allora influente Sottosegretario agli Esteri del governo Rumor, Lodovico Montini e Giuseppe Camadini (consigliere d'amministrazione della Banca S. Paolo; il 6 marzo 1970 ne diverrà presidente al posto di Carlo Viganò) puntavano fortemente sulla Cattolica[54], mentre Boni e Fada, con l'appoggio del Segretario provinciale Martinazzoli, di tutta la sinistra interna e degli alleati di giunta, erano determinati a promuovere l'istituzione dell'università statale a Brescia. Boni mette in campo tutto il suo prestigio personale e il suo ruolo istituzionale e agendo in piena sintonia con Martinazzoli riesce a far passare nel comitato provinciale della DC del 19 aprile 1969 "il principio che l'università di Stato rappresenta la soluzione primaria". Nel comunicato ufficiale la DC bresciana afferma d'impegnarsi per "un ateneo di Stato con medicina ingegneria ed economia" e sottolinea che "vanno rimeditati e ampiamente rivisti […] i termini della convenzione con l'EBIS".[55] Tra marzo ed aprile si erano dimessi vari componenti del CUB nominati da Provincia e Comune (Giovanni Savoldi, Vittorio Tedeschi, Giacomo Mazzoli, Giovanni Minelli, Mario Cattaneo). Si rifiuta di dimettersi il presidente del CUB, Luciano Zilioli. Racconta Mino Martinazzoli: "Io convinsi tutti quanti a dare le dimissioni dal CUB, per favorire il passaggio all'EULO in modo naturale. Non convinsi Luciano, e mi pare di ricordare che Zilioli presentò addirittura un ricorso, sostenendo l'illegittimità di quel passaggio…"[56] Martinazzoli riconosce che nella DC e nel mondo cattolico la proposta di un'università statale "ha innescato un grande, talvolta duro, dibattito. Perché vi erano posizioni che difendevano l'unicum dell'Università Cattolica e immaginavano, tra l'altro non a torto, che essendo le risorse limitate, quest'apertura verso l'impianto di una Università Statale, avrebbe reso più difficile e precaria la vita della Cattolica stessa". Tuttavia Boni giunge in posizione di forza al decisivo consiglio comunale del 30 luglio 1969, nel quale si delibera lo statuto dell'EULO (Ente universitario per la Lombardia Orientale) con la conseguente decadenza del CUB e l'abbandono della convenzione con l'EBIS per finanziare ingegneria alla Cattolica. Boni annuncia anche nello stesso consiglio comunale che, in attesa dell'attivazione dell'università degli studi di Brescia, il Politecnico di Milano, a partire dall'autunno 1969, avrebbe aperto a Brescia il primo biennio d'ingegneria. Questa soluzione transitoria era ampiamente appoggiata del Comune, che si impegnava a sostenere le spese della sede e quelle di trasferta per 5 docenti e 16 assistenti dell'ateneo milanese. Questa soluzione lampo, che metteva di fatto fine alle possibilità della Cattolica, era stata resa possibile dall'amicizia che legava il Sindaco con il prof. Bruno Finzi,[57] rettore del Politecnico milanese dal 1967 al 1969.

 

Nei primi mesi del 1970 la segreteria Martinazzoli gestisce le complesse operazioni per la formazione delle liste dei candidati per le elezioni amministrative del 7 giugno. Sulla scelta dei futuri consiglieri regionali riesce a disinnescare ogni polemica interna e a concordare una scelta condivisa da tutto il partito. Sono designati 5 candidati, uno per ogni corrente interna: Vittorio Sora per la Base, Sandro Fontana per Forze Nuove, Damiano Scaroni per i fanfaniani,[58] Guido Vitale per i dorotei e infine Arturo Minelli per i texani, che verranno tutti eletti il 7 giugno 1970, ottenendo la DC circa il 50,5% dei voti provinciali alle elezioni regionali (con il PCI al 17,6 e il PSI all'11%). Sora e Fontana diverranno anche assessori regionali. Complessivamente la maggioranza interna si accontenta di ottenere 3 consiglieri su 5, ma evita uno scontro aperto sulle preferenze dagli esiti non sempre prevedibili, anche perché era la prima volta che si votava per la Regione. Per quanto riguarda l'Amministrazione provinciale, la scelta principale era quella di sostituire il presidente, Ercoliano Bazoli, che ricopriva quel ruolo ininterrottamente dal 1951. Per sostituirlo la DC indica il suo stesso segretario provinciale Martinazzoli, soluzione ben vista dalla maggioranza interna del partito perché avrebbe comportato il conseguente cambio di segreteria, con la connessa decadenza di Prandini da segretario organizzativo. La maggioranza assoluta che la DC aveva in seno al consiglio provinciale rendeva la decisione sul presidente tutta interna al partito, nonostante l'impegno a ricostituire la giunta di centro sinistra in sintonia col comune capoluogo. Non ci sono invece rilevanti problemi per la designazione dei candidati per il consiglio provinciale, per la cui elezione la legge non prevedeva preferenze: molti degli esponenti più in vista del partito vengono collocati in collegi sicuri (Martinazzoli stesso a Orzinuovi, Prandini a Manerbio, Rosini a Dello, Savino a Travagliato, Ciso Gitti a Lumezzane, Gregorelli a Concesio, Bruno Ferrari a Adro).

Come sempre, più incerta è la battaglia per l'elezione del consiglio comunale di Brescia, dove il ruolo delle preferenze (ne erano consentite 4) era fonte di risultati non sempre prevedibili. Nelle elezioni del 7 giugno la DC pur registrando un leggero calo di consensi (39,6% contro il 41,2), mantiene i 21 consiglieri a fronte di un calo del PSI, che perde un consigliere a favore del PSIUP, e ad una crescita del PCI, che raggiunge i 10 consiglieri, doppiando i "cugini" socialisti. Queste elezioni amministrative segnano il punto più basso del prestigio di Boni, non tanto per le preferenze individuali, che lo consacrano ancora primo eletto con 6318, comunque ben lontano dal record di 13581 del 1956, anno del suo massimo trionfo, quanto per il sempre minor controllo del gruppo consiliare. Infatti la sinistra di Forze Nuove elegge 4 consiglieri (Lussignoli, Gei, Papetti e Frerini), mentre la sinistra di Base, oltre a confermare gli uscenti Onofri, Bazoli e Cattaneo, con i due aclisti (Fenaroli e Dioni) e con altri due consiglieri vicini politicamente, forma un drappello di 7 consiglieri. La destra, che si oppone al centro sinistra, ne ottiene 2 (Carzeri e Cena) e pertanto tra fanfaniani e "amici di Boni" il sindaco può contare solo su 7 consiglieri totalmente fidati. In astratto la sinistra ha la maggioranza nel gruppo consigliare (11 su 21), ma le divisioni tra Base e Forze Nuove, che nel comitato cittadino del partito erano alleate coi fanfaniani fin dal congresso del 1966, come si è visto, consentono a Boni di mantenere il suo ruolo di mediatore delle varie sensibilità presenti nel gruppo consigliare stesso. I precari equilibri interni al gruppo consigliare tuttavia impediscono al sindaco di individuare una squadra di assessori (alla DC ne spettavano 7) condivisa da tutte le componenti e lo costringono a confermare in blocco la delegazione uscente, composta da 3 assessori della corrente di Base (Cattaneo, Bazoli e Fenaroli), 1 della destra (Carzeri) e 3 vicini a Boni (Aldo Faini, Feroldi e Taglietti), escludendo così del tutto Forze Nuove, che pure aveva eletto ben 4 consiglieri.

Le ragioni remote di questo tramonto della leadership boniana sono colte con lucidità da Massimo Tedeschi:

"La Brescia conflittuale, tumultuosa, fratturata degli anni Settanta non è più quella tradizionale, socialmente coesa, apparentemente spensierata degli anni Sessanta. La contestazione studentesca, operaia e persino quella ecclesiastica del post-concilio negli anni Settanta giungono alle loro estreme conseguenze. Nuovi ceti emergono, nuove leadership imprenditoriali, finanziarie, sociali, politiche e sindacali si affermano. La suprema regia di Bruno Boni sembra compiere l'ennesimo miracolo: contemperare tutto, armonizzare conflitto e consenso, orchestrare interessi e passioni, legare tradizione e innovazione. Ma è solo un'illusione."[59]

Che Boni non abbia più l'autorevolezza di un tempo appare chiaro fin dalla prima seduta consiliare della nuova tornata amministrativa, il 29 luglio 1970. Per la prima volta il programma della Giunta non viene più esposto dal Sindaco, che in passato era stato il garante degli accordi di maggioranza, ma dal capogruppo della DC, Giulio Onofri, che legge un lungo ordine del giorno concordato e firmato dagli altri capigruppo di maggioranza (PSI, PSU e PRI), che contiene una dettagliata elencazione degli obiettivi per il quinquiennio.[60] Ma evento ancor più deflagrante, assolutamente inedito nella storia del consiglio comunale di Brescia nel dopoguerra, è l'intervento del consigliere Egidio Papetti, che parlando a nome anche dei colleghi Lussignoli, Gei e Frerini, critica apertamente la giunta presentata dal Sindaco, ritenuta una "risposta palesemente conservatrice alle richieste di innovazione e cambiamento che non solo l'elettorato democristiano, ma più in generale la cittadinanza bresciana certamente si attendeva". I consiglieri di Forze Nuove affermano apertamente la loro insoddisfazione per la giunta, che mostra "insufficiente apertura alle istanze giovanili e delle classi popolari" e dichiarano di votare a favore esclusivamente per "disciplina di partito". Boni era Sindaco da quasi un quarto di secolo e mai si era sentito criticare pubblicamente da consiglieri comunali del proprio partito e ciò appariva quasi come un simbolo visibile a tutti del declino inesorabile della sua autorevolezza. Tuttavia la prima scelta rilevante per le nuova giunta, la designazione del nuovo presidente dell'Azienda Servizi Municipalizzati (ASM), si rivelerà quanto mai azzeccata per la città. Con la morte nel 1967 del precedente presidente, Libero Dordoni, la carica di presidente era rimasta vacante e l'ing. Giovanni Fasser ne aveva svolto le funzioni per circa tre anni, affiancato dal direttore generale, il prof. Gianfranco Rossi dell'Università di Bologna, che può essere considerato il padre dell'idea di teleriscaldamento tramite cogenerazione (cioè il riuso del vapore di scarto delle centrali termoelettriche per il riscaldamento urbano), che verrà realizzato a partire dai primi anni Settanta. Già da prima delle elezioni amministrative si fronteggiavano due potenziali candidati, Alessandro Bini, avvocato quarantenne, appoggiato dalla Base, e Ernesto Stefanutti, commercialista, proposto da Forze Nuove e dai giovani fanfaniani per frenare la candidatura Bini, considerato uomo troppo vicino e subalterno a Padula e Martinazzoli. Prima delle elezioni Boni non aveva voluto scegliere per non scontentare nessuna delle due componenti interne, entrambe necessarie per sorreggere la segreteria provinciale di Martinazzoli, che si reggeva su un accordo complessivo tra i fanfaniani di Boni, Fada e Prandini e le sinistre. Le due candidature contrapposte creano una situazione di stallo che dura tutta l'estate. Qualche mese dopo, Michele Capra, leader di Forze Nuove, deputato da due anni, si fa promotore di un'iniziativa per sbloccare l'iniziativa: chiede a Cesare Trebeschi[61] la disponibilità ad assumere la presidenza dell'Azienda. Cesare Trebeschi era un 'indipendente vicino alla DC, e come tale non era schierato univocamente rispetto alle logiche correntizie; inoltre aveva dato buona prova come assessore provinciale all'agricoltura, anche se l'ostracismo dei dorotei ne aveva impedito la riconferma nel 1964.[62] Trebeschi accetta a condizione che tra gli amministratori dell'ASM venga incluso anche Perfumi[63], esperto in questioni economiche. Boni, in un primo momento esitante sulla proposta di Capra, finisce per accettarla come unica possibilità per sbloccare la situazione. Il 9 novembre 1970 il consiglio comunale poteva così deliberare il rinnovo della commissione amministratrice dell'ASM ed eleggere Trebeschi presidente. Sono nominati Giovanni Chiari (PCI), Domenico Sabbio (PSI), Ermes Gatti (PSDI), Luigi Saiani (PLI), Alessandro Bini e Giovanni Perfumi per la DC. Perfumi però non accetta la nomina e viene sostituito dall'ing. Luciano Silveri, proposto da Trebeschi, su suggerimento di padre Marcolini e del consigliere comunale Mario Dioni.[64] Certamente in quel mese di novembre del 1970, Boni non immagina di aver appena nominato presidente dell'ASM il suo successore come Sindaco di Brescia, così come Cesare Trebeschi non può sapere che Silveri gli succederà nella carica di presidente dell'Azienda.

Pochi giorni dopo la nomina della commissione ASM, il consiglio comunale istituisce per la prima volta nella sua storia le commissioni consiliari permanenti (urbanistica e lavori pubblici, pubblica istruzione e cultura, assistenza, bilancio e patrimonio) segno da un lato di una auspicata maggior efficienza dell'amministrazione comunale, anche se, da un altro punto di vista, l'esigenza di una maggior collegialità nel processo di formazione delle delibere comunali certifica il depotenziamento del ruolo preponderante fino ad allora rivestito dal sindaco Bruno Boni.

Il 1970 è un anno cruciale sia per gli equilibri interni alla DC bresciana, sia per l'evoluzione dei rapporti tra DC e mondo cattolico. Oltre all'indebolimento di Boni, all'ascesa di Martinazzoli alla presidenza della provincia e alle nomine nell'ASM, si assiste ad una rilevante trasformazione della corrente dorotea. Fin dal suo costituirsi nel 1959, la corrente dorotea era guidata da un gruppo dirigente (Lodovico Montini, Giuseppe Camadini, Franco Salvi e Mario Pedini) che rappresentava la tradizionale borghesia cattolico-liberale bresciana, tutto proveniente dall'Azione Cattolica, con la sola eccezione di Pedini, più "laico" e indipendente da mons. Almici. Nel 1968, come si è visto, Montini non si ripresenta al Senato, poiché riteneva non fosse né corretto, né opportuno, dopo l'elezione del fratello Giovanni Battista (Paolo VI) al soglio pontificio, continuare a mantenere ruoli politici rilevanti, e di fatto lascia la politica attiva. L'anno successivo Franco Salvi, collaboratore, consigliere ed amico di Aldo Moro, lascia la corrente dorotea assieme a tutti gli amici di Moro per motivazioni che attengono esclusivamente agli schieramenti nazionali. L'unico dirigente appartenente al gruppo proveniente dall'Azione Cattolica, formato da mons. Almici quando era responsabile dell'AC e incaricato del vescovo Tredici per le questioni politiche, rimane dunque Giuseppe Camadini, che però il 6 marzo 1970 viene eletto presidente della banca S. Paolo di Brescia, di cui era componente del Consiglio di Amministrazione fin dal 1962 (in precedenza ne era stato Sindaco fin dal 1959). Il nuovo ruolo di Camadini comporta di conseguenza un distacco dall'attività diretta e ufficiale nella DC e l'abbandono delle cariche di partito e del suo ruolo dirigente nella corrente dorotea, in particolare come referente nella stessa degli ambienti di curia che ancora cercavano d'influenzare la scena politica, nonostante l'orientamento più prudente e distaccato del vescovo Morstabilini. Ne deriva che la corrente dorotea, persi Salvi, Montini e Camadini, diviene di fatto una corrente personale di Pedini, non più legata all'Azione Cattolica e a mons. Almici, all'epoca vescovo di Alessandria, ma ancora molto attento, anche se in modo discreto, alle questioni bresciane (Giuseppe Camadini si reca spesso ad Alessandria per conferire con mons. Almici).

Ed è in questo contesto che va interpretato l'importantissimo congresso provinciale della DC di Sirmione, il 6-7 febbraio 1971 e le convulse e controverse vicende della DC bresciana nei sei mesi successivi. Il XVIII congresso provinciale della DC bresciana sancisce la definitiva e irreversibile spaccatura della corrente fanfaniana, che si divide tra  i "vecchi fanfaniani" (Nuove Cronache) di Boni, Fada e De Zan, che conquistano 5 seggi nel nuovo comitato provinciale, e i "giovani fanfaniani" (Nuova Partecipazione) guidati da Prandini, con 4 seggi. Dopo oltre un ventennio Boni e i fanfaniani bresciani perdono la loro tradizionale funzione di guida nel partito. Per il resto rimane immutata la consistenza di dorotei e texani, mentre nella sinistra interna vi è un piccolo miglioramento di Forze nuove (da 3 a 4) a scapito della Base (da 9 a 8, nonostante l'apporto dei morotei di Franco Salvi). Le trattative per l'elezione del nuovo segretario provinciale si rivelano subito difficilissime per la frammentazione delle componenti interne e per l'assenza di una maggioranza precostituita nel comitato provinciale, al punto che la fase dei contatti e degli incontri preliminari dura quasi sei mesi. Si giunge così alla riunione del comitato provinciale del 10 luglio, quando Gianni Prandini è eletto segretario provinciale con una risicata maggioranza di 18 voti su 34 presenti e votanti (gli aventi diritto al voto erano 38, cioè i 36 eletti dal Congresso, più i delegati del movimento giovanile e femminile). Votano a favore di Prandini, oltre ai componenti di Nuova Partecipazione, i dorotei, Isacchini, delegato del movimento giovanile e 3 fanfaniani su 5 (Troletti, Pedersoli e Maninetti, tutti vicini al sen. Giacomo Mazzoli, che lascia il gruppo guidato da Boni e Fada, del quale aveva fatto parte fin dagli anni Cinquanta).[65] Contrari sono i basisti e i texani. La maggioranza che sostiene Prandini appare subito completamente nuova e in sorprendente discontinuità rispetto al passato. Prandini, infatti, era sempre stato molto critico verso il doroteismo, aveva più volte accusato Fada e i vecchi fanfaniani di essere troppo accondiscendenti verso le componenti moderate del partito e a Sirmione aveva difeso la scelta di Fanfani a favore del sistema proporzionale per il congresso, affermando che la scelta opposta avrebbe avuto la conseguenza di "buttare sugli scogli dorotei la segreteria Forlani, consegnandola in mano ai Taviani, ai Piccoli, e sganciando la componente più viva del partito, le componenti della sinistra democristiana."[66] Inoltre il documento congressuale di Nuova Partecipazione (la corrente di Prandini) affermava esplicitamente che la "piattaforma politica" definita dai congressi del 1965 e 1968 (cioè l'alleanza fanfaniani e sinistre, con i dorotei in minoranza) "sembra tuttora valida nella sua configurazione generale".[67] Nonostante queste premesse, nelle lunghe trattative per la formazione della segreteria, Prandini ottiene l'appoggio dei dorotei, che avevano raggiunto la maggioranza relativa con il  26% dei voti congressuali e ai quali viene garantita la segreteria organizzativa con Mauro Savino, senza nel contempo perdere quello della sinistra di Forze Nuove, e riuscendo per di più a dividere i fanfaniani, stabilendo una salda alleanza col senatore Mazzoli, leader della corrente in val Camonica. A posteriori l'on. Prandini ha spiegato questo capovolgimento delle alleanze sottolineando come la corrente dorotea, dopo il disimpegno di Montini e Camadini e l'uscita dei morotei di Salvi, avesse subito una sorta di mutazione essenziale e non rappresentasse più uno dei pilastri dei centri di potere tradizionali del mondo cattolico bresciano, ma fosse divenuta di fatto una "corrente personale" di Pedini, con il quale era possibile accordarsi senza far venire meno il tradizionale orientamento dei giovani fanfaniani, che si richiamavano all'anima popolare della DC, cercando di farsi interpreti delle esigenze delle zone periferiche della provincia (la bassa e la val Camonica in particolare) contro la ritenuta eccessiva egemonia del capoluogo.[68]

La segreteria Prandini dura solo venti giorni: il 29 luglio il comitato provinciale della DC vota, per la prima ed unica volta nella storia bresciana, la sfiducia al segretario provinciale con 20 voti a favore e 18 contrari. Votano compattamente per la sfiducia basisti, i due fanfaniani di Boni e Fada (gli altri 3 fanfaniani, vicini a Mazzoli, votano contro), i texani e Forze Nuove, compreso Elio Fontana (Claudio Sampaoli, non condividendo la decisione della corrente, si dimette poco dopo dal comitato). La mozione di sfiducia è presentata da Giulio Onofri, che parla a nome di tutte che componenti della nuova maggioranza, che dopo aver riaffermato l'importanza dell'unità delle sinistre interne per realizzare il "grande disegno di rinnovamento prefigurato dalla Carta costituzionale", afferma che "va realizzata una maggioranza capovolta rispetto ad equilibri costruiti sulla somma di gretti calcoli di fazione e di clientela".[69] Si procede poi all'elezione del nuovo segretario provinciale. E' eletto Aventino Frau con 20 voti (compresa la delegata del movimento femminile), mentre Prandini ne raccoglie solo 18 (compreso il delegato del movimento giovanile). La nuova maggioranza è costituita dunque dalle sinistre, più i texani e i due "vecchi fanfaniani" superstiti (Albertini e Senni): i fanfaniani di Boni e Fada, pur ridotti ai minimi termini per l'esodo del gruppo facente capo a Mazzoli, sono ancora determinanti per la formazione della maggioranza interna. Forze Nuove, il cui contributo è risultato determinante per la destituzione di Prandini e l'elezione del nuovo segretario, ottiene la segreteria organizzativa con Elio Fontana e uno dei due vice segretari con Egidio Papetti (l'altro è Ciso Gitti per la Base). Nuovo direttore del cittadino è Tino Bino. Due giorni prima del Comitato provinciale, nella riunione congiunta delle quattro correnti che votano la sfiducia a Prandini (basisti, texani, Forze Nuove e vecchi fanfaniani) la sinistra interna aveva avanzato la candidatura alla segreteria del basista Ciso Gitti, ma il sen. Fabiano De Zan aveva invece proposto Frau, e la proposta era stata accolta da tutti in virtù del fatto che i texani erano indispensabili numericamente, e che quindi l'elezione di Frau avrebbe reso stabile e compatta la nuova maggioranza.[70]

L'aspra conflittualità tra le correnti non caratterizza solo il livello provinciale. Pochi mesi dopo, infatti, a dicembre Forze Nuove ottiene finalmente di essere rappresentata nella giunta municipale del capoluogo, tramite un rimpasto, seguito alle dimissioni  degli assessori Mario Cattaneo e Livia Ferodi, sostituiti da Aldo Ungari e Francesco Lussignoli. Ma mentre Cattaneo si dimette per ragioni del tutto personali, la Feroldi, vicina a Boni, è costretta a dimettersi per far posto a Lussignoli. Lo fa con una lettera sincera a Boni, letta nell'aula consiliare da Quilleri, nella quale lamenta che le alchimie delle correnti di partito prevalgano sull'impegno e sullo spirito di servizio.

Paolo Corsini riassume efficacemente il travaglio democristiano nel 1971: "Non c'è pace in una DC frammentata e rissosa, allineata ai riti tipici della politica nazionale, divisa in almeno sei partizioni correntizie maggiori e frastagliata in numerosi, litigiosi gruppuscoli."[71]

Proprio alla fine del 1971, esattamente il 23 dicembre, moriva tragicamente a Roma il sen. Annibale Fada, stroncato da un infarto durante la concitata fase delle ripetute votazioni per eleggere il presidente della Repubblica.[72] Fada, che fin dagli inizi degli anni Sessanta era stato lo stratega della componente fanfaniana bresciana che faceva capo a Boni, dalle elezioni del 1968 e per i conseguenti impegni di governo come sottosegretario alle Finanze, si disimpegna progressivamente dalla gestione delle vicende interne alla DC bresciana, e ciò può essere interpretato come una delle cause e, al tempo stesso, come conseguenza del rapido declino del ruolo dei "vecchi fanfaniani".

Il clima di conflittualità permanente tra le correnti trova però un momento di tregua sostanziale nella fase di preparazione delle liste per le elezioni politiche anticipate del maggio 1972. La commissione elettorale designata dal comitato provinciale, ancora presieduta da Bruno Boni, come tutte quelle dei precedenti venti anni, trova un accordo unanime che poi sarà ratificato dallo stesso comitato provinciale della DC e reso pubblico da «Il Cittadino» del 10 marzo 1972. Tale accordo è facilitato dal fatto che la morte di Angelo Gitti ha lasciato libero un posto da deputato e quella di Fada il seggio senatoriale di Brescia, per il quale viene indicato Mino Martinazzoli, che si dimette immediatamente da presidente della Provincia. Il Consiglio provinciale del 17 aprile elegge Ciso Gitti, già capogruppo, nuovo presidente della Provincia. Per la Camera vengono proposti due candidati nuovi oltre gli uscenti, nella speranza, poi confermata dalle urne, di guadagnare un posto rispetto a Bergamo. I due candidati sono il segretario provinciale Aventino Frau per la maggioranza e Gianni Prandini per la minoranza interna. Frau si dimette da segretario provinciale e Boni viene eletto "reggente" in attesa di un assestamento degli equilibri interni. Il partito predispone un piano provinciale delle preferenze che prevede l'elezione di 3 candidati per la maggioranza (Padula, Salvi e Capra), 3 per la minoranza (Pedini, Allegri e Prandini) oltre al segretario Frau; tuttavia poiché il settimo deputato era alquanto incerto, perché in ultima analisi dipendeva sia dal totale dei voti ottenuti dalla DC nella circoscrizione, sia dalla distribuzione delle preferenze tra i candidati bergamaschi, si scatena una caccia spasmodica alle preferenze personali, da aggiungere a quelle proposte dal partito nelle varie sezioni della provincia, in particolare tra quei candidati che maggiormente temevano di arrivare settimi, e cioè in particolare i due nuovi candidati (Frau e Prandini) e Michele Capra. Ad urne aperte non mancano le sorprese: Aventino Frau si piazza al secondo posto dopo Pedini, staccando di oltre 11 mila preferenze i due contendenti più deboli, mentre la lotta per evitare il settimo posto è vinta da Capra che supera Prandini per poche decine di voti. Tuttavia, strappando un posto ai bergamaschi, tutti e sette i candidati bresciani sono eletti alla Camera. Il Cittadino, in un fondo non firmato, ma attribuito a Bruno Boni in qualità di reggente, dopo essersi dichiarato soddisfatto per la tenuta elettorale del partito (50,7% contro il 50,8% delle politiche del 1968, su base provinciale) e per l'elezione del settimo deputato, commenta:

"L'unico neo riguarda il mancato rispetto in alcuni casi delle preferenziazioni stabilite dalla direzione del partito e, in casi maggiori, la strumentalizzazione di gruppi, di persone, e la eccessivamente disinvolta (per non dire di peggio) caccia alle preferenze, operata da qualche ben identificata parte."[73]

Il congresso provinciale dell'anno successivo (Sirmione, 31 marzo 1973) conferma la frammentazione delle correnti e non è in grado di determinare una maggioranza stabile all'interno del partito. La divisione interna alla corrente di Forze Nuove, tra il gruppo guidato da Capra e quello di Fontana, porta alla formazione di nuove liste congressuali. I forzanovisti di Capra entrano nella lista della sinistra Provincia Nuova (che includeva anche i morotei di Salvi), mentre i fontaniani entrano in una lista guidata da Boni, che comprende i texani e i pochi fanfaniani superstiti. La formazione di una lista così eterogenea è dovuta alla necessità di superare lo sbarramento del 10% dei voti dei delegati, così come stabilito dal nuovo regolamento congressuale. Complessivamente i dorotei conquistano 10 seggi, 7 i prandiniani, 10 la lista di Boni, Fontana e Frau, 9 la sinistra (tra cui i forzanovisti Fappani e Papetti). L'alleanza tra Pedini e Prandini (17 seggi su 36) non è sufficiente a guidare il partito, ma è talmente forte da impedire di fatto una maggioranza che li escluda. Dopo oltre sei mesi di trattative defaticanti, senza raggiungere alcun accordo, dopo la pausa estiva si moltiplicano gli incontri e gli scambi di opinioni tra i vari leader delle correnti interne. Secondo una ricostruzione del periodico L'Altra Brescia, all'inizio d'ottobre, in un hotel di Roma, si tiene un incontro riservato tra Pedini, Prandini, Frau e Mazzoli, nel quale è concordata una nuova maggioranza, imperniata sull'elezione del texano Rosini alla segreteria, mentre la mattina del 6 ottobre a Sale Marasino, i rappresentanti delle tre correnti stabiliscono che la segreteria organizzativa spetta ai prandiniani (Armando Pietta) e quella amministrativa ai dorotei (Marcello Maruti).[74] Il pomeriggio dello stesso giorno si riunisce il Comitato provinciale per eleggere il Segretario, ma l'accordo vacilla perché alcuni texani (in particolare Battista Giacomini e Giuseppe Joannes) non condividono l'accordo raggiunto da Frau con Prandini e Pedini. E' così concordato un nuovo rinvio del Comitato al successivo sabato (13 ottobre), con "Prandini e i dorotei debitamente indignati (termine debole ed inadeguato) nei confronti di Frau, sganciatosi clandestinamente e resosi irreperibile."[75]

Finalmente nella notte tra il 13 e il 14 ottobre, nella riunione del Comitato provinciale all'hotel President di Roncadelle, è raggiunto un accordo complessivo di tutte le componenti per una segreteria unitaria, a seguito di una "proposta arbitrale" di Bruno Boni, che per l'ultima volta svolge un ruolo, almeno apparentemente, super partes. Segretario provinciale è eletto Giacomo Rosini, mentre Egidio Papetti è segretario organizzativo e il prandiniano Riccardo Conti segretario amministrativo.

 

Le aspre battaglie politiche interne alla DC nei primi anni Settanta possono essere meglio comprese se inquadrate nel contesto delle rapide trasformazioni della società del tempo. La spinta del rinnovamento conciliare determina significativi mutamenti culturali e organizzativi nelle associazioni e organizzazioni del mondo cattolico a partire dagli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II. In primo luogo cambia la percezione del significato dell'impegno socio-politico dei cattolici. La diocesi di Brescia è particolarmente attenta e rapida nel fare proprie le nuove prospettive conciliari. Già nel convegno sacerdotale del 1966 (26-28 aprile) comincia a delinearsi una concezione più radicale del dovere dell'impegno dei cattolici per trasformare le strutture sociali ingiuste; Raimondo Manzini, incaricato dal vescovo Morstabilini a svolgere una relazione sul ruolo dei laici, richiamando il pensiero di padre Jean J. Hamer, afferma:

"… il miglioramento della casa, della sicurezza del lavoro, dell'igiene, una più giusta ripartizione del lavoro e della ricchezza […] il progresso delle arti e della cultura, la ricerca scientifica non sono per i laici secondari, facoltativi. Il vero cristiano si consacrerà a fondo, senza secondi fini di proselitismo."[76]

Il 29 giugno 1967 il vescovo Luigi Morstabilini, nello spirito del Concilio, nomina il primo Consiglio Pastorale diocesano, formato da 12 laici (tra cui 4 donne), 5 componenti per gli ordini religiosi (tra cui 3 suore) e 11 sacerdoti diocesani; nel 1968 verrà integrato con 7 laici rappresentanti delle zone pastorali. Tra i laici troviamo autorevoli esponenti dell'associazionismo e della cultura cattolica, come Remo Bernacchia, Dino Filtri, Renato Papetti e Antonio Gorio dell'Azione Cattolica, Rita Gabelli delle ACLI, Angelo Onger e Giuseppe Onofri.[77]

I verbali delle riunione del Consiglio sono regolarmente pubblicati sulla rivista diocesana; da essi emerge come in diverse occasioni le decisioni siano state prese a maggioranza, con votazioni per alzata di mano. Ad esempio, nell'aprile del 1970, la decisione di affiancare un condirettore laico al direttore del settimanale diocesano è presa con 10 voti a favore, 6 contrari e due astenuti.[78] Questo primo consiglio pastorale diocesano affronta temi importanti, quali la riforma della Curia e l'approvazione del direttorio per l'elezione a suffragio universale e il funzionamento dei consigli pastorali parrocchiali, nel quale viene stabilito che il CPP è "organo consultivo (anche se in determinati casi è possibile renderlo organo deliberante)."[79]

Un mutamento significativo ed emblematico dell'atteggiamento pastorale della chiesa locale nel periodo postconciliare è dato dalla specifica attenzione alla pastorale del lavoro: il 17 ottobre 1970, a stretta maggioranza, il Consiglio pastorale diocesano approva la proposta di autorizzare "l'esperienza di sacerdoti al lavoro [i cosiddetti preti operai]… in nome e in collegamento con tutta la Chiesa";[80] il 31 ottobre dello stesso anno il Vescovo istituisce la commissione diocesana per la pastorale del lavoro e il corrispondente ufficio di Curia, che assumerà un ruolo fondamentale nella pastorale diocesana degli anni successivi. Nello stesso periodo viene nominato il nuovo Consiglio pastorale diocesano, che si riunisce la prima volta il 27 gennaio 1972.

Questo vento conciliare, il rinnovamento dell'organizzazione pastorale della chiesa diocesana e il parallelo sorgere di comunità di base critiche verso l'istituzione ecclesiastica si sovrappongono al clima di lotte sociali fortissime a partire dal 1968, con il sorgere del movimento studentesco e le lotte operaie del cosiddetto autunno caldo. Tutto ciò produce marcate conseguenze nell'associazionismo cattolico e nei rapporti tra la DC e il mondo cattolico nei primi anni Settanta. Da un lato si consolida la scelta dell'autonomia della CISL, che porta gradualmente Castrezzati e Pillitteri a disimpegnarsi dalle lotte interne alla DC. Dall'altro all'interno delle organizzazioni cattoliche si manifestano idee e tendenze nuove, spesso radicalmente critiche nei confronti della società e degli orientamenti tradizionali del loro impegno sociale. Particolarmente significativo è il caso delle ACLI, che con i loro oltre 18 mila iscritti, impegnati in 178 circoli di paese o di quartiere, erano particolarmente radicati nel tessuto sociale e offrivano ai lavoratori una vasta rete di servizi sociali.

Il XII congresso provinciale delle ACLI bresciane, tenutosi al Franciscanum il 26-27 giugno 1971, porta alla presidenza dell'associazione Giuseppe Anni, che succede a Mario Faini. Il congresso si svolge in un clima che evoca trasformazioni radicali: due anni prima l'XI congresso nazionale a Torino aveva sancito anche formalmente la fine del collateralismo con la DC; l'anno precedente l'incontro nazionale di studio di Vallombrosa aveva formulato "l'ipotesi socialista" nella prospettiva del superamento del sistema capitalistico e solo una settimana prima (19 giugno) Paolo VI aveva deplorato l'orientamento delle ACLI che "con le sue discutibili e pericolose implicazioni dottrinali e sociali le ha condotte fuori dall'ambito delle associazioni per le quali la Gerarchia accorda il consenso", con il conseguente ritiro degli assistenti ecclesiastici e la cessazione di ogni aiuto economico. Mentre a Roma era in corso, con l'appoggio delle gerarchie ecclesiastiche, il processo di scissione delle ACLI, con la nascita delle "libere ACLI", che poi diverranno il Movimento Cristiano Lavoratori (MCL) nel 1972, il vescovo di Brescia, mons. Luigi Morstabilini, incontrava il 28 aprile 1971 i dirigenti provinciali del movimento nella stessa sede delle ACLI di via Monti, gesto di grande valore simbolico, riconfermando la "propria stima per le ACLI bresciane".[81] Un paio di mesi prima, Mario Faini, presidente provinciale dal 1967 (ma ininterrottamente membro della presidenza dal 1947, come segretario o vicepresidente) aveva deciso di non ricandidarsi, perché deluso e scettico sui nuovi orientamenti affermatisi nelle ACLI nazionali. Faini avrebbe gradito come successore il vicepresidente Pietro Segala, anch'egli attivo nella DC, basista e vicino a Padula come lo stesso Faini. Segala però, per gli impegni professionali nel settore della formazione professionale e del restauro dei beni culturali, rifiuta la nomina. Alcuni giovani dirigenti, oltre a Segala, Beppe Anni, Urbano Gerola e Sandro Albini, che nell'ambito del gruppo dirigente delle ACLI, costituivano gli alfieri di un rinnovamento generazionale che voleva rilanciare le ACLI, subentrando alla generazione dei fondatori, incarnata da Faini, indicano informalmente come candidato alla presidenza Urbano Gerola (7 aprile 1971). Dopo un giro di consultazioni tra i dirigenti aclisti condotto da Segala, risulta che la candidatura di Anni riscuote più consenso di quella di Gerola. Il 2 maggio il gruppo dirigente aclista si spacca: Gerola, appoggiato da Albini, mantiene la sua candidatura in contrapposizione a quella di Anni, appoggiata da Faini, Segala e da Rita Gabelli. Al congresso provinciale vengono dunque presentate tre mozioni e tre liste: quella maggioritaria (Anni-Segala), quella di Gerola e Albini e quella dei circoli della città, guidata da Angelo Boniotti.  Le tesi congressuali di Anni e Segala, sottoscritte anche da storici dirigenti aclisti come Agostino Rivali e Franco Sarasini, sottolineano il carattere antagonistico del movimento sulla base delle indicazioni di Torino e affermano che il loro impegno "deve essere teso alla realizzazione di una società alternativa agli obiettivi privatistici dell'attuale sistema".[82] La mozione Anni-Segala approvata dal congresso è ancor più esplicita, laddove afferma che la realizzazione dei valori cristiani "non sia possibile senza il superamento dell'attuale sistema capitalistico" e si propone "la socializzazione dei mezzi di produzione".[83] Nonostante ciò, nel saluto al congresso il vescovo Morstabilini afferma: "non ho mai fatto mistero del mio compiacimento per l'opera svolta dalle ACLI".[84] L'elezione del comitato provinciale avveniva in congresso col metodo del panachage, che accentua il trionfo della lista Anni-Segala, che conquista 24 seggi su 30, mentre 4 vanno ai circoli della città e 2 alla lista Gerola-Albini.

Durante il congresso nazionale di Cagliari (13-16 aprile 1972), Beppe Anni si schiera con la mozione di sinistra di Geo Brenna, anziché con quella maggioritaria di Gabaglio,[85] e ciò, pur provocando qualche malumore nel gruppo dirigente bresciano, non basta per mettere in discussione la presidenza. Infatti il solo Sandro Albini si dissocia apertamente dalla collocazione nazionale del gruppo dirigente bresciano, astenendosi dall'approvare il documento politico della presidenza nel consiglio provinciale del 23 settembre 1972. I due anni di presidenza Anni sono caratterizzati da un'intensa attività, spesso sorretta dall'entusiasmo e la determinazione di quei militanti e dirigenti che aderivano senza riserve alla nuova linea politica anticapitalista, in un quadro culturale che estremizzava il rinnovamento conciliare in forme creative e polemiche verso la tradizione, attività che però crea inevitabili fratture con i settori più tradizionalisti del mondo cattolico e del clero bresciano. Il segno più evidente della disapprovazione da gran parte del clero degli orientamenti delle ACLI è la partecipazione di don Enzo Giammancheri, allora docente in Seminario e all'Università Cattolica (nel 1976 diverrà vicario episcopale per la cultura) ad alcuni seminari formativi a livello nazionale del gruppo fondatore del MCL, che porterà a Brescia, nel corso del 1972 alla formazione dei primi circoli MCL in città, a Santa Maria della Vittoria (quartiere Porta Cremona) e alla Pavoniana (quartiere S. Eustacchio) col passaggio in blocco di quasi tutti gli iscritti di questi circoli ACLI al nuovo movimento.[86] Da notare che anche sacerdoti come mons. Vittorio Bonomelli, eroico protagonista della Resistenza, allora parroco di Breno, appoggiano il nuovo movimento. La presidenza Anni, accerchiata dalla diffidenza di gran parte del clero e della maggioranza dei tradizionali dirigenti di circolo, resiste fino al 3 marzo 1973, quando Beppe Anni, ormai appoggiato solo da 6 consiglieri su 30, si dimette. Nella lettera di dimissioni, Anni afferma che "la rottura dell'unità politica dei cattolici" perseguita dalla sua presidenza costituisce una "liberazione della fede da tutte le strumentalizzazioni" e ribadisce la centralità dell'impegno delle ACLI nel movimento operaio "perché forza antagonista allo sviluppo capitalistico." Il 10 marzo il consiglio provinciale elegge la nuova presidenza Sarasini (vicepresidenti Albini e Rivali) con solo 7 voti contrari. Franco Sarasini, già dirigente dell'Azione Cattolica, sembra il presidente più adatto per tentare di ricucire i rapporti col mondo cattolico (la preoccupazione principale della presidenza Sarasini, afferma Beppe Anni in consiglio provinciale, è "quella di rassicurare il mondo cattolico"[87]). E quando al congresso dell'anno successivo, 6-7 aprile 1974, Sarasini non si ricandida per motivi personali, la nuova presidenza Rivali (1974-76) segue gli stessi orientamenti della precedente. Lo stesso Anni e parte dei suoi sostenitori lasciano le ACLI per impegnarsi attivamente nei gruppi della sinistra extraparlamentare, mentre gli altri ripiegano sull'attività di circolo o sindacale, ormai esclusi da ogni ruolo dirigente nelle ACLI provinciali. La sola Gioventù Aclista, guidata da Martino Troncatti, mantiene una posizione più radicale e critica nei confronti del tradizionale mondo cattolico. Esempio significativo di tale orientamento è l'organizzazione il 10 gennaio 1974 alla Cavallerizza di un affollatissimo dibattito pubblico con  padre Giovanni Battista Franzoni,[88] ex abate di S. Paolo fuori le mura, nonostante la disapprovazione della presidenza provinciale delle ACLI.

In misura meno drammatica anche l'Azione Cattolica diocesana subisce pesanti conseguenze del clima di quegli anni. Nel periodo considerato in questo scritto, l'AC dimezza i suoi iscritti (da 62 mila a metà degli anni Sessanta a 26 mila dieci anni dopo) e soprattutto nel movimento giovanile si manifestano atteggiamenti molto critici verso la tradizione:

"L’Azione cattolica bresciana negli anni della contestazione co­nosce a sua volta un pesante ridimensionamento, con l’abbandono da parte di alcuni dirigenti ed esponenti che in un primo tempo partecipano alla stagione delle lotte studentesche, poi scelgono la militanza nei partiti della sinistra storica ed extraparlamentare, talu­ni abbandonando la fede cristiana, altri, invece, ricollocandosi nelle comunità di base o continuando il proprio impegno in Cristiani per il socialismo, il movimento di cui sono promotori, fra gli altri, padre Giulio Girardi e Franco Passuello."[89]

La diaspora che avviene tra le frange e i gruppi più radicali del mondo cattolico, che soggettivamente intendevano o desideravano attuare integralmente gli insegnamenti del Concilio, ma che ne esasperavano alcuni aspetti, distaccandoli dalla tradizione della Chiesa, si svolge in un quadro culturale in cui il marxismo, rifiutato come ideologia atea, è invece ritenuto compatibile col cristianesimo, se inteso come metodo d'analisi sociale ed economica.[90] Le comunità di base e i gruppi aderenti a cristiani per il socialismo si allontaneranno non solo dalla DC e dalle organizzazioni collaterali del mondo cattolico, ma anche dalla Chiesa cattolica come istituzione.

La crisi tra i giovani dei giovani d'AC e la diffusione al loro interno d'orientamenti contestativi tipicamente sessantotteschi è tra le cause che agevolano in certo radicamento tra i giovani cattolici di Comunione e Liberazione, i cui primi nuclei bresciani si formano nelle università nel 1973, mentre pochi mesi dopo nasce a Brescia il Movimento Popolare, animato dai ciellini, ma formalmente indipendente. In generale i primi anni Settanta connotano una fase conflittuale nel mondo cattolico tra innovatori e tradizionalisti, con fratture anche rilevanti, che non risparmiano nemmeno i padri filippini della Pace.

 

Nel 1974 la nascita del quotidiano Bresciaoggi rappresenta una novità importantissima, perché pone fine al monopolio trentennale dell'informazione locale del Giornale di Brescia. Il nuovo quotidiano inizia le sue pubblicazioni il 27 aprile 1974: si tratta di un giornale di 12 pagine, stampato, con l'allora tecnica innovativa offset, in circa 15 mila copie dalla tipografia Roweda. Il capitale della società editoriale, costituita il 10 gennaio 1974, è fornito principalmente da tre industriali bresciani, Luigi Lucchini, Evaristo Gnutti e Adamo Pasotti. E' interpellato anche l'influente industriale armiero Pier Giuseppe Beretta, che pur giudicando "interessante" l'idea di un nuovo quotidiano, non partecipa all'impresa. Non è possibile documentare in modo incontrovertibile chi abbia avuto inizialmente l'idea di realizzare un nuovo quotidiano, anche se più fonti l'attribuiscono a Bruno Boni. Appare peraltro del tutto plausibile che il Sindaco di Brescia, in grande difficoltà nel suo partito, incalzato da destra dall'alleanza Pedini - Prandini che al congresso di Sirmione aveva sfiorato la maggioranza assoluta nel comitato provinciale, e criticato dalla sinistra interna che auspicava un nuovo sindaco della città dal 1975, avesse tutto l'interesse a cercare un maggior appoggio mediatico. Tradizionalmente infatti il Giornale di Brescia, che apparteneva ancora alla Banca S. Paolo presieduta da Camadini, nell'ambito di un orientamento "moderato conservatore",[91] aveva sempre appoggiato i dorotei, cercando velatamente di ridimensionare il ruolo dei fanfaniani. Tuttavia anche l'on. Aventino Frau svolge un ruolo centrale nella nascita e nella gestione dei primi mesi di vita del nuovo quotidiano, e anzi potrebbe anche esserne stato il primo ideatore.[92]

Il progetto iniziale prevedeva che la direzione del nuovo giornale fosse affidata a Bruno Marini, personalmente conosciuto e stimato da Lucchini, prestigioso giornalista del Giornale di Brescia, assunto nel 1945 come rappresentante di area PCI designato dal CLN, che però non era valorizzato, anzi era di fatto emarginato, perché considerato "di sinistra", da parte della direzione e della proprietà (Giuseppe Camadini). Bruno Marini aveva anche collaborato, nei primi anni Sessanta, all'Eco di Brescia, sotto la direzione di Renzo Baldo e Ubaldo Mutti.[93] Aventino Frau svolge un ruolo decisivo per convincere cinque giornalisti del Giornale di Brescia (tra cui Giorgio Piglia e Veniero Porretti) ad entrare a far parte della nuova redazione. Il 20 giugno 1973 Bruno Marini muore all'improvviso per un ictus. Dopo un primo momento di smarrimento, quando sembra che il progetto possa essere addirittura accantonato, Lucchini, Boni e Frau indicano per la direzione del nuovo quotidiano Giannetto Valzelli, giornalista che qualche anno prima era stato licenziato dal Giornale di Brescia per alcuni articoli apparsi sul Bruttanome.[94] A posteriori Lucchini esprimerà un giudizio molto negativo su Valzelli:

"Ripiegammo allora, come direttore, su un nome nuovo, Giannetto Valzelli, una bella firma ma un direttore scadente. Non aveva carisma. Inoltre, in tempi di sinistrismo imperante, passava per un destro e questo erodeva ulteriormente la sua credibi­lità al giornale. Giannetto era un sostenitore di Boni, la redazio­ne gli era avversa. Il giornale parte bene, ma presto finisce male."[95]

Il progetto editoriale infatti subisce un significativo rallentamento per la morte di Marini. Solo nell'aprile del 1974, nell'imminenza del referendum sul divorzio, Bresciaoggi può iniziare la pubblicazione. Ugo Calzoni, stretto collaboratore ed amico di Luigi Lucchini, racconta che:

"Aventino Frau […] ha cercato subito di mettere le mani sul timone della barca; dapprima consigliando agli azionisti di stare alla larga dal giornale e di rimanere fuori dalla vita dell’azienda; in seguito sollecitando, come nei caso delle azioni di Lucchini, un ruolo fiduciario e non solo redazionale per Veniero Porretti e Luciano Mondini. Per il resto a tenere in piedi i conti, gli investimenti e i contratti, bastava il geometra Elio Marpicati. Più che una azienda poteva sembrare una bottega, una avventura, un giornale studentesco, una goliardata. La novità della tecnologia della stampa a freddo che aveva affasci­nato Bruno Marini e rassicurato gli azionisti sui costi tipografici relativamente bassi, non escludeva la necessità di investire in Redazione, in risorse umane, in corrispondenti affidabili, in una distribuzione decente con una raccolta pubblicitaria adeguata."[96]

Calzoni coglie un punto essenziale, poiché le difficoltà nella raccolta pubblicitaria e nella distribuzione sono fin dall'inizio il tallone d'Achille del nuovo giornale. Molto contenuti erano invece i costi di stampa. Il titolare dell'agenzia di distribuzione era Giuseppe Inselvini. Abbastanza singolare è la gestione indiretta dei due maggiori azionisti: Lucchini era rappresentato da Porretti (politicamente vicino a Frau), Gnutti da Mondini (politicamente vicino a Boni).

Per circa un anno l'attività editoriale si è svolta regolarmente, ma già nella primavera del 1975 le perdite del nuovo giornale ammontano a oltre un miliardo, molto più di quanto inizialmente previsto. Il numero di copie vendute scende dalle iniziali 8 mila a 3500-4000. Così nel luglio del 1975 Lucchini decide di ritirarsi dall'impresa, seguito dagli altri due maggiori azionisti, con la conseguente richiesta di fallimento per la società editoriale (il tribunale civile di Brescia dichiarerà fallita la società Brescia Edizioni il 1 ottobre 1975). In realtà le motivazioni economiche e le difficoltà gestionali non sono il motivo principale della rinuncia dell'imprenditore siderurgico. Racconta lo stesso Lucchini che alcuni giornalisti

"portarono il giornale su posizioni di estremismo che non condividevo […] Non ritenevo giusto spendere centinaia di milioni per salvare il posto ad alcuni giornalisti, in un ambiente in cui ne erano cresciuti altri che (per quanto mi riguarda) non meritavano fiducia, perché non entravano nel mio ordine di idee".[97]

Per evitare la chiusura, le pubblicazioni proseguono in autogestione dal 29 luglio 1975; il giornale Bresciaoggi Nuovo è firmato dalla giunta dell'associazione lombarda dei giornalisti e di membri del comitato di redazione. Il proprietario della tipografia, Armanno Becchetti, per evitare l'interruzione delle pubblicazioni, concede l'uso gratuito della tipografia stessa per una settimana, in attesa della formazione della cooperativa di giornalisti e poligrafici. Non altrettanto collaborativa è l'agenzia di distribuzione, che interrompe la stessa in mancanza di pagamento anticipato, costringendo così i giornalisti e gli altri lavoratori della cooperativa a sobbarcarsi per alcune settimane il lavoro notturno del recapito alle edicole. La linea politica del giornale si sposta ulteriormente a sinistra, Valzelli lascia e Boni perde un ulteriore sostegno alla sua politica.

Quando escono i primi numeri di Bresciaoggi è in pieno svolgimento la campagna elettorale per il referendum abrogativo della legge Fortuna-Baslini, che aveva introdotto il divorzio. La DC bresciana ufficialmente non si discosta dalla linea nazionale, che sosteneva il sì al referendum: nel marzo 1974 il comitato provinciale approva un documento nel quale afferma la netta opposizione alla legge "pericolosamente permissiva e gravemente lacunosa" poiché consente "in modo indiscriminato e automatico lo scioglimento del matrimonio" e risulta "obiettivamente incurante di interessi, quali quelli del coniuge abbandonato senza colpa e dei figli, che meritano primaria e irrinunciabile tutela."[98]

Sempre nel mese di marzo, l'avv. Stefano Minelli, direttore della rivista Humanitas della Morcelliana, nonché consigliere d'amministrazione del Giornale di Brescia, aderisce ad un appello nazionale per il no al referendum promosso dai cattolici del dissenso, tra cui Raniero La Valle, Pietro Scoppola, padre Davide M. Turoldo e alcuni sindacalisti della CISL. E' il primo evidente segnale della formazione anche a livello bresciano di un fronte del dissenso rispetto alla linea sia della DC, sia delle gerarchie ecclesiastiche, che si concretizza il mese successivo con la pubblicazione di un documento dei cattolici democratici per il no al referendum. Aderiscono pubblicamente al documento esponenti della DC, come gli assessori comunali Luigi Bazoli e Battista Fenaroli, i consiglieri provinciali Tino Bino e Giancarlo Lizzeri, il consigliere comunale Stefano Frerini e Innocenzo Gorlani, della CISL, come Franco Castrezzati, segretario FIM, Pietro Panzera, segretario della FILTA, Cesare Reghenzi, segretario della FILCA, Giovanni Landi e Franco Gheza, delle ACLI, come Sandro Albini, vice presidente provinciale, Mario Faini e Maria Teresa Bonafini, e perfino Angelo Onger, redattore del settimanale diocesano, La Voce del Popolo.[99]

Il già citato congresso provinciale delle ACLI del 1974, il 7 aprile approva un documento ufficiale in cui. Pur non prendendo posizione esplicita per il no, afferma che il congresso "giudica legittima ogni diversità di orientamenti elettorali, anche nella particolare e delicata situazione del voto sul referendum" e tale posizione del movimento dei lavoratori cattolici è ribadita dal presidente provinciale Agostino Rivali in una lettera pubblica al settimanale diocesano.[100] E' l'unica organizzazione del mondo cattolico a non pronunciarsi esplicitamente per l'abrogazione della legge sul divorzio e a non raccomandare ai propri aderenti una precisa indicazione di voto.

Va soprattutto rilevato come per la prima volta nella storia della DC bresciana emerga pubblicamente un dissenso sulla linea politica che comporta anche una differenziazione nelle intenzioni di voto. La pubblica dissociazione di vari esponenti della sinistra DC, fra cui due assessori comunali (Bazoli e Fenaroli) suscita molto scalpore e influisce significativamente sull'opinione pubblica. Tuttavia va rimarcato come i maggiori leader della sinistra DC bresciana (come Martinazzoli, Padula, Capra e Gitti) si allineino con le indicazioni nazionali della DC, come peraltro aveva fatto la sinistra DC nel consiglio nazionale del partito.[101] Il Sindaco di Brescia Bruno Boni è molto duro verso i dissidenti; intervistato in merito al documento dei cattolici democratici per il no al referendum, afferma che gli iscritti alla DC "debbano adeguarsi alle deliberazioni degli organi nazionali. La disciplina è, a mio avviso, la fonte di un imperativo morale che supera, ad un certo momento, la convinzione personale. […] Se per qualcuno è nato un caso di coscienza, esso investe, a mio parere, anche l'appartenenza al partito". E ancora: "Gli iscritti alla DC e coloro che ne condividono la linea politica hanno il dovere di votare per il sì."[102]

Il dissenso investe anche il clero. Inizialmente cinque sacerdoti, tre padri Filippini (Mariano Comini, Nicola Negretti e Angelo Zecchi) e due curati del clero secolare (Piero Lanzi e Battista Rossi) si pronunciano pubblicamente per il no. Il vescovo mons. Luigi Morstabilini scrive loro una lettera per chiedergli di non distribuire davanti alle chiese un volantino che criticava la posizione della CEI sul referendum ed esprimeva "disapprovazione chiara e la proibizione ferma per questo gesto e per la partecipazione vostra di sacerdoti a dibattiti e comizi pubblici."[103] In risposta alla lettera del vescovo le comunità ecclesiali di base diffondono un documento in difesa dei cinque preti, sottoscritto da 301 firme, tra cui una ventina di sacerdoti.[104]

Il risultato del referendum, che provoca a Paolo VI "stupore e dolore", è a Brescia meno netto che a livello nazionale: mentre in città i sì raggiungono il 38% quasi in linea con la media nazionale, nell'intera provincia il voto abrogazionista supera se pur di poco (50,3%) il no. Il settimanale diocesano nell'analizzare le cause della sconfitta del fronte abrogazionista e quindi del mondo cattolico, lamenta che i sindacati, compresa la CISL, e le ACLI siano stati attivi sul fronte del no, e che il nuovo quotidiano Bresciaoggi, pur "ispirato da due grosse personalità della DC" (Boni e Frau), abbia fatto lo stesso.[105]

 

La strage fascista di piazza Loggia, 28 maggio 1974, con otto morti e oltre cento feriti, è evento rilevante per la storia italiana, che pone la città al centro dell'attenzione nazionale, con oltre mezzo milione di persone che partecipano alle esequie (alle quali sono presenti il presidente della Repubblica, Giovanni Leone e del governo, Mariano Rumor) le cui conseguenze sono determinanti per la storia di Brescia. Qui tuttavia mi limiterò ad esaminare un solo aspetto, che non è certamente quello più importante, e che riguarda il visibile appannamento della leadership di Boni, causa determinante, anche se non unica, delle vicende che porteranno alla sua mancata ricandidatura a sindaco della città.

Boni si trovava sul palco quando, durante il discorso di Franco Castrezzati, la bomba esplode. Dopo pochi minuti il sindaco è già nel suo ufficio, in una improvvisata riunione coi sindacalisti per decidere come affrontare l'emergenza. Scrive lo stesso Boni:

"Mentre era in corso la riunione sono capitati altri amici […] e tra questi l'allora presidente dell'Amministrazione Provinciale Ciso Gitti, il quale, essendo probabilmente già in corso le strategie elettorali, ha invitato a fare le riunioni alla Provincia; la proposta è stata immediatamente accolta e la riunione si è trasferita in Broletto."[106]

Il 31 maggio, durante i funerali delle vittime della strage, Bruno Boni pronuncia un discorso che viene accolto dalla folla con fischi corali e prolungati, soprattutto in occasione dei ripetuti saluti e ringraziamenti alle massima autorità dello Stato presenti sul palco. Racconta ancora Boni:

"Sapevo benissimo che se non avessi salutato il Presidente della Repubblica tre volte, insieme al Presidente del Consiglio, avrei evitato delle reazioni; ma Le devo dire che l'ho fatto di proposito, perché gli altri avevano ignorato le massime autorità dello Stato. Per di più il discorso era già stato visto dal Presidente della Repubblica e, se non l'avessi pronunciato, sarebbe stato, a mio giudizio, un atto di vigliaccheria."[107]

Sicuramente le plateali contestazioni della folla a Boni costituiranno, nei mesi seguenti, un tipico argomento per rafforzare le posizioni della sinistra DC che auspicava la sostituzione del Sindaco della città.

I giorni che seguono alla strage sono "il momento in cui Bruno Boni si trova ad essere non più sintonizzato sul sentire della città, su di un senso comune che non riesce più ad interpretare, come preso da uno smarrimento che gli fa perdere la capacità di assicurare alla Loggia il proprio ruolo di riferimento nelle ore e nei giorni immediatamente successivi alla strage."[108]

Oltre ad inficiare il ruolo di guida di Boni, per Paolo Corsini la strage di Brescia rappresenta anche un punto di rottura per la tradizionale egemonia del mondo cattolico sulla società civile bresciana:

"Per la prima volta l'egemonia democristiana e del mondo cattolico è seriamente intaccata. Una collaudata capacità d'interpretare e indirizzare, anche in momenti politicamente difficili, coscienze e orientamenti collettivi, s'incrina. L'appello con cui la Chiesa fa sentire la sua voce – una condanna «per il criminale, premeditato ricorso alla violenza» attribuito allo «spirito di Caino» - suona dissonante rispetto ai sentimenti d'indignazione e alle richieste di giustizia che la città non vuole siano frustrati, una volta ancora, da uno Stato arrendevole, se non addirittura complice."[109]

La volontà di non riconfermare Boni quale Sindaco della città emerge per la prima volta, sia pure implicitamente, in un atto ufficiale della DC il 27 dicembre 1974, quando il Comitato cittadino del partito approva un documento, proposto dal segretario cittadino prof. Alberto Albertini, nel quale si afferma che "riteniamo necessario […] il cambiamento della direzione politica della giunta comunale" e si elencano una serie di contenuti per rinnovare la politica cittadina, attribuendo "maggiore spazio" ai consigli di quartiere, la cui elezione a suffragio universale e in più tornate era stata completata da poche settimane, e soprattutto auspicando "maggiori convergenze su obiettivi precisi" col PCI, pur nella distinzione di ruoli tra maggioranza e opposizione.[110] Il documento ottiene un'approvazione quasi unanime, poiché votano contro solo gli esponenti fontaniani di Forze Nuove, che si erano separati dalla corrente guidata da Michele Capra nel congresso provinciale del 1973. Nel dibattito per la prima volta viene avanzato, informalmente, il nome di Cesare Trebeschi come candidato sindaco preferito dal Comitato cittadino. La richiesta di sostituire Boni viene riproposta in un documento delle sinistre (Base, morotei e forzanovisti di Capra) nel Comitato provinciale del 18 gennaio 1975, che però non viene approvato. Bruno Boni, pochi giorni prima, il 7 gennaio, aveva scritto una lettera al Segretario provinciale Rosini per difendersi dalle critiche e dagli attacchi che si andavano concentrando sulla sua persona, non escludendo una sua ricandidatura, perché "dobbiamo tutti rimetterci al partito" accettando le decisioni degli organismi statutari, "tenendo conto, in primo luogo, del suffragio che le persone possono suscitare."[111]

Il mese successivo, e precisamente il 17 febbraio, i rappresentanti della sinistra interna si dimettono dalla Segreteria provinciale, in sintonia con quanto avvenuto a livello nazionale, dove i leader della sinistra DC erano usciti dalla maggioranza che reggeva la segreteria Fanfani. A Brescia finiva così la gestione unitaria avviata dopo il congresso provinciale del 1973.

Il 7 marzo il Giornale di Brescia informa i propri lettori che Bruno Boni "non desidera porre la sua candidatura" a Sindaco della città, precisando che non si tratta di una dichiarazione ufficiale, ma di un'indiscrezione già pubblicata da quotidiani nazionali.[112] Il 15 marzo il Comitato provinciale della DC diffonde un lungo comunicato ufficiale, con il quale "esprime il ringraziamento più sincero e cordiale al sindaco Bruno Boni per l'autorevolezza, l'imparzialità e la dedizione con cui ha svolto il suo mandato alla guida dell'Amministrazione, per l'intelligenza e l'efficacia della sua azione al servizio della comunità cittadina." Boni conferma ufficialmente "la sua decisione di non ripresentare la sua candidatura a palazzo Loggia" e si dichiara disponibile "per altri incarichi elettivi che il partito intendesse affidargli."[113] Boni, in sostanza, ritenuta ormai persa la battaglia per rimanere Sindaco, aspira alla presidenza dell'Amministrazione provinciale di palazzo Broletto, trovando in questo l'appoggio di Prandini e Pedini che, alleandosi con il residuo gruppo di fanfaniani vicini all'ex Sindaco, speravano di rafforzare la maggioranza che sosteneva la segreteria, dopo il passaggio all'opposizione delle sinistre interne (come è noto l'alleanza Prandini-Pedini conquisterà il controllo del partito solo il 17 marzo 1980, con l'elezione di Riccardo Conti alla segreteria provinciale, che succederà a Ciso Gitti, eletto deputato nel 1979). Per facilitare l'approdo di Boni al Broletto, è proposta anche la candidatura del presidente uscente Gitti alla carica di Sindaco, e nella commissione elettorale è formalizzata la proposta da parte dei rappresentanti di Prandini e Pedini di candidare Gitti quale capolista alle elezioni del consiglio comunale, proposta avversata dalla sinistra interna, che propone in alternativa Martinazzoli come capolista, per favorire così la candidatura a Sindaco di Trebeschi,[114] che appariva ormai quella vincente per varie e concomitanti ragioni. In una fase storica in cui la DC appariva in grande difficoltà, in seguito al referendum sul divorzio e alla crisi della segreteria Fanfani, a livello nazionale, e alla stragia di piazza Loggia, a livello locale, lo scambio Boni – Gitti sarebbe apparso all'opinione pubblica come un mero gioco di potere, mentre le altre due personalità di rilievo della sinistra del partito, maggioritaria in città, e cioè Padula e Salvi, non erano disponibili, il primo perché ambiva a cariche governative, ed il secondo perché indispensabile a livello nazionale come principale collaboratore di Aldo Moro. Perfino La Pira era intervenuto per sconsigliare la candidatura di Salvi, altrimenti Moro si sarebbe "sgonfiato come un palloncino".[115] Viceversa Trebeschi era un indipendente, aveva fornito ottima prova come presidente dell'ASM, era gradito alla maggior parte del mondo cattolico e poteva essere presentato come un segno evidente di rinnovamento, dopo la lunghissima era Boni, e nel contempo era gradito alle famiglie tradizionali bresciane e al mondo economico.

La questione del capolista si trascina ancora per un paio di settimane: Gitti rifiuta fermamente la candidatura, la sinistra trova un muro invalicabile sulla proposta di Trebeschi capolista e alla fine si trova una soluzione unitaria, ratificata anche dalla direzione nazionale del partito, su Martinazzoli, mentre Trebeschi, inserito in ordine alfabetico come tutti gli altri candidati, dovrà consolidare con le preferenze ottenute sul campo l'aspirazione della sinistra DC ad eleggerlo Sindaco.

Il 30 aprile 1975 si svolge l'ultimo consiglio comunale prima delle elezioni amministrative del 15 giugno. Bruno Boni, a conclusione della riunione, pronuncia un vibrante discorso di saluto, ricordando come egli sia, dopo 29 anni, "l'unico superstite degli eletti nel 1946 che partecipano a questo consiglio comunale" tra i 194 consiglieri da allora eletti, comprese le sostituzioni dei dimissionari. Ricorda ancora con orgoglio che in 29 anni è sempre stato presente alle 270 riunioni del consiglio comunale della città, partecipando all'approvazione di 12371 delibere.[116] Conferma la sua intenzione a non ricandidarsi, sottolinea il suo ruolo di mediazione e di ascolto di tutte le parti politiche, afferma lo spirito di sacrificio e l'onestà che hanno guidato il lavoro di tutto il consiglio. Così, tra lunghi, calorosi e unanimi applausi dei consiglieri e del pubblico, cala il sipario sull'era Boni.



[1] M. Lovatti, Democrazia cristiana, mondo cattolico e apertura a sinistra a Brescia (1958-1965), in «Storia in Lombardia», 2012, p. 117-183.

[2] On. Fabiano De Zan (1923-2013), direttore del Cittadino dal 1953 al 1963, vicesegretario provinciale della DC dal 1956 al 1958, consigliere provinciale dal 1960 al 1963, Deputato dal 1963 al 1968, Senatore dal 1968 al 1983.

[3] Prof. Bruno Boni (1918-1998), vicesindaco dal 1946 e Sindaco di Brescia dal 1948 al 1975, presidente della Provincia dal 1975 al 1985, poi presidente della Camera di Commercio. Segretario provinciale DC dal 1947 al 1951 e dal 1953 al 1963. Su Boni si veda: Omaggio a Bruno Boni, a cura di G. Valzelli e F. De Zan, Brescia, Ateneo, 1998; P. Corsini, Bruno Boni, in Biografie della città. Civitas, ricordo, memoria, Brescia, Grafo, 2003, pp. 86-87.

[4] F. De Zan, Trent'anni di potere democristiano, in «Città e dintorni», 1999, n. 67, p. 35.

[5] Ivi, p. 37.

[6] M. Pedini, Tra cultura ed azione politica. Quattro anni a Palazzo Chigi 1975-1979, Acton, Roma 2002, vol. 2, pag. 530, 13 febbraio 1978.

[7] Prof. Matteo Perrini (1925-2007), Segretario provinciale della DC dal 1963 al 1964.

[8] M. Perrini, La cultura come passione per la verità e la cura dell'anima, in S. Danesi (a cura di), Confcooperative, Unione provinciale di Brescia : cinquant'anni di storia, Brescia, Confcooperative, 2002, p. 138.

[9] M. Perrini, In quella stagione breve e ardente (1961-1965), in G. Valzelli, F. De Zan (ed.), Omaggio a Bruno Boni, Ateneo di Brescia, Brescia 1998, pp. 211-212.

[10] On. Mario Pedini (1918-2003), deputato dal 1953, senatore dal 1976 al 1979. Ministro per la ricerca (1974-76) per i Beni culturali e la Pubblica Istruzione (1978-79). Europarlamentare dal 1979 al 1984. Di Pedini si veda Quando c'era la Democrazia Cristiana. Ricordi personali 1945-1984, Brescia, Fondazione Civiltà Bresciana, 1994.

[11] Dott. Giuseppe Camadini (1931-2012) membro del comitato provinciale della DC. Dal 1962 consigliere della Banca S. Paolo, di cui è stato Presidente dal 1970 al 1976; dal 1963 al 1966 vicepresidente della Banca di Valle Camonica. Vice presidente della Scuola Editrice dal 1963 al 1970. Successivamente al periodo considerato, ha ricoperto numerosissime cariche in Banche, Assicurazioni e Fondazioni.

[12] On. Franco Salvi (1921-1994) attivo durante la Resistenza, era stato arrestato dai nazisti e condannato a 6 mesi di reclusione. Vice presidente nazionale della FUCI nel 1950, si trasferisce a Roma, dove diviene responsabile nazionale della Formazione della DC. Quando Aldo Moro diviene segretario nazionale della DC nel 1959, gli affida l'incarico di «capo della segreteria politica». Di fatto diviene il più stretto, autorevole e fidato collaboratore di Moro. Deputato dal 1963 al 1983. Su Franco Salvi si veda: C. Belci, Franco Salvi. I sentieri della coerenza, Brescia, Morcelliana, 2000; Franco Salvi, Brescia, CeDoc, 1997.

[13] On. Gianni Prandini, nato nel 1940, Segretario provinciale della DC nel 1971, Deputato dal 1972 al 1983 e dal 1992 al 1994, Senatore dal 1983 al 1992. Ministro della Marina Mercantile dal 1987 al 1989, dei Lavori Pubblici dal 1989 al 1992.

[14] Per l'unità morale del partito, per una nuova maggioranza politica, in «Il Cittadino», 24 ottobre 1965, p. 4.

[15] «Il Cittadino», 28 novembre 1965, p. 2. Dallo stesso schieramento doroteo, Giuseppe Camadini non nasconde la delusione per la scelta di Boni di avvallare la nuova maggioranza: «Noi – dice Camadini - avremmo desiderato che egli [Boni] stesse al di sopra, […] proprio perché anche noi sentiamo che le tesi che talora egli propone riassumono le esigenze anche nostre, ma aimè (sic), quando queste tesi da una valutazione di sintesi, che, ripeto, ben venga ancora, divengono posizioni di parte, come noi dobbiamo constatare allo stato degli atti, […] nasce l'esigenza di una alternativa per la vita democratica interna della DC.» (Ibidem, p. 16).

[16] On. Mino Martinazzoli (1931-2011), Consigliere provinciale dal 1960, Presidente della Provincia di Brescia dal 1970 al 1972; Segretario provinciale della DC dal 1969 al 1970; Senatore dal 1972 al 1983 e dal 1992 al 1994; Deputato dal 1983 al 1992. Ultimo segretario nazionale della DC (1992-94). Sindaco di Brescia dal 1994 al 1998. Ministro della Giustizia (1983-86), della Difesa (1986-90) e delle Riforme istituzionali e Affari regionali (1991-92).

[17] «Il Cittadino», 28 novembre 1965, p. 11; Altrettanto significativo è l'intervento congressuale di De Zan, intitolato significativamente Vogliamo una maggioranza che corrisponda, nelle scelte e nelle decisioni locali, all'originario spirito innovatore del centro-sinistra (ibidem, p. 3).

[18] Tre domande a Boni, in ibidem, p. 1.

[19] Avv. Giulio Onofri (1930-2000), Segretario provinciale della DC dal 1965 al 1969; Assessore comunale dal 1960 al 1966; dal 1974 al 1976; Vicesindaco dal 1975 al 1976; Presidente degli Spedali Civili dal 1978 al 1986.

[20] On. Giacomo Samuele Mazzoli (1920-1983), Assessore provinciale all'istruzione dal 1960 al 1968. Senatore dal 1968 al 1983. Su Mazzoli: E. Fontana, Giacomo Mazzoli, Brescia, Edizioni del Moretto, 1985.

[21] Al momento degli accordi costitutivi della maggioranza congressuale era stata promessa a Prandini la segreteria organizzativa, poiché i voti del movimento giovanili erano determinanti per la nuova maggioranza; poi nel comitato provinciale sarà invece eletto vicesegretario, dalla cui carica si dimetterà nel 1967 per contrasti col segretario Onofri.

[22] On. Pietro Padula (1934-2009), consigliere comunale dal 1960 al 1968, vicepresidente IACP dal 1962 al 1968, Deputato dal 1968 al 1983, Senatore dal 1983 al 1986, Sindaco di Brescia dal 1985 al 1990.

[23] On. Sandro Fontana (1936-2013), docente universitario, membro del comitato provinciale della DC dal 1962; consigliere regionale e Assessore dal 1970 al 1980; sarà poi senatore dal 1987 al 1992; ministro dell'università dal 1992 al 1993; europarlamentare dal 1994 al 1999.

[24] On. Ciso Gitti, nato nel 1936, presidente della Provincia dal 1972 al 1975, Deputato dal 1979 al 1994.

[25] Scrive Michele Capra: «Onofri sta comportandosi bene. Prende man mano dimestichezza col suo incarico. Resta il guaio di Ciso Gitti e Pietro Padula che gli stanno sempre alle calcagna e sono un po' i suoi cattivi consiglieri» (Archivio privato, M. Capra, Diario manoscritto, marzo 1966, d'ora in poi Diario Capra).

[26] Venticinque anni di vita bresciana: cronologia dei principali avvenimenti dall'aprile 1945 al dicembre 1970, Brescia, CeDoc, 1975, p. 224.

[27] Gli assessori socialisti sono Albino De Tavonatti, Ermenegildo Adamini e Lino Battistini.

[28] M. Tedeschi, Il Palazzo e la Città. Storia del Consiglio comunale di Brescia (1946-2006), Brescia, Grafo, 2008, p. 101. La sintesi degli interventi dei capigruppo consiliari è alle pp. 102-103. Anche Adelio Terraroli, esponente di spicco del PCI, darà un giudizio molto severo: «Quella Giunta era Boni, il suo era uno strapotere sostenuto dai voti: decideva tutto lui, faceva quello che voleva lui […] I socialisti faticavano pure a mantenere la propria visibilità» (A. Sorlini, Immagini in bianco e nero dal centrosinistra, in «AB», 1996, n. 47, p. 52).

[29] Luigi Bazoli è figlio dell'on. Stefano Bazoli, deputato dal 1946 al 1953, e nipote di Ercoliano Bazoli, presidente della Provincia. Va rilevato che le concezioni urbanistiche di Luigi Bazoli, molto critiche verso le scelte del passato, volute o anche solo accettate da Boni, erano ben note. Già nel 1962 Bazoli aveva scritto che gli anni '50 per l'urbanistica a Brescia erano stati «un decennio sciupato», che «la storia di quegli anni è quella delle occasioni perdute» e che aveva visto «l'amareggiante assenza e la mancata coerenza del potere pubblico.» (L. Bazoli, Della politica urbanistica a Brescia nel dopoguerra, in «Il Bruttanome», 1962, n. 3-4, pp. 364-366). Scrive Paolo Corsini: «Luigi Bazoli, responsabile dell'Urbanistica in anni di straordinaria crescita, fu protagonista illuminato della programmazione dello sviluppo di Brescia, così che al suo nome e a quello di Leonardo Benevolo resteranno indissolubilmente legate le scelte che hanno profondamente inciso nella città del secondo Novecento» (P. Corsini, Biografie della città…, cit., p. 48). Sulla politica urbanistica del Comune di Brescia dal 1965 al 1970 si veda: M. Tedeschi, Il palazzo e la città…, cit., pp. 118-122.

[30] La commissione è istituita il 23 maggio 1967. Al riguardo si veda: M. Lovatti, M. Fenaroli, Governare la città. Movimento dei quartieri e forze politiche a Brescia 1967-77, Brescia, Nuova Ricerca, 1978, p. 22. Sulla nascita dei quartieri cittadini, Ibidem, pp. 21-31.

[31] Negli anni della tornata amministrativa 1964-1970, il comune di Brescia realizza la tangenziale Ovest, una cospicua quantità di nuove strade (come via Europa o la circonvallazione di Caionvico), la progettazione di altre importanti arterie (come il prolungamento di via Volturno e del relativo ponte sul Mella), definisce e approva le nuove zone di 167 per l'edilizia popolare, il progetto del nuovo mercato ortofrutticolo di via Orzinuovi, dell'autoparcheggio sotterraneo di piazza Vittoria, della nuova stazione degli autobus, e soprattutto viene avviata la variante al PRG per le zone agricole e collinari. (M. Tedeschi, Il palazzo e la città…, cit., p. 114-120).

[32] On. Gianni Savoldi (1924-2001), Deputato dal 1958 al 1979, vicesindaco di Brescia dal 1980 al 1983.

[33] Sull'episcopato di mons. Morstabilini si veda: P. A. Lanzoni, La stagione postconciliare, in A servizio del Vangelo. Il cammino storico dell'evangelizzazione a Brescia. 3. L'età contemporanea, a cura di M. Taccolini, Brescia, La Scuola, 2005, pp.73-99; Mons. Luigi Morstabilini, Brescia, CeDoc, 1994; F. Frassine, La visita pastorale e il sinodo di Luigi Morstabilini, 1968-1979, Brescia, Tip. Artigiana, 1989.

[34] La nomina di Almici è annunciata il 16 gennaio 1965, solo un mese dopo l'insediamento di Morstabilini. Si veda: R. Baldussi, M. Corradi, Mons. Giuseppe Almici: profilo e testimonianze, Brescia, Ass. don P. Tedeschi, 1990, pp. 78-82. Per il ruolo di mons. Almici in ambito politico e sociale si veda: M. Lovatti, Giacinto Tredici, vescovo di Brescia in anni difficili, Brescia, Fondazione Civiltà Bresciana, 2009, pp. 175-176; 265-267.

[35] Ing. Renzo Capra, nato nel 1929, sarà direttore dell'ASM dal 1979 e presidente dal 1995 al 2009.

[36] Sulla segreteria Onofri, molte informazioni sono ricavabili dal diario privato manoscritto dello stesso Giulio Onofri, che riguarda il periodo dal gennaio 1966 al giugno 1970. Alcune pagine sono pubblicate in Ricordo di Giulio Onofri, in «Quaderni di cultura politica», gennaio-giugno 2010, pp. 115-126.

[37] On. Annibale Fada (1926-1971), consigliere provinciale e capogruppo dal 1960 al 1963, Deputato dal 1963 al 1968, Senatore dal 1968, Sottosegretario alle finanze dal 1968 al 1969, al Tesoro dal 1969 al 1970. Su Fada: E. Fontana, Annibale Fada, Brescia, Cooperativa di cultura Giacomo Mazzoli, 1989.

[38] A proposito delle componenti interne alla sinistra DC negli anni precedenti, si veda M. Lovatti, Democrazia cristiana…, cit., pp. 143-44; 159-62; 175-77.

[39] On. Bruno Ferrari, nato nel 1936, Deputato dal 1984 al 1992, Senatore dal 1992 al 1994.

[40] Sulle elezioni politiche del 1963: M. Lovatti, Democrazia cristiana…, cit., pp. 147-159.

[41] Anche se non ci sono riscontri documentali, sembra che Boni, per ostacolare la candidatura di Padula, leader incontrastato dei basisti, abbia fatto avanzare nella commissione elettorale la candidatura dell'allora giovane Mino Martinazzoli. Il rappresentante della corrente in commissione, Vittorio Sora, ha però bloccato risolutamente il tentativo di Boni.

[42] On. Michele Capra (1916-1979), presidente provinciale delle ACLI dal 1955 al 1959, consigliere e assessore comunale dal 1946 al 1956, vicesegretario provinciale della DC dal 1967 al 1968, Deputato dal 1968 al 1976. I rapporti tra Capra e Padula, cioè tra i due leader delle subcomponenti  della sinistra DC, erano stati molto sofferti negli anni precedenti. Nel 1965 Capra scriveva all'avv. Padula: «…io non ti nego una certa capacità nell'individuare e nel tentare d'impadronirsi di alcune leve del potere; dico soltanto che il processo attraverso il quale fai i tuoi esperimenti è pressappoco lo stesso che noi abbiamo sempre rimproverato alla vecchia classe dirigente; dico soltanto che un sistema simile non cambia nulla. Ora, il problema della DC bresciana non è tanto quello di sostituire delle persone, quanto quello di cambiare il sistema. E' un salto di qualità quello che bisogna fare, non un passaggio di mano del potere da un gruppo all'altro». E ancora: «Francamente devo dirti che in questo modo tu stai conducendo una politica che non è utile né alla sinistra, né al partito in generale.» (Lettera all'avv. Piero Padula, del 12 novembre 1965, in A. Fappani, F. Gheza, Michele Capra. Un partigiano intransigente, Brescia, Fondazione Civiltà Bresciana, 2012, p. 195-197).

[43] Ivi, p. 117.

[44] Inizia a manifestarsi nell'occasione un atteggiamento delle Acli sempre più esplicitamente critico verso le vicende democristiane. Giacomo Bresciani, che era stato presidente provinciale dal 1959 al '66, scrive della DC su "Il Cittadino": «Inadempienza e malcostume sono all'origine della sfiducia e purtroppo si constata che da questi difetti nemmeno gli stessi gruppi di sinistra del partito sono immuni. Anzi, certi fermenti come quelli denunciati dall'amico Onofri, possono considerarsi come le conseguenze anche del fallimento della sinistra democristiana, la quale anziché formulare proposte di soluzione spesso indulge in discorsi generali e di protesta.» (G. Bresciani, Le Acli e la politica della DC in Italia e a Brescia, in «Il Cittadino», 20 ottobre 1968, p. 2).

[45] La contrapposizione tra i due schieramenti assume toni molto polemici durante il dibattito precongressuale. Egidio Papetti accusa duramente Onofri che «non è ancora un esponente della destra moderata, però si sta avviando a diventarlo». («Il Cittadino», 12 ottobre 1968, p. 3).

[46] "Il Cittadino", 12 ottobre 1968, p. 3.

[47] On. Aventino Frau, nato nel 1939, sindaco di Peuegnago dal 1960 al 1964 (il più giovane sindaco d'Italia) e poi di Gardone Riviera dal 1965 al 1980, dirigente nazionale del movimento giovanile e consigliere nazionale della DC dal 1964 al 1967 per la corrente fanfaniana, Segretario provinciale della DC (1971-72) poi deputato dal 1972 al 1976. Di Frau si veda anche Verde verde, azzurro mio. Ricordi di un'epoca, Clanto, Capriano del Colle (Bs) 2010.

[48] Si veda la mozione congressuale della corrente di Impegno democratico (dorotei) in «Il Cittadino», 24 novembre 1968, p. 3-4.

[49] Mozione congressuale della corrente di Iniziativa della base (texani) in «Il Cittadino», 24 novembre 1968, p. 5.

[50] Intervento congressuale di Gianni Prandini, in «Il Cittadino», 8 dicembre 1968, p. 6.

[51] Intervento congressuale di Tino Bino, in «Il Cittadino», 8 dicembre 1968, p. 6.

[52] Colloqui con l'autore dell'on. Prandini, a Brescia il 9 maggio 2014, dalle 16.30 alle 18.30, e il 19 maggio 2014 dalle 16 alle 18; a Borno (Bs) il 7 luglio 2014, dalle 11 alle 18.

[53] M. Tedeschi, Il palazzo e la città, cit., p. 124.

[54] La posizione di Pedini è in realtà più articolata e meno netta di quella di Camadini: in un articolo sul Cittadino propone l'istituzione del biennio d'ingegneria alla Cattolica solo come soluzione transitoria in attesa "dell'auspicata facoltà statale d'ingegneria", forse nella convinzione che in Italia le scelte provvisorie finiscono spesso per divenire definitive (M. Pedini, L'università a Brescia,  in «Il Cittadino», 18 maggio 1969, p. 3).

[55] «La Voce del Popolo», 26 aprile 1969, p. 11.

[56] M. Martinazzoli, Una bella storia bresciana, in S. Onger, M. Taccolini (ed.), L'Ente universitario della Lombardia orientale. Trent'anni per l'università bresciana, Grafo, Brescia 2000, p. 135. Talvolta, per un lapsus, Martinazzoli pronuncia EBIS al posto di CUB, ma nell'insieme il testo risulta chiarissimo.

[57] Prof. Bruno Finzi (1899-1974) originario di Gardone Val Trompia, ingegnere, fisico e matematico illustre, diede importanti contributi al calcolo tensoriale, alla teoria dei campi e alla fisica relativistica.

[58] Nell'occasione i giovani fanfaniani di Prandini non avanzano una loro candidatura e appoggiano Scaroni.

[59] M. Tedeschi, Il palazzo e la città, cit., p. 132.

[60] Il programma spaziava dall'istituzione dei consigli di quartiere alla politica culturale (museo delle scienze e Santa Giulia), dall'edilizia scolastica all'università, con l'impegno a realizzare biblioteche decentrate e sale di lettura per studenti, fino al punto cardine che era considerata la revisione del Piano regolatore e l'attuazione di interventi di edilizia economico-popolare (aree 167).

[61] Avv. Cesare Trebeschi (n. 1925), assessore provinciale dal 1960 al 1964, presidente ASM dal 1970 al 1975, Sindaco di Brescia dal 1975 al 1985.

[62] M. Lovatti, Democrazia cristiana…, cit., pp. 173-174.

[63] Dott. Giovanni Coppolino Perfumi (1933-1997), era stato direttore dell'ABRE (Associazione bresciana ricerche economiche) dal 1960 al 1968, poi era diventato direttore dell'Ufficio Studi e relazioni esterne della Banca S. Paolo. Apparteneva alla corrente di Base.

[64] Colloqui dell'autore con l'avv. Cesare Trebeschi, 28 febbraio 2014, dalle ore 9 alle ore 11 e 27 marzo 2014, dalle 11 alle 13, a Brescia. L'ing. Luciano Silveri (1928-2016) era titolare di uno studio di progettazione tecnica che per circa un terzo del suo fatturato dipendeva dalle commesse per l'OM-Fiat di Brescia. Quando nel 1971 l'ASM, dovendo rinnovare il suo parco degli autobus, decide di acquistare le vetture del servizio pubblico di trasporto dalla ditta francese Saviem, che li vendeva a prezzi più convenienti della Fiat, usuale fornitore della municipalizzata, Silveri perde per ritorsione tutto il lavoro per la OM. Si tratta di uno dei rarissimi o forse dell'unico caso di "conflitto d'interessi" alla rovescia che si possono rinvenire nella storia bresciana del dopoguerra, tale cioè che un pubblico amministratore subisca un rilevante danno economico personale in conseguenza del suo agire per il bene comune.

[65] Su questa riunione del Comitato provinciale della DC (di cui si dispone solo dell'estratto del verbale pubblicato su «Il Cittadino», 18 luglio 1971, p. 1) esistono versioni contrastanti. Secondo l'on. Prandini (colloqui con l'autore, cit.) vi sarebbe stato un preventivo accordo tra di lui e l'on. Elio Fontana di Forze Nuove, definito nell'abitazione bresciana di via Pasquali dello stesso Fontana, che garantiva l'appoggio alla segreteria Prandini di Fontana e di Claudio Sampaoli di Forze Nuove. Dal Diario Capra, cit., risulta che Prandini è stato eletto "con l'assenza compiacente del fontaniano Sampaoli", in quanto per l'elezione del Segretario lo Statuto prevedeva la maggioranza assoluta dei votanti, mentre per sfiduciarlo serviva la maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto (Diario Capra, 30 luglio 1971). Altro sicuro assente al voto è Aventino Frau, fuori Brescia per impegni nazionali. Non è possibile individuare gli altri 2 assenti. Inoltre Elio Fontana mi ha dichiarato di aver votato scheda bianca. Pertanto, incrociando tutte le testimonianze, la ricostruzione più verosimile è la seguente: votano per Prandini segretario, 10 dorotei, 4 prandiniani, 3 fanfaniani dissidenti legati al sen. Mazzoli e il delegato giovanile Isacchini. Sampaoli esce prima della votazione per abbassare il quorum, mentre Elio Fontana, non essendo più indispensabile il suo voto per via degli altri 3 assenti, vota scheda bianca.

[66] «Il Cittadino», 7 marzo 1971, p. 2.

[67] «Il Cittadino», 24 gennaio 1971, p. 4.

[68] Colloqui con l'autore dell'on. Prandini, a Brescia, il 9 maggio 2014, dalle 16.30 alle 18.30, e il 19 maggio 2014 dalle 16 alle 18. Le visioni politiche di Pedini e Prandini coincidevano anche nella valutazione molto critica della sinistra DC, ritenuta funzionale agli interessi delle ricche e tradizionali famiglie del mondo cattolico bresciano. Scrive Pedini, dopo un colloquio con Camilla Montini che lo rimprovera per la sua vicinanza a Boni: "Benedetta gente questi cattolici benestanti di sinistra… Ho ragione io di dire che non sono di sinistra perché non ho abbastanza soldi per esserlo?" (M. Pedini, Tra cultura e azione politica…, cit., vol. 2, p. 448, 8 ottobre 1977.

[69] «Il Cittadino», 8 agosto 1971, p. 1-2.

[70] Diario Capra, cit., 27 luglio 1971.

[71] P. Corsini, M. Zane, Storia di Brescia. Politica, economia, società 1861-1992, Laterza, Roma-Bari 2014, p. 320.

[72] Eugenio Fontana racconta che "nell'orazione funebre che si tenne davanti al Duomo vecchio, Bruno Boni incorse per ben due volte […] in un lapsus clamoroso, dando «l'estremo addio» non già al povero Fada, ma «all'amico Pedini» […] I malevoli interpretarono il lapsus in senso freudiano, quale segno di una gran voglia di Boni di liberarsi anche di Pedini. (E. Fontana, Storie democristiane bresciane, Tip. La Cittadina, Gianico (BS) 2011, p. 43, n. 55).

[73] «Il Cittadino», 25 maggio 1972, p. 2.

[74] Questa ricostruzione dei fatti è recisamente smentita dall'on. Frau, mentre è sostanzialmente confermata dall'on. Prandini (colloqui cit.), secondo cui la convergenza delle sua componente e di quella dorotea sulla candidatura Rosini nasceva proprio dal desiderio di ridimensionare la sinistra DC, che aveva determinato le precedenti segreterie (Onofri, Martinazzoli e Frau) tramite l'alleanza con i fanfaniani prima e coi texani dopo. Parallelamente, sempre da opposti punti di vista, l'on. Frau nega significative divisioni interne alla corrente texana sulle alleanze che dovevano sostenere la nuova segreteria provinciale, mentre l'on. Prandini le ritiene verosimili.

[75] «L'Altra Brescia», n. 3-4, novembre 1973, p. 6.

[76] «Rivista della diocesi di Brescia», 1966, p. 375.

[77] «Rivista della diocesi di Brescia», 1967, p. 530.

[78] «Rivista della diocesi di Brescia», 1970, pp. 434-38.

[79] «Rivista della diocesi di Brescia», 1969, p. 244.

[80] «Rivista della diocesi di Brescia», 1971, pp. 415-17.

[81] «Battaglie Sociali», 15 maggio 1971, p. 4.

[82] «Battaglie Sociali», 15 giugno 1971, p. 4.

[83] «Battaglie Sociali», luglio 1971, p. 1.

[84] Ivi, p. 13.

[85] A Cagliari 39 consiglieri nazionali su 70 andranno alla maggioranza, 13 alla lista di sinistra di Brenna e 18 a quella di destra di Pozzar.

[86] Il primo congresso provinciale del MCL si tiene il 23 febbraio 1974 al villaggio Sereno; il vescovo non interviene personalmente, il suo saluto è portato da mons. Angelo Chiarini, canonico della cattedrale. Interviene invece l'on. Prandini che esprime "simpatia e consenso" («Il Cittadino», 10 marzo 1974, p. 11). Ugo Foscolo Gandofini è eletto segretario provinciale

[87] «Battaglie Sociali», 1 aprile 1973, p. 2.

[88] Dom Franzoni era stato costretto a dimettersi da abate il 12 luglio 1973, dopo la pubblicazione della lettera pastorale La terra è di Dio.

[89] P. Corsini, M. Zane, Storia di Brescia, cit., p. 478.

[90] Per il dibattito culturale sui rapporti tra cristianesimo e socialismo nel periodo post conciliare si vedano alcuni testi del periodo, soprattutto: M. Gozzini (ed.), Il dialogo alla prova, Vallecchi, Firenze 1964; G. Girardi, Marxismo e cristianesimo, Cittadella, Assisi 1966; L. Fabbri (ed.), Cristiani e marxisti: dialogo per il futuro, Ave, Roma 1967; I. Mancini, Con quale comunismo, La Locusta, Vicenza 1976; per la ricostruzione storica della questione: L. Accattoli, L'età del dialogo (963-68), in I cristiani nella sinistra. Dalla Resistenza a oggi, Coines, Roma 1976, pp. 128-143; D. Saresella, Cattolici a sinistra, Dal modernismo ai giorni nostri, Laterza, Roma 2011, pp. 115-152.

[91] Così è definita la linea del primo quotidiano bresciano da Angelo Onger, in La stampa a Brescia. Appunti e documenti del secondo dopoguerra, Sangallo, Brescia 1978, p. 44.

[92] Lo stesso on. Frau ricorda di aver inizialmente sottoposto a Lucchini l'idea di realizzare un nuovo quotidiano e che questi gli abbia fatto presente che non era opportuno escludere dall'iniziativa il sindaco Boni, con il quale intratteneva un solido rapporto d'amicizia (colloquio con l'autore del 29 aprile 2015, dalle 15 alle 18 a Brescia).

[93] L. Fausti, Nel Novecento a Brescia. La presenza di Renzo Baldo nella vita culturale e civile della città, L'obliquo, Brescia 2005, p. 229.

[94] G. Gottardi (pseudonimo di Giorgio Sbaraini), Arriva Bresciaoggi, in «Brescia Mese», aprile-maggio 1974, ristampato in A. Onger, La stampa a Brescia, cit., p.100.

[95] R. Chiarini (ed.), Falco e colomba. Luigi Lucchini si racconta, Marsilio, Venezia 2009, p. 122.

[96] U. Calzoni, F. Locatelli, Imperi senza dinastie. La straordinaria avventura imprenditoriale di Luigi Lucchini e dell'industria bresciana dell'acciaio, Masetti Rodella, Roccafranca (BS) 2014, p. 50.

[97] A. Mazza, Crivello bresciano, Il Farfengo, Brescia 1983, p. 74.

[98] «Il Cittadino», 10 marzo 1974, p. 1.

[99] «Bresciaoggi», 28 aprile 1974, p. 4.

[100] «La Voce del Popolo», 3 maggio 1974, p. 2.

[101] Scelta considerata da alcuni storici come "capitolazione della sinistra DC" (ad esempio: F. Malgeri, Storia della Democrazia Cristiana, Cinque Lune, Roma 1989, vol. IV, p. 75).

[102] «Bresciaoggi», 10 maggio 1974, p. 6.

[103] «Giornale di Brescia», 9 maggio 1974.

[104] «Bresciaoggi», 10 maggio 1974, p. 6

[105] «La Voce del Popolo», 17 maggio 1974, p. 3.

[106] M. Tedeschi, Il palazzo e la città, cit., p. 129.

[107] Ivi, p. 132.

[108] P. Corsini, Storia di Brescia, cit., p. 497.

[109] Ivi, p. 496.

[110] «La Voce del Popolo», 31 gennaio 1975, p. 7.

[111] Ivi.

[112] «Giornale di Brescia», 7 marzo 1975, p. 6. In realtà il 6 marzo, alle ore 22.52, un dispaccio ANSA rendeva ufficiale la decisione di Boni di non candidarsi alle elezioni comunali di giugno, decisione comunicata dallo stesso Sindaco in un incontro con alcuni giornalisti («Bresciaoggi», 7 marzo 1975, p. 5).

[113] «Giornale di Brescia», 16 marzo 1975, p. 5.

[114] «Bresciaoggi», 26 aprile 1975, p. 4.

[115] Colloquio con Cesare Trebeschi, 27 marzo 2014 a Brescia.

[116] M. Tedeschi, Il palazzo e la città, cit., p. 155.

 

 

 

prof. Bruno Boni

 

 

on. Annibale Fada

 

 

on. Gianni Prandini

 

 

on. Aventino Frau

 

 

 

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