Battaglie Sociali, periodico delle ACLI bresciane, dicembre 2021, pag. 16-17

 

La Cop26 di Glasgow

Poco più di un bla bla bla

Maurilio Lovatti

 

 

Promesso. Ho deciso. E' ufficiale. Regalerò 1000 euro a tutte le persone che conosco. Però non ora, ma nel 2070, se sarò ancora vivo. Nel 2070 avrò 116 anni ma, si sa, io sono ottimista. Non sto farneticando. Sto parafrasando le conclusioni della Conferenza mondiale sul Clima di Glasgow.
Il Premier indiano Narendra Modi ha promesso che l'India raggiungerà la neutralità carbonica (cioè un livello di emissioni di CO2 tale da essere assorbite naturalmente) nel 2070; nel frattempo ha in progetto di aprire 55 nuove miniere di carbone e di ampliarne 193 già esistenti negli stati centrali del Paese. Nel 2070 Modi avrà 120 anni. Il Presidente cinese è stato più sensibile ai valori ambientali, la Cina si è impegnata a raggiungere l'obiettivo entro il 2060. Nel 2060 Xi Jinping avrà 107 anni. Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha promesso che bloccherà la deforestazione. Ma non subito, nel 2030. L'eventuale secondo mandato presidenziale di Bolsonaro scadrà il 31 dicembre 2026 e non sarà più rieleggibile. Si potrebbe continuare a lungo. Molti Leader hanno fatto promesse solenni, sapendo bene di non volerle mantenere.
Tutto sommato la conferenza di Glasgow ha confermato le decisioni già prese nei vertici precedenti. Ma da un certo punto di vista, c'è stato anche un peggioramento: nel documento finale non si parla più di graduale rinuncia al carbone, ma solo di riduzione graduale del suo utilizzo. Infine poco o nulla è stato fatto per garantire effettivi e rilevanti aiuti ai Paesi vulnerabili per affrontare gli impatti climatici devastanti. Non ha tutti i torti Greta Thumberg quando sintetizza Glasgow con “bla, bla, bla”.
Tutto negativo dunque? Non esattamente. Tutti i 197 Paesi presenti hanno condiviso l'idea che è necessario un impegno comune per ridurre le emissioni al fine di frenare i disastrosi cambiamenti climatici e hanno fatto proprio e reso irreversibile l'obiettivo di limitare il surriscaldamento globale al massimo di 1,5 gradi. E' anche emerso un segnale di accelerazione rispetto ai tagli alle emissioni nel breve periodo: si è deciso che nel 2022 i Paesi dovranno tornare al tavolo con piani per il 2030 più ambiziosi e con l’impegno a dare e fare di più, in termini di fondi e know how, ai Paesi vulnerabili. Infine sono stati stipulati accordi, come quello sulla fine delle deforestazioni (entro il termine del 2030) che prima non c'erano.
Per questo l'inviato speciale USA per il clima John Kerry, Emmanuel Macron, e i leader dei Paesi che presiedevano il summit (Johnson e Draghi) hanno parlato di risultati positivi, date le condizioni di fatto. Senza negare i piccoli passi in avanti, si ha netta la sensazione di scoraggiamento: come se in una sorta di autolesionismo planetario, i leader politici abbiano sottovalutato la minaccia dei cambiamenti climatici e l'esigenza di interventi urgenti per evitare la catastrofe.

Maurilio Lovatti

Il difficile addio ai combustibili fossili

 

La finanza mondiale continua a dare centinaia di miliardi di dollari a progetti legati al fossile

 

Ilaria Antonino di Friday for Future di Brescia

Tutti, ormai, parlano di crisi climatica. Al bar, a scuola, in ufficio. Ma esiste qualcuno che sta lavorando per trovare una soluzione?
COP è l'acronimo di Conference of Parties, l’organo decisionale della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, i cui membri si incontrano annualmente per stabilire le strategie politiche e climatiche degli anni successivi a livello mondiale.
COP26 si è tenuta a Glasgow tra il 31 ottobre e il 12 novembre. Questa COP era importante per diversi motivi: era la prima COP dal 2019, anno dell’ultima Conferenza prima della pandemia; si è svolta cinque anni dopo gli Accordi di Parigi; ed è stata accompagnata dalla pressione della società civile, mai stata così intensa. Le aspettative erano alte: abbandono definitivo del carbone; consenso unanime sul tetto massimo di 1.5° di incremento della temperatura media mondiale (obiettivo rispetto al quale il decennio fino al 2030 sarà cruciale); finanziamento, da parte dei paesi più ricchi, della transizione nei paesi in via di sviluppo; e, infine, la definizione dei meccanismi e delle azioni concrete necessarie a rendere operativi gli accordi di Parigi. Date queste premesse, il bilancio finale di COP26 è piuttosto deludente. Il regolamento degli Accordi di Parigi è stato chiuso con l’approvazione della rendicontazione unica delle emissioni e l’accordo per il mercato di scambio di CO2. Gli altri punti, invece, sono andati sfumando. Paesi come la Cina, l’India e l’Australia si sono schierati contro l’abbandono immediato del carbone. Gran parte dei Paesi più ricchi non hanno accolto le richieste di finanziamenti per la decarbonizzazione da parte dei Paesi del Sud del mondo, i più vulnerabili ed esposti agli effetti della crisi climatica. Il traguardo dei 100 miliardi all’anno in favore della transizione di questi paesi è stato posticipato al 2023, mentre la finanza mondiale continua a dare centinaia di miliardi di dollari a progetti legati al fossile. Il G77, che comprende in gran parte Paesi in via di sviluppo, rappresenta circa 6 miliardi di persone che subiscono una crisi climatica che non hanno provocato e che è il prodotto di emissioni causate per il 92% dai Paesi sviluppati. Questo gruppo di nazioni ha richiesto che venissero stabiliti dei risarcimenti per i danni che la crisi climatica sta provocando sui loro territori, ma anche in questo caso non viene garantito alcun fondo per rispondere a queste perdite. Nessuno Stato ha poi realmente affrontato l’uscita da tutti i combustibili fossili. Nonostante COP26 sia stata la prima Conferenza delle Parti in cui il termine “combustibili fossili” è stato citato esplicitamente, di revisione in revisione si è passati dal parlare di “eliminare i sussidi ai combustibili fossili” a “eliminare combustibili fossili inefficienti”, dove quest’ultimo aggettivo si presta all’arbitrarietà delle interpretazioni. Dal lato del carbone, nella prima bozza compariva il verbo “eliminare”, ma progressivamente il carbone da liquidare è diventato soltanto quello “unabated”, cioè non accompagnato dalla presenza di sistemi di cattura e stoccaggio della CO2. Infine, l’India ha dato il colpo di grazia sostituendo il verbo “eliminare” con “ridurre”. Nonostante le contrarietà diffuse, la paura di non giungere a nessun accordo ha avuto la meglio e la mozione indiana è passata. Il documento finale di COP26 è stato approvato da tutte le nazioni partecipanti. In definitiva, benché siano stati fatti alcuni passi in avanti, gli impegni climatici e finanziari definiti a COP26 restano insufficienti. Noi, però, siamo di fronte ad un’emergenza, che va trattata come tale e va affrontata subito. Non domani, non nel 2050, ma ora. I cambiamenti climatici mettono a rischio la salute, l’accesso al cibo, la disponibilità di acqua, la biodiversità e la sopravvivenza degli organismi, specie umana compresa. Per limitare a 1,5° l’aumento medio della temperatura del pianeta le emissioni di gas serra devono essere tagliate immediatamente. Misure di limitazione e adattamento al cambiamento climatico devono essere integrate nelle politiche e nelle strategie nazionali ed è necessario aiutare concretamente i Paesi in via di sviluppo per garantire non solo la transizione ecologica, ma anche la giustizia sociale. COP26 ha rimandato parte di questi interventi all’anno prossimo, ma rimandare, adesso, non è più la soluzione.

Ilaria Antonino
per Friday for Future di Brescia

 

 

Ilaria Antonino

 

 

Battaglie Sociali, dicembre 2021, pag. 16-17

 

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