Era soltanto
giugno, ma l'estate del 1741 si preannunciava molto calda. La strada da
Brescia a Verolanuova era alquanto dissestata e la carrozza di Tiepolo
procedeva lentamente. Il sole si abbassava all'orizzonte e colorava di
rosso i campi di grano pronti alla mietitura. Il pittore era inquieto,
anche se Lorenzo gli aveva detto di stare tranquillo: sarebbero arrivati
al palazzo della contessa prima che facesse buio.
Si fidava ciecamente di Lorenzo. Era il suo cocchiere, ma svolgeva anche
le funzioni di palafreniere e guardia del corpo. Un bel risparmio, diceva
sovente agli amici. Si sentiva tranquillo a viaggiare con lui: era grande
e grosso, ma molto agile, e alla cintura aveva sempre un pugnale affilato.
E poi aveva lo stesso nome del suo figliolo prediletto. Il bimbo aveva
solo cinque anni, ma quando lo portava a vedere i quadri nelle chiese,
faceva sempre mille domande e pendeva dalle sue labbra. Provava per lui
una tenerezza speciale, che non sapeva ben spiegare. Forse sto solo
invecchiando, si diceva.
Gli
sembrava ancora di vivere un sogno. Giuseppe, il segretario della contessa
Elisabetta Grimani Gambara era giunto a Venezia in una fredda giornata
primaverile. Piccolo, magro, dai grandi occhi neri penetranti, gli era
sembrato uno che ha paura perfino della sua ombra. Di fronte al caminetto,
sorseggiando un bicchiere di vino, gli aveva spiegato fin nei minimi
dettagli il desiderio della contessa. Voleva due dipinti giganteschi per
la chiesa di San Lorenzo. Uno però doveva rappresentare la caduta della
manna nel deserto. La contessa, gli aveva riferito il segretario, era
stata col conte a Roma in pellegrinaggio, in occasione del Giubileo del
1725, e aveva visto un dipinto di un pittore austriaco, Giuseppe non ne
ricordava il nome, nella chiesa di Santa Maria in Vallicella e ne era
rimasta molto impressionata. «Era troppo in alto, e alcuni particolari
non si distinguevano bene» aveva ripetuto più volte la contessa
Elisabetta. Ma era certa che il Tiepolo potesse fare ancora meglio. O
almeno così diceva il segretario. Il pittore ne era rimasto lusingato ed
entusiasta. Sia per l'occasione che gli si prospettava, sia per la
retribuzione decisamente più alta di quello che lo pagavano le chiese di
Venezia. Una moglie e dieci figli da mantenere erano pur sempre una
preoccupazione, anche se negli ultimi anni la situazione era sicuramente
migliorata. Ed ora stava per arrivare a Verolanuova. Si sentiva euforico,
intontito dalla felicità: il sogno stava per avverarsi. Sarebbe stato
ospite della contessa per una settimana.
All'improvviso
la carrozza traballò. Un rumore stridulo e acuto. Soprattutto
inquietante. Lorenzo fermò in un lampo i cavalli e saltò a terra per
controllare le ruote.
«Si sta spezzando l'asse delle ruote posteriori» commentò
laconico.
Una ragazzina sporca e cenciosa stava riempiendo una gerla di rametti
secchi per il fuoco.
«Qual'è il paese più vicino?» domandò Lorenzo, con tono
autoritario, senza salutarla.
«Offlaga» rispose intimorita la ragazza, indicando la direzione
«a piedi ci impiego quasi un'ora, in carrozza non lo so, però lì,
dietro quel boschetto, c'è la locanda».
Nella sfortuna siamo stati fortunati, pensò Lorenzo. Con abilità
condusse lentamente la carrozza nel cortile della locanda.
«Facciamo mandare un ragazzo per avvertire la contessa che arriviamo
domani» soggiunse per tranquillizzare il pittore.
La locanda era grande. Accanto alla stalla per il cambio dei cavalli,
l'edificio principale appariva solido e imponente, anche se i muri erano
piuttosto vecchi e maltenuti. A piano terra la grande sala era piena di
tavolacci in legno, a quell'ora quasi tutti vuoti. Il grande camino era
spento, ma la parete di fondo era alquanto annerita dal fumo. A fianco s'intravvedeva
un altro stanzone con numerosi pagliericci dove i viandanti passavano la
notte. L'oste lo informò che per i signori c'erano solo due camerette al
piano superiore, ma una era già occupata. Lorenzo avrebbe dovuto
accontentarsi di dormire nel salone comune. Non ne era particolarmente
soddisfatto, ma ostentava sicurezza: «L'importante è che il signor
pittore abbia una sistemazione adeguata».
La cena fu semplice ma saporita. Dopo un bicchiere di vino rosso,
piuttosto acidulo per la verità, Tiepolo con la candela in mano salì le
scale di legno, che scricchiolavano sinistramente ad ogni passo. Appena
entrato in camera chiuse la porta col chiavistello. Una porta di legno
spessa ma deformata, al punto che da una fessura sopra il cardine si
poteva vedere il corridoio, o meglio, lo si sarebbe potuto vedere se non
fosse stato così buio. Ebbe la tentazione di chiamare Lorenzo e di
chiedergli di dormire per terra accanto a lui. Ma si vergognava delle sue
paure e non lo fece. Tirò fuori dalla sua borsa un telo per coprire il
materasso, che sembrava abbastanza pulito. Sapeva che in quei casi il
rischio è di prendersi le pulci o qualche altro parassita.
Stava per addormentarsi quando sentì bussare alla porta. Il panico lo
assalì. Avrebbe voluto urlare, chiamare Lorenzo. Ma aveva paura di fare
una figuraccia.
«Signor pittore, aprite per cortesia, devo parlarvi» era una voce
sommessa, preoccupata.
Spiò dalla fessura: un uomo solo, dal mantello misero e consumato,
sembrava povero, per quello che poteva vedere alla fioca luce della
candela. Non gli pareva pericoloso, ma sapeva bene che l'apparenza può
ingannare.
«Che volete?»
«Vi devo parlare, fatemi entrare, vi prego signor pittore» era
solo un sussurro, sembrava che avesse paura.
«Di cosa?»
«Vi voglio proporre un affare... ma fatemi entrare, non devono
sentirci»
Non avrebbe saputo spiegare il perché, ma qualcosa lo convinse a fidarsi.
Si stupì di sé stesso, solitamente così prudente, e aprì il
chiavistello. Lo sconosciuto entrò e da sotto il mantello tirò fuori un
voluminoso sacchetto di lana sporca. Glielo porse.
«Guardate. Son 500 zecchini»
Tiepolo aprì con circospezione il sacchetto. Dalla paglia tirò fuori una
moneta e la osservò con cura alla luce della candela. Sembrava autentica:
uno zecchino d'oro della Serenissima Repubblica di Venezia. Una somma
enorme, pensò il pittore, più del doppio di quanto mi han pagato i
Gesuati per La Gloria di San Domenico.
«Mi chiamo
Antonio. Sono di Sale Marasino. E' un paese sul lago d'Iseo. Mio padre era
un ricco commerciante. E' morto dieci giorni fa. I miei tre fratelli si
sono accordati col notaro per escludermi dall'eredità, volevano farmi
passare per matto, con la scusa che ero stato gravemente malato, che per
la febbre avevo delirato. Ma li ho scoperti. Sapevo dove mio padre teneva
nascosti gli zecchini. Sono scappato, travestito da contadino. Ho
camminato di notte e ho dormito nascosto nei campi di grano. Mio fratello
però conosce il conte Calepio, che ha convinto il Podestà di Brescia a
farmi ricercare delle guardie. Se mi trovano con i soldi addosso mi
impiccano.» Era terrorizzato. «Vi propongo questo: se mi aiutate,
vi lascio 150 zecchini»
«Ma come posso aiutarvi?»
«Quanto vi fermate a Verolanuova dalla contessa?»
Come faceva a sapere dove sto andando, si domandò. Ma la risposta gli
balenò subito in mente. Lorenzo quando esagera col bere, finisce sempre
per parlar troppo.
«Mi ha invitato per una settimana»
«Al ritorno dovete passare per Mantova e fermarvi là per cinque
giorni. Se non arrivo a Mantova, i 500 zecchini rimangono a voi. Se arrivo
me ne restituite 350 e i rimanenti sono le vostra ricompensa»
«A Mantova? Ma è territorio imperiale, ci sono gli austriaci. Come
spiego che passo da lì per tornare a Venezia?»
«Inventatevi una scusa. Voi siete un pittore famoso, e di certo le
guardie non vi perquisiranno la carrozza al confine. E poi non rischiate
nulla, se nel frattempo mi arrestano, tutti gli zecchini rimangono a voi.
Meglio che ai miei fratelli!»
E' un'occasione d'oro, pensò il Tiepolo. La mattina dopo, riparata la
carrozza, nascose il sacchetto nello scomparto segreto sotto il suo
sedile.
Per Tiepolo la
settimana nel palazzo della contessa fu inebriante, una gioia
incontenibile, come una magia... La contessa lo trattava con molta
considerazione. Lo invitava alla cene e alle feste nel salone del palazzo,
sfarzosamente illuminato. Si ricordò quando da piccolo suo padre gli
diceva che, se avesse fatto il bravo, la sera lo avrebbe portato a vedere
le finestre illuminate dei palazzi dei signori sul Canal Grande. Con la
differenza che adesso alla festa dei nobili c'era lui. Dopo lunghi
colloqui con la contessa e alcune visite alla chiesa, si accordarono sul
contenuto dei due grandi teleri. La contessa gli versò anche un cospicuo
anticipo, dopo che il pittore le aveva promesso di tornare a Verolanuova a
settembre con alcuni allievi e di lavorare ininterrottamente fino alla
fine delle opere.
A Mantova la
locanda vicino alla chiesa e al convento di Santa Maria del Gradaro era
splendida. Niente a che vedere con le solite locande: tutto pulito, camere
luminose e c'erano perfino le lenzuola. Certo i prezzi erano più del
triplo, ma non erano nulla a fronte di quello che avrebbe guadagnato. Per
tre giorni Tiepolo visitò Mantova.
Quando verso sera tornò alla locanda l'oste gli venne incontro
preoccupatissimo. Degli sconosciuti erano entrati nella sua stanza e
avevano devastato tutto. Lo spettacolo che gli si presentò era
inquietante. Cuscini sventrati, abiti sparsi ovunque, la cassapanca
svuotata. «Sono venuti a cercare gli zecchini, ma non li hanno trovati».
Questo lo pensò subito, ma non lo disse.
La mattina dopo ordinò a Lorenzo di partire per Venezia. Durante il
viaggio lasciava libero sfogo ai suoi dubbi: Antonio si era pentito di
avergli promesso un compenso così alto? Oppure, magari da ubriaco, aveva
confidato a qualcuno il suo patto con lui? Magari lo avevano anche ucciso.
Gli sarebbe molto dispiaciuto. In fondo gli era sembrato una brava
persona. Non lo avrebbe mai saputo. Ma ciò che lo confortava era sapere
che i 500 zecchini, assieme all'anticipo della contessa, erano al sicuro
sotto di lui.
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