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 "I primi passi" ovvero
      della
      concezione che Gesù aveva della vita di don Angelo Pizzetti 
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 Il bambino L’immagine
      del bambino descrive bene l’idea cristiana dell’uomo dinanzi a Dio. In
      un salmo si afferma: “Per te, Signore, mille anni sono come il giorno di
      ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte”. In tal senso
      l’uomo, avesse anche cent’anni, è sempre un poppante dinanzi a Dio. E
      che cosa è la vita presente se non i primi passi verso l’Eternità? Ma
      l’uomo può essere rappresentato come un bambino anche perché
      l’atteggiamento adeguato dinanzi al Mistero, alla realtà tutta, è come
      quello del bambino. Dice Gesù ai discepoli che tentano di mandar via i
      bambini che lo incalzano: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché
      a chi è come loro appartiene il regno di Dio” (Mc 10,14; Mt 19,13). E
      ancora: “In verità vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come un
      bambino, non vi entrerà” (Lc 18, 17). L’atteggiamento del bambino è
      proposto per due motivi: anzitutto perché al bambino è facile
      riconoscere la propria originale dipendenza: sa di appartenere. Così
      l’uomo vero e maturo sa di dipendere dal Mistero, sa di appartenere a
      Lui. Il bambino non si pensa da solo, ma nel rapporto con i genitori. In
      tal senso chi ha vissuto appieno questo atteggiamento è proprio Gesù
      Cristo. Egli è il Bambino di Dio. Ogni frammento di sé è pensato in
      rapporto al Mistero che lui chiama teneramente Abbà, papà. Per questo
      egli è Figlio: “In verità in verità vi dico: il Figlio da sé non può
      far nulla se non ciò che vede fare dal Padre” (Gv 5,19). In tal senso
      questo è l’origine di ogni peccato: pensarsi senza Dio, pensare di
      bastare a se stessi. Invece la verità dell’uomo è d’essere immagine
      di Dio, rapporto con l’Infinito. L’immagine
      del bambino richiama anche uno sguardo aperto, curioso della realtà, che
      non oppone i ma e i se, che dice pane al pane e vino al vino, che è
      capace di stupirsi, che ha quella simpatia originaria verso il reale. È
      l’atteggiamento questo della semplicità di cuore o della povertà di
      spirito: tutti sinonimi che Gesù usa per indicare lo stesso atteggiamento
      dinanzi al reale e dinanzi al destino. Il
      bambino del dipinto ha però un’altra caratteristica: è incapace di
      camminare da solo. In tal senso esso può significare un’altra verità
      fondamentale del cristianesimo: la verità del peccato originale e delle
      sue conseguenze. L’uomo nasce incapace di camminare, cioè, incapace di
      compiersi, incapace di arrivare alla felicità che pure desidera. Questa
      incapacità congenita dell’uomo è conseguenza di questa realtà
      misteriosa che la Chiesa chiama peccato originale. L’uomo ha bisogno di
      un Altro. L’uomo ha bisogno di un Salvatore. La verità del peccato
      originale, cioè di una natura, originariamente buona ma decaduta, è così
      semplice e chiara spiegazione dell’esperienza umana, e sono così
      evidentemente false le altre ipotesi sull’uomo, che non si capisce
      proprio come la si possa negare. Addirittura Chesterton scrive: “Vi è
      nell’uomo una tendenza a inclinarsi come nelle bocce: il cristianesimo
      servì a correggerla e diede nel segno. Molti sorrideranno, ma è
      profondamente vero che la lieta buona novella recata dal vangelo fu quella
      del peccato originale” (Chesterton  G.K., San Francesco D’Assisi, Istituto Propaganda Libraria,
      Milano 1977, 28). Da un lato l’idea di un uomo spontaneamente buono, di
      Rousseau, è smentita continuamente dall’esperienza; dall’altro
      l’idea esattamente contraria di Hobbs, di un uomo naturalmente cattivo,
      sintetizzata nel motto: “Homo homini lupus”, renderebbe l’ideale
      della bontà e del bene, come della pace e della comunione, una utopia
      irrealizzabile perché contro natura. La spiegazione biblica di un uomo
      naturalmente buono ma la cui natura è decaduta, rende il bene un ideale
      possibile e spiega la difficoltà che tutti facciamo quotidianamente nel
      perseguirlo.   Il
      padre  Il
      secondo personaggio è il padre. Il padre rappresenta il volto del destino
      così come ce lo ha rivelato Cristo: “Quando pregate dite: Padre” (Mt
      6,9). Il Mistero ha un volto buono, un volto di Padre. Questo non è per
      nulla scontato, tanto che fuori o prima del cristianesimo il Mistero non
      è certo pensato così. Gli
      antichi greci o i romani pensavano gli dèi come malvagi o capricciosi.
      Nelle religioni orientali spesso il destino, il senso di tutto, è
      impersonale, non ha volto, non è un “Tu”. Nell’Islam Dio non è
      Padre. Nei 99 nomi di Dio non appare il nome di Padre. Nel Corano si nega
      esplicitamente che Dio sia Padre di alcunché, tantomeno di Cristo. Certo,
      all’inizio di ogni sura Dio è chiamato il clemente e il misericordioso,
      ma non come un padre bensì come un padrone. E l’uomo non è figlio, ma
      il sottomesso (islam). Ma anche nella modernità, l’uomo sincero e
      aperto al destino, non sa come rappresentarselo, perché la realtà è
      enigmatica: ci sono le stelle e i tramonti, ma anche i tumori e i
      terremoti. Un’immagine sintetica e bellissima dell’uomo che cerca come
      a tentoni il volto di Dio è una poesia di Pascoli intitolata: il cieco.
      Si immagina un mendicante, un girovago cieco guidato dal cane; ma ad un
      certo punto anche il cane è morto, e l’uomo si ritrova solo nel buio
      assoluto di fronte ad un infinito di cui riesce a cogliere solo
      l’enigmatica presenza. Allora grida, e questo grido è l’atteggiamento
      vero dell’uomo dinanzi al destino quando questi non si rivela. “(…)
      Ma forse uno m’ascolta; uno mi vede,/invisibile. Sé dentro sé
      cela./Sogghigni? Piangi? M’ami? Odii? Siede/ in faccia a me. Chi che tu
      sia, rivela/ chi sei: dimmi se il cuor ti si compiace/ o si compiange
      della mia querela!/ Egli mi guarda immobilmente, e tace.// (…) O tu che
      ignoro e sento,/ dimmi se guerra hai tu negli occhi o pace!/ dimmi ove
      sono!”. Questo è il grido dell’uomo dinanzi al destino, l’uomo
      che non ha incontrato Cristo. Ecco, dinanzi a questo grido Gesù Cristo
      rivela il volto del Mistero: il Mistero ha un volto buono, un volto di
      Padre. C’è una mirabile pagina del “Diario di un curato di
      campagna” di Bernanos, che dice in modo geniale questa rivelazione che
      Cristo è venuto a portare: che Dio è Padre e dunque l’uomo è figlio,
      il bambino di Dio. “Da che
      proviene che il tempo della nostra prima infanzia ci appaia così dolce e
      radioso? Un marmocchio ha le sue pene come tutti; è, nel complesso, così
      disarmato contro il dolore, la malattia! L’infanzia e l’estrema
      vecchiaia dovrebbero essere le due grandi prove dell’uomo. Ma è dal
      sentimento della propria impotenza che il fanciullo trae umilmente il
      principio della sua stessa gioia. Si rifugia in sua madre, capisci?
      Presente, passato, avvenire, tutta la sua vita, la sua vita intera è
      compresa in uno sguardo; e questo sguardo è un sorriso. Ebbene, ragazzo
      mio, se avessero lasciato fare a noialtri, la Chiesa avrebbe dato agli
      uomini questa specie di suprema sicurezza. Rifletti che ognuno avrebbe
      avuto ugualmente la propria parte di seccature: la fame, la sete, la
      povertà, la gelosia… Non saremo mai abbastanza forti da metterci il
      diavolo in tasca, puoi pensarlo! Ma l’uomo avrebbe saputo che è figlio
      di Dio, ecco il miracolo! Avrebbe vissuto, sarebbe morto, con quest’idea
      nella capoccia; e non un’idea imparata nei libri, no. Giacchè essa
      avrebbe ispirato grazie a noi, i costumi, gli usi, i divertimenti, i
      piaceri, sino alle più umili necessità. Ciò non avrebbe impedito
      all’operaio di raspare la terra, al dotto di zappare il suo tavolo coi
      logaritmi e nemmeno all’ingegnere di costruire i suoi trastulli per
      persone grandi. Senonchè, noi avremmo abolito, avremmo strappato dal
      cuore d’Adamo il sentimento della sua solitudine. Con la loro nidiata di
      dèi, i pagani non erano poi così stupidi: intanto eran riusciti a dare
      al povero mondo l’illusione di una grossolana intesa con l’invisibile.
      Ma il trucco adesso non varrebbe un chiodo. Fuori dalla Chiesa un popolo
      sarà sempre un popolo di bastardi, un popolo di trovatelli. Evidentemente
      resta ancora la speranza di farsi riconoscere da Satana. Illusi! Possono
      aspettarlo a lungo il loro piccolo natale nero! Possono mettere nel camino
      le loro scarpe! Ecco che il diavolo già si stanca di porvi mucchi di
      meccanismi giù di moda appena inventati: ormai non vi mette più che un
      minuscolo pacchetto di cocaina, d’eroina, di morfina, una qualunque
      sudiceria di polvere che non gli costa cara. Poveracci! logoreranno
      persino il peccato. Per divertirsi non basta volerlo. Un bambolotto da
      quattro soldi può far la felicità d’un piccino per tutta una stagione,
      mentre un ragazzo più grandicello sbadiglierà davanti a un giocattolo da
      cinquecento franchi. Perché? Perché ha perduto lo spirito
      dell’infanzia. Ebbene, la Chiesa è stata incaricata dal buon Dio di
      mantenere nel mondo questo spirito d’infanzia, questa ingenuità, questa
      freschezza. Il paganesimo non era il nemico della natura, ma soltanto il
      cristianesimo la ingrandisce, l’esalta, la mette alla misura d’uomo,
      del sogno dell’uomo. Vorrei qui uno di quei dottorini che mi accusano
      d’oscurantismo; gli direi: Non è colpa mia se porto un vestito da
      beccamorto. Dopotutto il Papa si veste ben di bianco e i cardinali di
      rosso. Avrei diritto di passeggiare vestito come la Regina di Saba, perché
      io porto la gioia. Ve la darei per niente se me la domandaste. La Chiesa
      dispone della gioia, di tutta la parte di gioia riservata a questo triste
      mondo. Quel che avete fatto contro di essa, l’avete fatto contro la
      gioia. Vi impedisco forse, io, di calcolare la processione degli equinozi
      o di disintegrare gli atomi? Ma a che cosa vi servirebbe fabbricare la
      vita stessa se avete perduto il senso della vita?” (Bernanos Georges,
      Diario di un curato di campagna,
      Mondatori, Milano 1993, 17-19). Gesù rivela il Volto buono del Mistero,
      un volto di Padre, così è vinta la solitudine umana e la vita diventa un
      cammino verso l’abbraccio definitivo dell’eternità, la comunione con
      Dio, la vita eterna.    La
      madre  Ma
      Gesù non solo rivela il volto del Mistero: se siamo incapaci di
      camminare, non ci arriveremmo comunque. Ecco che Dio fattosi uomo è
      diventato una compagnia visibile, una presenza umana nel nostro camminare:
      la Chiesa. La Chiesa è come una madre tenerissima che si china
      sull’uomo e lo sostiene, se cade lo rialza. Questo non solo con
      l’aiuto dei sacramenti, ma anche per questa amicizia guidata al destino
      che la definisce. La Chiesa, infatti, è l’amicizia più grande. Perché
      se l’amicizia è definita dal suo scopo, non c’è amicizia più grande
      che quella che ha per scopo il destino. Noi tutti dinanzi al destino siamo
      come bambini, ma nel rapporto con gli altri siamo noi la madre. Ciascuno
      di noi è chiamato ad essere madre e padre degli altri uomini: padre perché
      svela il volto buono del Mistero, madre perché è sostegno nel cammino.  L’immagine
      della Chiesa Madre è antichissima. Quasi tutti i Padri della Chiesa ne
      parlano come una madre. Il fatto poi che la Vergine Maria, madre di Cristo
      e nostra madre, a cui fummo affidati da Gesù stesso dall’alto della
      croce: “Ecco tua madre”, sia sempre stata vista come immagine della
      Chiesa, rafforza questo abbinamento. La
      moralità, in questa visione, è tensione, è aderire all’attrattiva
      dell’essere, del senso dell’essere. È il protendersi del bimbo. Non
      è una coerenza ad una legge, ma la fedeltà ad una persona: è un amore.
      E la caduta non è una obiezione. Come scrive sant’Ambrogio: “santo
      non è chi non sbaglia mai, ma chi continua a tendere”. Proviamo ad
      immaginarci se fosse una legge a dominare: il quadro ci si presenterebbe
      con un solo personaggio, il bambino, che per uno sforzo cerca di imparare
      a camminare; cade e si frustra. Invece qui il centro non è su di sé, ma
      sul padre; non domina uno sforzo, ma un’attrattiva; la cosa fondamentale
      non è imparare a camminare, ma arrivare fra le braccia del padre; se il
      bimbo cade, con dolore si rialza e continua a tendere, perché ciò che lo
      sostiene non è una coerenza ad una legge, ma un amore ad una persona.
      Questo è il cammino cristiano.  Ma
      un’altra caratteristica possiamo vedere: la misericordia non è solo il
      rimedio dell’errore umano, ma l’ambito dentro cui è possibile la
      mossa della libertà dell’uomo. Questo avviene anche naturalmente. In
      una famiglia se i genitori sbranassero il figlio ad ogni minimo errore, se
      gli facessero mancare l’affetto al primo sbaglio, il bimbo lo si
      vedrebbe completamente bloccato. Invece se lo sguardo dei genitori è di
      misericordia, se il bambino sa di essere amato anche quando sbaglia,
      allora è libero, rischia, non ha paura di muovere il passo. La
      misericordia è l’ambito dentro cui è possibile la mossa della libertà
      umana. Analogicamente questo è vero anche per Dio.  Anzi
      da un punto di vista metafisico la misericordia è il primo gesto di Dio
      verso il creato e verso l’uomo. Che cos’è infatti la misericordia se
      non un amore che va al di là di quanto è dovuto? Un atto di gratuità
      totale? Ebbene, da questo punto di vista l’atto creativo è
      misericordia. È uno sporgersi dell’Essere verso il nulla, è un trarre
      dal nulla le cose, condividendo l’essere, cioè se stesso. Eravamo
      niente e siamo stati voluti, cioè siamo stati amati. Ed esistere è
      questo essere amati istante per istante. Essere amati e posseduti
      totalmente.       
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 Angelo Pizzetti, sacerdote della diocesi di Brescia, ha conseguito nel 2003 la licenza in teologia presso i Domenicani di Bologna affiliati all’Angelicum; nel 2020 il dottorato in teologia presso la Facoltà Teologica di Lugano. Dal 1999 insegna Religione nelle scuole superiori. Collabora con altri sacerdoti al Santuario diocesano Rosa Mistica – Madre della Chiesa in località Le Fontanelle di Montichiari. Nel 2015 ha pubblicato il saggio Il destino ultimo. È in pubblicazione la tesi di dottorato La visione di Dio. Scopo del desiderio umano e compimento del desiderio. La proposta di Agostino.   Per
        contatti od osservazioni: angelopizzetti@hotmail.it 
 
 Maurilio Lovatti - indice generale degli scritti 
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