Lettere pastorali di mons. Giacinto Tredici, vescovo di Brescia dal 1934 al 1964

 

 

La speranza cristiana (1936)

 

 

Nella lettera per la Quaresima dell'anno scorso, o dilettissimi, vi abbiamo parlato della Fede, che è principio e radice della giustificazione, fondamento della vita cristiana. Essa è infatti la luce divina che ci discopre il magnifico orizzonte di una vita superiore alle miserie dei sensi e alle incertezze della ragione, quale è la vita soprannaturale.
Ma la fede non è che l'inizio, il fondamento, e se volete, la porta che ci introduce nella via segnataci dal nostro Redentore Divino. E' necessaria una mano che ci conduca con speditezza attraverso la nuova via che ci viene indicata dalla fede. Questo aiuto, divino anch'esso nella sua origine, ma destinato a radicarsi nell'intimo del nostro essere per portarci come su ali benefiche attraverso ogni difficoltà, è la seconda delle virtù teologali, la speranza.
In mezzo a tante nubi che spesso oscurano l'orizzonte; a difficoltà d'ogni genere, interne ed esterne, che si pongono sulla nostra via; a tristezze e scoraggiamenti che minacciano di toglierci ogni vigore, è bello parlare di speranza. Ma vediamo di farcene una nozione esatta come ci vien data dalla Chiesa. Solo così essa non si ridurrà a un nome, e neppure a un sentimento vago ed impreciso, privo di ogni sicurezza e di ogni efficacia per orientare e sostenere la nostra vita di cristiani.

LA SPERANZA

Che cosa è dunque la speranza? La speranza, come l'intende il cristiano è una virtù soprannaturale per cui confidiamo in Dio e da Lui aspettiamo la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla quaggiù con le buone opere. (Catechismo di Pio X, n. 238).
E' dunque, la speranza, un movimento dell'anima, una tendenza verso un oggetto che non è in noi, ma che noi desideriamo come un bene nostro: ed un bene reale, non un semplice sogno, una chimera irrealizzabile; ma un bene che noi aspettiamo fidenti, così da sentirei per questo rianimati, e già quasi pregustarne il possesso.

IL NOSTRO FINE OGGETTO DELLA SPERANZA

Quale sarà l'oggetto della nostra speranza? Qui appare la caratteristica della speranza cristiana, la virtù soprannaturale sbocciata sul tronco pure soprannaturale della fede. Mentre non ci è vietato dirigere le aspirazioni della nostra anima anche ad altri oggetti più vicini a noi, a portata delle nostre facoltà naturali, come la salute, la prosperità temporale, la gloria, e così via, la virtù soprannaturale della speranza, virtù eminentemente cristiana, tende come a suo oggetto proprio alla vita eterna, che formerà come il coronamento della nostra vita presente, se questa sarà virtuosa, e si manterrà nella via che Dio le ha fissato.
Questa enunciazione dell'oggetto della virtù della speranza, che noi possiamo raccogliere dalle labbra di ogni fanciullo che frequenta il catechismo, mentre ci dà una idea grandiosa delle aspirazioni cristiane, ci mostra il torto gravissimo di tanti che, chiamati ad un ideale così grande, si perdono attraverso a tante miserie indegne di noi.
La vita eterna! che cosa potremmo desiderare di più? Che cosa è, in confronto ad essa, ogni altro nostro bene terreno?
La vita eterna vuol dire, innanzi tutto, che la nostra esistenza non è destinata a finire quaggiù, come se quella cosa così straziante che è la morte fosse l'epilogo finale e sconsolato di una esistenza condotta attraverso le difficoltà, i dolori, le miserie. Tale fine sarebbe veramente tragica, e basterebbe per imprimere una nota di sconfortante pessimismo su tutti i momenti della nostra vita terrena. Ma non è così. Dio ha voluto che la morte fosse la legge di tutti noi, ma per aprirci con essa una vita nuova, destinata a non finire più. E nella sua infinita bontà ha voluto prepararci, per questa vita futura, se vorremo meritarla, uno stato di perfetta felicità, nella esenzione di tutte le miserie e dei mali della vita presente, e nel godimento di Dio, verità e bontà infinita, veduto ed amato in se stesso per tutta la eternità.
Nessuno avrebbe potuto pensare un programma più grandioso, più atto a riempire di gioia, di slancio tutta l'attività d'una creatura intelligente.
L'Apostolo S. Paolo, ammesso, per dono speciale di Dio, alla contemplazione di quello che sarà il paradiso, ebbe ad esclamare che " mai occhio umano vide, nè orecchio ascoltò, nè cuore umano ha potuto pensare quello che Dio ha preparato per coloro che lo amano " (I Cor. II, 9). Come conseguenza noi troviamo la vita del grande Apostolo fortemente orientata verso questo grande ideale che forma il fine della sua esistenza: l'amore a Dio, al suo Cristo, per poterlo raggiungere e possedere nell'altra vita. " Io sono certo - egli dice con una parola che ci rivela tutto l'ardore del suo animo - che nè la morte, nè la vita, nè ciò che ci sovrasta, nè quello che ha da essere,... nè alcuna altra cosa creata potrà dividermi dalla carità di Dio, la quale è in Cristo Gesù Signor Nostro" (Rom., VIII, 38-39).
Egli anzi per assicurarsi il raggiungimento di quello che è la aspirazione di tutta la sua vita, giunge ad esprimere il desiderio di " essere liberato da questa vita per essere con Cristo " (Filipp. 1, 23). E pensando alle tribulazioni che non gli mancano nella vita presente, si conforta e conforta i suoi fedeli col pensiero che " i patimenti del tempo presente non hanno proporzione colla futura gloria che si manifesterà in noi " (Rom. VIII, 18).

I MEZZI: GRAZIA E COOPERAZIONE

Ma come può l'uomo aspirare tanto alto, fino alla contemplazione ed al godimento di Dio; egli che si vede tanto misero ed imperfetto, ed immerso nel mondo dei sensi, che gli tolgono la vista di Dio, e spesso seminano di dolorose cadute la strada della sua vita?
Qui risponde ancora la nostra fede. Sarebbe vana presunzione il pensare di poter raggiungere colle sole forze della natura una vetta così alta, divina. Ed il pessimismo che è sulle labbra di molti, e che vorrebbe essere una giustificazione della loro vita va di ogni slancio, e piena di volgarità, sarebbe giustificato se i dovessimo tener conto che della nostra natura, già imperfetta per sè, e, non dimentichiamolo, decaduta per il peccato originale e per le consuetudini malvagie.
Ma Dio, che con tanta grandezza e generosità ci ha additato fine così alto, vicino a Lui, ci dà anche i mezzi per conseguirlo; mette per questo un'altra volta a nostra disposizione i tesori la sua potenza e della sua bontà.
Il mezzo che ci rende possibile il conseguimento della vita ma è la grazia: un dono soprannaturale che Dio infonde nell'anima nostra, e la rende amica sua, ed innalza all'ordine soprannaturale, divino, il valore dell'anima stessa e delle sue operazioni.
I libri santi la chiamano una partecipazione della natura divina: divinae consortes naturae. La visione di Dio che ci vien promessa la vita eterna, e che formerà la nostra felicità, sarà un magnifico sviluppo di questa grazia, che già fin d'ora ci rende in certo modo simili a Dio: la nostra intelligenza, già prima aiutata dalla virtù della fede a piegarsi docile agli ammaestramenti che ci dà con la sua rivelazione, riceverà allora un altro aiuto soprannaturale; e per esso, mentre ora è legata ai sensi e non può non indirettamente conoscere le realtà spirituali e quindi Dio, sarà innalzata ad una operazione di ordine superiore, fino a fissarsi in Dio, e vederlo come è in se stesso.
Grande, ineffabile dono di Dio, il fine della vita e la grazia ci permette di conseguirlo!
Ma Dio, nella sua sapienza e bontà, vuole che la vita eterna pur restando un dono suo, sia anche frutto della nostra cooperane volonterosa. Osservando la legge di Dio, - e lo possiamo e nonostante la nostra debolezza, perchè anche qui Dio ci viene aiuto colle sue grazie attuali, - noi compiamo azioni che sono accette a Lui, e tanto più accette, perchè fatte da noi in stato di grazia, quindi arricchite di un valore soprannaturale, proporzionato non solo a quello che le nostre facoltà sono in se stesse, a quello che sono, innalzate dalla grazia. E Dio accetta queste nostre buone opere compiute in stato di grazia come altrettanti meriti per la vita eterna.
Il gran dono di Dio diventa dunque, per benignità di Lui anche merito nostro. E noi comprendiamo come l'apostolo S. Paolo, esprimendo tutto l'ardore della sua speranza nella vita eterna, la possa chiamare corona di giustizia: " Ho combattuto il buon combattimento; ora mi è riservata la corona di giustizia, che il Signore giusto Giudice, mi renderà in quel giorno; nè solo a me, ma anche a tutti quelli che desiderano la sua venuta " (II Tim. IV, 17).
Come è buono il Padre nostro che sta nei cieli! Come una madre che vigila sui primi passi del suo bambino, gli indica la mèta e poi lo sostiene e l'aiuta perchè vi possa lui stesso arrivare, camminando, così Dio ci ha proposto un premio altissimo, infinito, e poi ci vuol dare la gioia di meritarcelo, fornendocene il mezzo.
Così noi diciamo nell'atto di speranza che oggetto della speranza sono in primo luogo la vita eterna, e secondariamente le grazie necessarie per meritarla quaggiù con le buone opere.
Motivo e fondamento di questa speranza, che dà alla nostra vita cristiana il suo magnifico orientamento e tanto vigore di fiducia, sono la bontà di Dio, le sue promesse, i meriti del nostro Salvatore Gesù, che hanno coperto tutte le nostre miserie ed insufficienze, ottenendoci il perdono delle nostre colpe e l'abbondanza delle grazie divine.

DUE OBBIEZIONI

Il cristiano che vive la fede sua e cerca di modellare su quella tutto il sistema della sua vita, comprende tutta la bellezza cd il valore della speranza così intesa; e vi trova una spinta potente, come un colpo d'ala che l'innalza su, su, verso le vette della beatitudine futura, al disopra delle miserie e degli sconforti della vita presente.
Ma è naturale che di questa virtù non comprendano il senso e la bellezza coloro a cui non arride il lume della fede.
Di qui due obbiezioni diverse e quasi opposte fra loro, perchè partono da diversi punti di vista.
Dapprima, ad alcuni è sembrato che, impostare tutto l'orientamento della vita cristiana sulla speranza di un premio, per quanto questo possa essere grande, anzi Dio stesso posseduto, sia abbassare il valore della nostra vita morale. La nostra sarebbe una morale interessata, quindi meno perfetta, meno nobile. Non è cosa più nobile, più degna, fare il bene per se stesso, per un sentimento di dovere, prescindendo da ogni attesa di ricompensa?
Qui troviamo l'eco del razionalismo di Kant. Il filosofo tedesco, che tanta influenza ha esercitata sulla filosofia moderna, nell'esame critico del problema morale, aveva appunto voluto rendere l'obbligazione morale indipendente da Dio legislatore, come da ogni pensiero di ricompensa. Ma già prima di lui altri, con intendimenti di maggior perfezione cristiana, avevano avanzato pretese di amor di Dio disinteressato, che prescindesse da ogni considerazione del premio eterno. Ma la Chiesa non ha approvato le loro dottrine.
E' vero che il dovere è tal cosa, che merita di essere compiuta per se stessa, anche se non ce ne dovesse venire nessun vantaggio, e Dio, infinita perfezione, è degno del nostro amore prescindendo al godimento che ci potrà venire dal vederlo e goderlo in paradiso. Ma non possiamo astrarre dal fatto che in noi vi è un desiderio istintivo, imprescindibile della felicità. Di conseguenza il pensiero di poter godere Dio, di vedere i nostri sforzi di bene, spesso aspri e difficili, coronati da un premio altissimo, tale da sorpassare tutte le privazioni e sofferenze della vita, può esercitare un'influenza salutare nel sostenere i nostri sforzi, e soprattutto neutralizzare le attrattive delle nostre passioni che ci inclinano verso il male, o rallentano il nostro fervore nell'adempimento del dovere. Pensare questo non è diminuire la bellezza del dovere, la grandezza e perfezione di Dio in se stessa; è constatare la realtà come essa è, e non fermarsi in una considerazione astratta del bene, vera ma staccata dalla concretezza della nostra natura come i fatto esiste. E Dio, che ben conosce questa natura nostra, ed ha voluto provvedere alle sue esigenze con sapienza e bontà, mentre ha dato una legge, che noi siamo obbligati ad osservare a qualunque costo, ci ha promesso anche un premio, il cui pensiero ci sostenesse e spronasse nell'adempimento del nostro dovere.
Magnifica questa disposizione, divina nella sua origine e grandezza, e potremmo dire anche profondamente umana per il suo mirabile adattamento alla nostra povera umanità. Tanto più se si considera che il premio che Dio ci mette innanzi, perchè formi l'oggetto del nostro desiderio e della nostra speranza, non è un bene terreno, limitato e contingente, che interessando il nostro desiderio quasi ci distolga dal bene infinito veramente degno di essere amato in se stesso. No, il bene a cui tendiamo colla virtù soprannaturale della speranza, è sì, un bene nostro, cioè la nostra eterna felicità; ma a sua volta questa felicità non consiste che nella visione e nell'amore di Dio come è in se stesso. La speranza quindi, ci porta ancora all'amor di Dio, cioè del bene sommo, che merita di essere amato e che noi dobbiamo amare sopra ogni cosa.
L'altra obbiezione è da considerarsi più bassa, utilitaria. Il cristianesimo, si è detto, invitando a sperare la vita eterna, e a farne la tendenza di tutta la vita, sembra voler togliere ai fedeli ogni interesse per la vita presente. Che valgono le cose terrene, dice il Santo, quando penso alle cose celesti? E invece, si dice, abbiamo bisogno di uomini che esplichino tutte le loro abilità per migliorare le condizioni della vita di quaggiù, tanto individuale che sociale; altrimenti dove sarebbe il progresso?
Questa obbiezione, o meglio, il concetto materialistico della vita a cui essa si ispira, si trova, tutti lo ricordiamo, come motivo di una propaganda intesa ad allontanare le masse dalla religione e dalle pratiche della vita cristiana, per il conseguimento di miglioramenti nelle condizioni economiche e sociali della vita.
Ma questo modo di pensare suppone una contraddizione tra la prosperità e il progresso della vita presente e la felicità della vita eterna, che non ha ragione di essere. Se Dio ci ha destinati alla vita eterna, e vuole che a quella tendiamo con tutte le nostre forze, non per questo ci ha impedito di pensare anche ai casi della vita presente, e di applicarvi le nostre energie che egli stesso ci ha dato, e possiamo dire che, in parte almeno, ci ha dato proprio per questo.
Vi sono state, è vero, e vi sono anime che hanno abbandonato il mondo, rinunciato a tutti gli agi della vita, ed allo stesso esercizio di una professione che potesse essere socialmente utile, per ritirarsi nel deserto, o in un chiostro, e là tendere unicamente la salvezza propria riducendo allo stretto necessario le stesse esigenze naturali.
Ma questo genere di vita non è l'ideale che la nostra fede presenti come la vita di tutti, e tanto meno come un obbligo per la comunità dei fedeli. Costoro, con quella vita di rinuncia e di maggior perfezione, compiono l'ufficio socialmente utilissimo di pregare anche per coloro che purtroppo non pregano e di insegnare come si possa vivere senza lasciarsi dominare da quelle passioni che per molti sono la rovina. Ma alla comunità dei fedeli non vietato attendere anche ai bisogni della vita presente, a condizione che non trascurino la vita futura e la propria eterna salvezza. Anzi, il cristiano che vede nelle sue attività naturali altrettanti doni di Dio, dal suo amore a Dio e dal dovere che gli incombe di rendere conto a Lui di tutti i suoi doni trarrà motivo per usarne bene, e non lasciarli inoperosi: donde la spinta al lavoro e al progresso.
E così si verifica quello che è stato detto con piena verità, e il pensiero della vita eterna, lungi dall'ostacolare la laboriosità e il progresso della vita presente, ne è anzi il miglior coefficiente e la più preziosa garanzia.
Oh! come è profondamente vero che tutto è ordinato quello e Dio dispone: il disordine comincia sempre là dove si offendono le disposizioni della sua Provvidenza.

OGGETTO SECONDARIO DELLA SPERANZA

Abbiamo parlato sempre, fin qui, della speranza come riferentesi alla vita eterna ed ai mezzi necessari per conseguirla. Ma a volta ben stabilito questo punto, noi possiamo, in via secondaria, far rientrare nella speranza anche molte altre cose della nostra vita presente.
Dobbiamo anzitutto tendere al fine della vita eterna. Ma abbiamo pure tanti e tanti altri bisogni: il necessario a ciascun di per vivere, per provvedere alla famiglia ed alle persone con cui viviamo e che ci sono care; la prosperità della nazione a cui apparteniamo, che è la patria nostra, cara a ciascuno come la propria famiglia; le sorti della civiltà, che tanti rapporti ha colla nostra vita; sono tutti beni, per i quali noi sentiamo di non poterci tenere indifferenti.
Anzi, pur costituendo, per sè, beni distinti dal nostro fine ultimo che è la vita eterna, è evidente come essi abbiano con la vita eterna e la salvezza delle anime rapporti molteplici e tutt'altro che lievi. Pensiamo che influenza ha esercitato sulla diffusione più o meno celere e vasta del Cristianesimo nei primi tempi, e quindi sulla evangelizzazione e sulla salvezza di tante anime, quel complesso di circostanze che costituivano la situazione politica, economica, sociale, del mondo al tempo della venuta del Salvatore e della missione degli Apostoli. E lo stesso, evidentemente, si deve dire per l'opera di conservazione e diffusione della Chiesa nei diversi tempi, fino ai nostri. Pensiamo l'influenza esercitata nel medesimo senso dalla scienza colle sue scoperte, applicate su larga scala ai trasporti, alla comunicazione delle idee, alle trasformazioni del genere di vita degli uomini, e così via. Le stesse condizioni individuali di salute, di agiatezza o strettezza economica, di cultura, possono creare spesso un diverso orientamento di aspirazioni, di propositi, oltre che dare occasione ad atti virtuosi, meritori per la vita eterna.
Così l'essersi trovato il centurione romano Cornelio di guarnigione a Cesarea piuttosto che in altra parte dell'impero, fu per lui l'occasione di essere evangelizzato da S. Pietro, e venire prima di tanti altri alla fede. L'aver avuto S. Agostino, maestro di lettere, un posto di insegnamento a Milano, lo mise nella circostanza di sentire il vescovo Ambrogio, di ammirare la sua vita e la sua dottrina, coll'effetto di una forte spinta verso la conversione, la quale, a sua volta, era destinata a operare nella Chiesa un bene difficilmente calcolabile. Mentre è difficile calcolare il danno derivato a tante anime dalla storia individuale di eresiarchi e scismatici, come Lutero ed Enrico VIII. Una ferita riportata da
S. Ignazio di Loiola all'assedio di Pamplona, avvenimento puramente individuale ed in se stesso di importanza assai piccola, fu l'occasione della vocazione di quel santo ad una missione di tanta importanza per la salvezza di anime innumerevoli per parte della Compagnia da lui fondata e delle caratteristiche speciali che il suo genio ebbe ad imprimerle. Le doti straordinarie di governo, insieme colle ricchezze e le influenze personali di cui potè disporre S. Carlo Borromeo, al servizio della sua santità, valsero senza dubbio a rendere possibili e più efficaci le mirabili opere di zelo compiute da quel Santo meraviglioso, di cui ancora sperimentiamo gli effetti, tre secoli e mezzo dopo la sua morte.
Di questo passo noi potremmo moltiplicare gli esempi: e questo ci induce giustamente a considerare le cose create e gli avvenimenti umani come intimamente connessi fra loro da tanti vincoli, di cui in cielo vedremo le file misteriose, e ne loderemo quella che ora è per noi l'imperscrutabile Provvidenza.
Se è così, noi possiamo ben dire con fondamento, che non v'è cosa al mondo che non possa essere, nei disegni di Dio, collegata alla nostra salvezza eterna ed a quella di coloro che ci stanno intorno. E' una visione magnifica, soprannaturale delle cose, che S. Paolo ha espresso con quelle parole che non dovrebbero mai essere dimenticate: Diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum: tutte le cose tornano a bene di coloro che amano Dio " (Rom. VIII, 28).
Ed allora voi vedete, o dilettissimi, che, considerando le cose alla luce della fede, tutte possono rientrare nell'oggetto della speranza cristiana, come mezzi, di cui Dio si serve per operare, insieme colla sua gloria, la nostra salvezza eterna.
La conferma di questa verità l'ha data espressamente il Salvatore divino. Espressione della virtù della speranza è la preghiera. Colla speranza noi desideriamo con fiducia di ottenere; la preghiera è l'espressione di questa fiducia e ne è insieme il fondamento, per le promesse che le sono state fatte da Dio. Orbene, Nostro Signor Gesù Cristo, quando ci ha insegnato la sua preghiera, cioè la preghiera tipo, a cui devono modellarsi le nostre preghiere, ci ha ordinato di chiedere al Padre nostro che è nei cieli, insieme col suo regno, anche il nostro pane quotidiano, e con esso le cose necessarie alla nostra vita presente.
Come è bello, o carissimi, ispirarci alla speranza cristiana, così largamente intesa, nei momenti - e sono tanti! - nei quali ci sentiamo oppressi da particolare angoscia, per noi o per il mondo che ci circonda!
Ci sentiamo deboli, cattivi; abbiamo dietro di noi una esperienza dolorosa, davanti a noi si affacciano pericoli non minori; che sarà della povera anima nostra?... Ma quel Dio che è morto per salvarci non ci vuole abbandonare. Speriamo nell'aiuto della sua bontà, preghiamo, offriamo alla sua grazia i nostri poveri propositi, resi più sentiti dai nostri stessi tristi ricordi. E ci risolleveremo dalla nostra preghiera, rianimati e fidenti.
Ci rattrista l'ambiente che ci circonda, nella famiglia, nel paese, nella città: miserie, grettezze, cattiverie, scandali, una triste propaganda di male. Dio vede tutto e pazienta. Forse aspetta la preghiera dei buoni, il loro sacrificio, la loro azione, per intervenire coi prodigi della sua grazia. Preghiamo con fiducia; operiamo il bene. Forse è vicina l'ora della salvezza.
Soffriamo nelle strettezze materiali: pare ci manchi il necessario. La salute non ci serve bene: soffriamo noi, soffrono gli altri per Causa nostra. Dio provvido sa tutto: forse questo nei suoi disegni è necessario per il nostro bene spirituale. Preghiamo, accettiamo con pazienza, fidenti nella bontà divina.
Sentiamo al vivo le angustie dei nostri simili, il periodo grave della Patria in armi, stretta da tante incomprensioni, da tanti odi e ingiustizie. Il tempo passa, non si vede una via d'uscita. Stiamo fermi al nostro dovere. Quali saranno i disegni di Dio? Egli ha mostrato già tanta predilezione per l'Italia nostra: certo l'ama. La prova dovrà forse purificarla, renderla migliore e più grande. Preghiamo, speriamo.
La Chiesa, il regno di Dio sulla terra, trova ostacoli, oppressioni, persecuzioni. Idee perverse si diffondono, si prepara una minacciosa rivoluzione sociale. Le masse in certe nazioni sembrano allontanarsi, abbandonare la fede. "Domine, salva nos, perimus: Signore, salvaci, siamo perduti". Ci risponde il Signore, dalla barca dei suoi discepoli agitata dai flutti (proprio come la mistica nave della sua Chiesa), dove Egli sembrava dormire: "Quid timidi estis, modicae fidei? Perchè temete, gente di poca fede? " (Matt., VIII, 25-26).
In ogni cimento, nélle angustie come nella calma dello spirito, nella prosperità come nella tribulazione, sorride sempre al cristiano la speranza, fondata sulla bontà e provvidenza del Padre nostro che è nei cieli. E non è il fatalismo irragionevole che porta ad incrociare le braccia in attesa dell'imprevisto. No; è la fiducia nella Provvidenza, che ci impone il dovere di esplicare, fidenti e laboriosi, tutte le nostre energie, per le opere di bene che il nostro posto esige da noi.

I PECCATI CONTRO LA SPERANZA

Vi sono peccati contro la speranza per eccesso e per difetto; e sono la presunzione e la disperazione. Ma prima e più gravi di questi, vi è un altro peccato contro la speranza, a cui forse meno si pensa; eppure è di una gravità tutta speciale, perchè si oppone direttamente alla speranza, interrompendo quella salutare tendenza verso il nostro fine, che ne forma l'essenza ed il singolarissimo pregio.
E' il peccato di coloro che non pensano neppure alla vita eterna, e non se ne preoccupano, quasi che non fosse cosa che li riguardasse.
Vi ho mostrato sopra, nell'esempio dell'Apostolo San Paolo, l'atteggiamento di un vero e perfetto cristiano, che ha appreso dalla sua fede il fine a cui, per bontà di Dio, è ordinata la sua vita, ed ha, ancora per la bontà di Dio, la ferma speranza di potervi arrivare. Di fronte all'orientamento della propria vita verso i beni del cielo, ed alla speranza di raggiungerli, egli non si stanca per qualunque sforzo ed è pronto a rinunciare ad ogni cosa piuttosto che perderli.
Fanno così tutti i cristiani, che pure hanno ricevuto nel battesimo 'quella medesima fede e quella speranza che infiammavano di sè l'apostolo S. Paolo? La risposta la potete dare voi.
Si può dire che pensino alla vita eterna molti che vivono abitualmente in peccato mortale, trascurando abitualmente i doveri fondamentali del cristiano? Nè si può dire che vi pensino come si dovrebbe coloro, - e sono molti, - che tutta la loro vita hanno assorbita dai traffici, collo sforzo continuo di accumulare ricchezze, a qualunque costo, cioè fino a costo di transigere colla propria coscienza, e seminare ingiuste rovine sulla propria strada.
E neppure coloro che non pensano che al piacere in tutte le forme, anche le più abbiette, trascinando spesso nel fango, colla propria, anche altre anime che ebbero la disgrazia di incontrarsi con essi.
E che dire di molti che dopo aver condotto una vita dissipata, dimentica di ogni pensiero superiore, si avvicinano alla morte senza rescipiscenza, senza un pensiero al cielo, spesso senza trovare nessuno, fra coloro che li assistono, che parli loro del giudizio di Dio e della vita futura?
L'Apostolo, che abbiamo visto così pieno di ardore per la vita eterna a cui si sente chiamato, parla di tutti costoro con raccapriccio e con orrore: " molti, dice, dei quali spesse volte vi ho parlato (e ve ne parlo ancora con lacrime) si diportano da nemici della Croce di Cristo: la loro fine è la perdizione, il loro Dio il ventre; la loro gloria è confusione... Ma noi, soggiunge, siamo cittadini del cielo, donde aspettiamo il Salvatore e Signore Nostro Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione, rendendolo conforme al corpo della sua gloria... " (Filipp. III, 18-2 1).
Ecco il grande delitto di tanta parte della umanità, che ne deve rendere severo conto a Dio, a suo gravissimo danno. Spesso esso è parallelo e conseguenza dell'altro delitto (salvo a Dio il giudizio sulle intime singole responsabilità di ciascuno) dell'apostasia storica dalla fede. Se non è la fede ad additarci i nostri destini futuri, non può la speranza farne l'oggetto delle sue aspirazioni e della sua fiducia. Ma talvolta la fede c'è, rimane, quantunque come un tronco spogliato delle sue fronde, morta, come la chiama l'apostolo S. Giacomo: ma una orribile, inesplicabile incoscienza tiene costoro nell'atteggiamento paradossale di credere al giudizio di Dio, alla vita eterna, ed insieme nulla fare per prepararvisi come si conviene.
Il peccato di costoro si avvicina al peccato di presunzione. E' la pretesa di salvarsi senza usare dei mezzi necessari.
E dapprima, siccome mezzo assolutamente necessario per meritare la vita eterna è la grazia di Dio, sarebbe presunzione il pretendere di poterlo conseguire colle sole proprie forze naturali. Fu, secondo un'opinione comune, il peccato di Lucifero e degli angeli ribelli, che, di fronte alla rivelazione della beatitudine, avrebbero preteso di averla per i loro stessi meriti naturali senza la necessità della grazia. E fu l'errore dei Pelagiani antichi, e dei naturalisti moderni, che gonfi di superbia non credono di porre un limite alla propria capacità in ordine ai più alti destini.
No, persuadiamoci: la vita eterna, consistente nella visione di Dio, è tal cosa, a cui mai potrebbe bastare la nostra natura e l'intelligenza nostra naturale. Ringraziamo umili e festanti Dio, che ci ha dato la sua grazia, per arriva e alle altezze soprannaturali che ha voluto destinarci. E questa grazia è dono di Dio: chiediamolo con la preghiera, ed abbiamolo caro come un tesoro prezioso.
E' presunzione anche il pretendere di salvarsi senza merito. Perchè se è la grazia che ci rende capaci della vita eterna, Dio ha stabilito, nella sua Provvidenza, di esigere anche la nostra cooperazione che è appunto il merito. Pur troppo molti trascurano le opere buone, e pretenderebbero di salvarsi. Si ingannano, con certo pregiudizio della loro salvezza eterna. Dice lo Spirito Santo per mezzo dell'Apostolo: " Non sarà coronato se non chi avrà legittimamente combattuto " (II Tim., 25). E. nella parabola dei talenti, Gesù ci ha additato il servo infingardo che è punito perchè ha nascosto il talento senza trafficarlo convenientemente (Matt., XXV, 18 e seg.).
Facciamo del bene dunque, finchè siamo in tempo, e soprattutto, frutti degni di penitenza, cioè, pentimento delle nostre colpe e riparazione, se abbiamo offeso il Signore. Che il giudizio di Dio non ci colga impreparati.
L'altro peccato contro la speranza è la disperazione, cioè il timore di non potersi salvare, per insufficienza nostra o per peccati commessi. Evidentemente questo stato d'animo sarebbe legittimo, se dovessimo fare assegnamento sulle sole nostre forze; non più, se pensiamo alla bontà di Dio. Non è più lecito ad alcuno disperare della propria salvezza, quando contempla il Crocifisso, cioè il Salvatore morto per la salvezza di tutti, e quando sente le parole colle quali nel Vangelo viene tante volte descritta la bontà di Dio verso i peccatori.
Qualche volta la disperazione può dipendere, più che da diffidenza del perdono, dalla persuasione della propria debolezza di fronte ai pericoli ed alle difficoltà della vita. Ma così dimenticheremo le promesse divine. Ci ammonisce ancora l'Apostolo: " Dio è fedele, e non permetterà che voi siate tentati oltre il - vostro potere, ma darà colla tentazione l'aiuto, affinchè la possiate sostenere " (I Cor., X, 13).
Ecco, figli dilettissimi, che cos'è la speranza, dono prezioso di Dio, destinato a tenere nella nostra vita spirituale il posto che può tenere nel mondo materiale una molla che spinge, una calamita che attrae. La grande calamita è Dio, bene sommo, capace di soddisfare ogni nostro migliore desiderio; la molla è la fiducia nella sua bontà e nei mezzi che egli ci ha promesso.
Badiamo a non perdere mai questi elementi preziosi di movimento. " Sic currite ut comprehendatis ", ci ammonisce sempre l'Apostolo (I Cor, IX, 2A).
Verrà un momento in cui cesserà in noi la speranza come cesserà la fede, perchè alla cognizione oscura e incompleta succederà la visione chiara di Dio; alla speranza, cioè al desiderio ed alla fiducia di arrivare a posseder Dio, succederà il possesso effettivo, completo, che non subirà interruzioni.
"Il Dio della speranza ci ricolmi di ogni gaudio e di pace" (Rom., XV, 13), e i tutti ci benedica.

Brescia, 15 febbraio 1936

 

 

 

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