Intervista a Cesare Trebeschi realizzata da un gruppo di studenti e insegnanti del Liceo Arnaldo di Brescia (Progetto I giovani e la memoria, 2016)

 

 

 


TREBESCHI: Io ringrazio che si pensi anche in particolare a mio padre, ma penso che vederne un po’ la figura sia interessante per la concretezza, per il fatto che non interessi tanto, a voi e in genere, la conoscenza di singoli personaggi, quanto approfondire il contesto generale: capire come ha potuto, come può succedere che, in una determinata situazione, nel nostro paese, si affermino movimenti che escludono ogni altra posizione, e durino per molti anni (e non è né la prima né l’ultima volta, purtroppo) e come in queste situazioni tuttavia qualcuno riesca a mantenere una propria personalità.
Credo che sia un po’ questo nel concreto che può interessare la figura di mio padre: da una parte un contesto familiare particolare. Da parte paterna il nonno è morto giovanissimo, quando papà aveva tre anni, e sia il nonno Cesare che suo fratello Arnaldo erano "zanardelliani doc"; lo zio era laico e mio nonno era anticlericale, oltre che laico; da parte materna la nonna era religiosissima e, pur essendo molto religiosa, morto suo marito ha voluto restare ancora una decina d’anni nella casa del suocero: quindi mio padre è cresciuto naturalmente molto legato a sua mamma, ma anche con un grande rispetto per la famiglia paterna. Dunque la presenza delle due tradizioni italiane più significative, sempre con riguardo alla famiglia, si affianca all’aspetto, che oggi possiamo ritenere superato ma che ha avuto il suo significato, che il fratello di mio padre è stato volontario alla prima guerra mondiale ed è morto dopo un anno al fronte. Non voglio certo sostituirmi ai vostri storici ufficiali, ma oggi possiamo anche avere molte perplessità su un certo Dannunzianesimo, che ha portato all’ingresso in guerra, guerra che forse un po’troppo tardi è stata definita dall’allora papa Benedetto Decimo Quinto “un’inutile strage”: inutile perché gli storici ci dicono che quello che volevamo, cioè soprattutto Trento ma in parte anche Trieste; l’Austria, pur di mantenere la pace, sarebbe stata disponibile a qualche concessione, forse più a uno statuto particolare per Trieste, ma per Trento gli Asburgo pare non avessero difficoltà, però ci fu questa ventata non solo di patriottismo ma diciamo pure di nazionalismo.
Oggi fortunatamente la scolarizzazione è generalizzata mentre ai tempi di mio padre era limitata ad una classe che potremmo definire genericamente borghese. La situazione attuale è diversa e quindi è difficile capire del tutto come la generazione studentesca di allora si fosse lasciata molto influenzare dalle ventate nazionalistiche, non dico patriottiche.
Ricordo che il mio bisnonno e i suoi fratelli erano stati con Tito Speri nelle Dieci Giornate, c’era questa tradizione di sentimento risorgimentale e quelli che allora andavano all’università sentivano molto l’accentuazione, non solo patriottica, ma proprio anche nazionalistica, oggi in gran parte quell’atmosfera è cambiata.
Un altro aspetto del mondo di allora era stato un forte antagonismo tra quelli che potremmo definire rozzamente clericali e anticlericali. C’era stato un filone ristretto, ma a Brescia abbastanza consistente, di persone che cercarono di ricomporre le due forze.
Per fare un esempio concreto riferito a mio padre, che era presidente di una associazione studentesca, il 20 settembre del ‘23 partecipò alla celebrazione della Breccia Porta Pia e, a seguito di tale episodio, sebbene il vescovo avesse dato il suo consenso, fu indotto a dimettersi dalla presidenza dell’associazione per un richiamo da parte della Segreteria di Stato del Vaticano. Oggi non ce ne rendiamo conto perché Paolo VI ha pur benedetto i bersaglieri che appunto a Porta Pia hanno liberato almeno in parte la Chiesa dal potere temporale.
Altro esempio del problema del rapporto conflittuale fra le forze politiche furono gli scontri violenti, con vittime anche nel bresciano, tra socialisti e popolari. Un episodio particolarmente grave si verificò a Sarezzo con un morto e con un pesante strascico di polemiche. Ricordiamo che nel ’21 si è formato il partito comunista a Livorno, ma fino a allora la sinistra era stata abbastanza unita e compatta nella contrapposizione con i popolari. Poi per mettere d’accordo tutti ci hanno pensato i fascisti che hanno saccheggiato sia i circoli dei socialisti sia quelli dei popolari.
Un particolare che, per quanto riguarda mio padre può avere un certo interesse, è stato il matrimonio. Mio padre ha sposato una modenese, di famiglia veneziana. In Emilia gli scontri fra socialisti-comunisti e cattolici erano stati particolarmente forti e nella famiglia di mia madre c’era stata una chiara adesione al fascismo. Successivamente un fratello di mia mamma, nella guerra di Spagna, si è arruolato con Franco, partendo sotto la spinta della reazione a eccessi governativi. In particolare rispetto alle repressioni del governo repubblicano nei confronti della gerarchia ecclesiastica e dei conventi, in gran parte schierati contro il rinnovamento repubblicano. Di fatto quindi è andato con quelli che allora si chiamavano i ribelli. In realtà poi è tornato disgustato ed ha raccontato che, purtroppo, molti dei nostri legionari in Spagna si erano dedicati soprattutto a saccheggiare le case portandosi via quadri, argenteria e altre cose di valore. Nonostante quell’esperienza era sempre rimasto fascista, ma, dopo l’8 settembre, quando dalla segreteria repubblichina gli giunse la proposta di comandare una brigata di squadristi rifiutò e stracciò la lettera di richiesta. Quindi in casa avevamo diverse posizioni.
Un altro fratello della mamma è finito fra gli internati militari: i famosi seicento mila che dopo l’8 settembre vennero arrestati e deportati. Questo zio, nel campo di internamento di Hammerstein in Germania, venne eletto dai suoi compagni come comandante e rappresentante degli ufficiali che non aderirono alla Repubblica di Salò. Della sua esperienza di internamento ha tenuto un resoconto minuzioso, distinguendo gli internati militari in tre categorie: quelli che avevano aderito alla repubblichina, sperando di tornare e poi non sono tornati, quelli che avevano aderito al lavoro per avere una mezza pagnotta di più e quelli invece che non avevano aderito. Oggi, secondo alcuni, quello dei seicento mila internati viene considerato il primo referendum patriottico, ma storicamente è inesatto perché non tutti coloro che non fecero ritorno avevano scelto di opporsi al regime fascista, quindi dire seicento mila referendum del no repubblichino è una lettura un po’ ottimista dal punto di vista politico.
Questo fratello della mamma era il fratello minore e, durante la prigionia, furono molte le sollecitazioni da parte dei famigliari ad aderire per poter tornare, ricordandogli che aveva una figlia piccola, la moglie era in attesa di un’altra bambina e la madre molto anziana. Allora lui aveva scritto una lettera nella quale spiegava la sua scelta, anche di responsabilità nei confronti degli altri che erano con lui e che avevano riposto in lui la loro fiducia. In quell’occasione tra gli internati era stato autorizzato un ufficiale a fingere di aderire per poter portare questa lettera in Italia, dove suo fratello, pur fascista, si fece dovere di consegnarla ad amici che l’avrebbero fatta pubblicare sul “Ribelle” (n.5 del 19 giugno 1944), il periodico clandestino forse più diffuso in tutta Lombardia.
Mio padre da una parte era sentimentalmente legatissimo alla memoria di suo fratello Giovanni, morto al fronte durante la Prima Guerra Mondiale, quindi patriottico e antitedesco, nello stesso tempo molto portato alla nonviolenza, quindi abbastanza perplesso sul ribellismo. In un primo tempo, comuni amici cercarono di convincerlo a partecipare alla costituzione del Movimento Partigiano a Brescia, con l’intento di unire tutte le forze responsabili. Poi la sua partecipazione fu convinta, pur mantenendo sempre un atteggiamento di grande prudenza alla quale cercava di richiamare, soprattutto, i più giovani.
Ricordo una certa riunione nella canonica di San Faustino dove mi fece conoscere Astolfo Lunardi ed entrambi non molto tempo dopo sarebbero stati arrestati. Il primo arresto di mio padre fu tutto sommato casuale. Due miei cugini, Franco e Roberto Salvi, figli della sorella di mio padre, si erano molto compromessi nella distribuzione di stampa clandestina e nella ricerca di armi.
Allora lo spionaggio era all’ordine del giorno, ma mi sono fatto una convinzione in proposito che non è legata solo a quel periodo. C’è nel Vangelo la parabola del buon seminatore che racconta del seme che cade sulla strada, nelle spine e sulla buona terra. Anche quello che cade tra le spine è un buon seme, con riferimento a quelle situazioni, quindi, possiamo dire che abbiamo avuto purtroppo diffusi fenomeni di giovani che l’afflato patriottico ha portato ad aderire al primo movimento della resistenza, poi un po’ la paura, la fame e in alcuni casi anche lo sconcerto per qualche episodio partigiano non solo increscioso ma vergognoso, purtroppo effettivamente accaduti, ha cambiato idea. Hanno deciso di non correre pericoli, stare dalla parte sicura e quindi ci è capitato di vedere giovani, che consideravamo amici, che poi invece sono venuti a fare delle perquisizioni nelle nostre case. Questo è un aspetto che credo vada approfondito, perché è molto importante.
Quando vennero a cercare i miei cugini, io e mio padre eravamo a pranzo a casa loro e, dato che non c’erano, loro padre scese a parlare con i repubblichini. Poiché dopo mezz’ora non risaliva, scese anche mio padre che, alla vista del cognato che era stato picchiato, protestò in modo energico con i presenti: pertanto entrambi vennero arrestati e con loro anche un altro cugino più giovane, Mario. Mio padre era avvocato e in quell’occasione ci fu una mezza sollevazione nel foro bresciano, da parte di diversi avvocati e giudici e, dopo due giorni, i tre vennero rilasciati.
In seguito i miei cugini Salvi, uno dei quali sarebbe poi stato eletto in Parlamento, insieme a don Giacomo Vender, curato di San Faustino, hanno “procurato” una radio trasmittente, diciamo “rimediata” dalla scuola Moretto di notte e, dopo la ricerca di altri nascondigli sulle colline di Cellatica, alla quale anche io avevo partecipato, l’abbiamo nascosta nella cantina di casa nostra. Un giorno un carissimo amico che aveva formato il primo gruppo armato di partigiani era riuscito a rapinare, con un termine giuridicamente esatto, cioè a prelevare dai magazzini della Beretta a Gardone un buon numero di armi, e pensava che sarebbe stato importante organizzare una trasmissione radio per la città da parte del Movimento Partigiano. Ci fu una riunione a casa Salvi a Cellatica, alla quale partecipammo anche mio padre ed io: a lui venne chiesto di organizzare le operazioni per avviare le trasmissioni clandestine di Radio Brescia Libera. Molti allora pensavano che la guerra si sarebbe conclusa in poche settimane, perché i soldati italiani erano stati cacciati dalla Russia, gli inglesi erano già sbarcati in Sicilia e la Francia era caduta, quindi sembrava questione di poco tempo la capitolazione nazifascista. Mentre papà invitava tutti a non illudersi, perché Hitler, che aveva promesso di fare terra bruciata, aveva dimostrato di saperlo fare sia in Polonia sia in Belgio che in Olanda.
Io non mi vergogno a dire che mio padre era fisicamente pauroso: era convinto che le cose non si sarebbero risolte rapidamente e che bisognava essere assolutamente prudenti. In occasione della riunione per Radio Brescia Libera si ragionò sulle persone fidate che potevano essere coinvolte ed un amico pensò di scrivere i nomi concordati: mio padre si arrabbiò, perché sapeva del grave pericolo che avrebbero corso, nel caso in cui l’elenco dei nomi fosse entrato in possesso dei fascisti o dei tedeschi. Purtroppo l’amico, che aveva assicurato di non mettere per iscritto la lista dei nomi, successivamente lo fece e, quando venne arrestato, nella perquisizione trovarono proprio un piccolo foglio con i dieci nomi individuati durante la riunione.
I tedeschi cercarono di arrestare le dieci persone indicate nell’elenco e, soltanto grazie all’avvertimento che Franco Salvi era riuscito a far pervenire a mio padre dal carcere, due riuscirono a fuggire in tempo: Fausto Lechi, nazionalista, già podestà di Brescia che, dopo le leggi razziali si allontanò dal fascismo, e don Luigi Daffini, allora parroco di San Faustino.
Don Daffini, tra i promotori del Movimento Partigiano a Brescia, era stato curato a Cellatica ed era un uomo focoso. Ricordo un episodio particolare: un giorno un contadino era andato a dirgli che era stato picchiato dai fascisti, chiedendogli consiglio su che cosa avrebbe dovuto fare. La risposta di don Daffini fu: “Gioanì ricordati cosa dicono le Sacre Scritture: o restituzione o dannazione”. Non era certo una persona che si lasciasse intimorire dalle prepotenze di tedeschi e fascisti, tuttavia in quell’occasione dovette scappare e nascondersi per evitare l’arresto.
Per mio padre arrivò invece il secondo arresto insieme agli altri indiziati per la radio. E’ rimasto inspiegabile che, degli arrestati con quella specifica motivazione, soltanto due furono trasferiti al Lager di Dachau: mio padre e padre Carlo Manziana, priore dei Filippini dell’oratorio della Pace. Manziana poi è rimasto deportato a Dachau fino alla liberazione, mentre mio padre a fine giugno 1944 fu trasferito al campo austriaco di Mauthausen. Attraverso le informazioni ricevute dall’avvocato Fergnani, socialista mantovano, sopravvissuto alla deportazione, che aveva fatto con lui il viaggio dalla Germania all’Austria, abbiamo saputo che a mio padre avevano detto che sarebbe stato liberato e con il treno sarebbe tornato a casa: soltanto quando a Innsbruck si accorse che il treno anziché dirigersi verso il Brennero girava verso Vienna, si rese conto della beffa.
All’arrivo a Mauthausen, sempre secondo il racconto del compagno sopravvissuto, per un mese li hanno tenuti in quarantena, cioè non li hanno fatti lavorare, perché dovevano verificare che non ci fossero infezioni virali. Di quel periodo l’avvocato Fergnani, in un libro (“Un Uomo e tre numeri”), ricorda che fra i compagni c’era un avvocato di Brescia di idee diverse dalle sue, ma con il quale aveva trascorso molto tempo con lunghe e interessantissime conversazioni.
Sulla possibile causa del trasferimento da Dachau a Mauthausen siamo risaliti da notizie di vicende familiari, valutando delle particolari coincidenze temporali. Già il campo di Dachau era un lager duro però non come Mauthausen e soprattutto Gusen che è stata la sua ultima tappa ed è stato il più atroce. Una ricostruzione che, dal punto di vista del calendario sembra abbastanza plausibile, è questa: un cugino della mamma era il direttore della clinica universitaria del Gaslini a Genova, uno degli ospedali pediatrici più importanti di Europa. Aveva avuto in cura il bambino del comandante della piazza, affetto da una grave malattia. Alla guarigione del bambino, questo ufficiale andò dallo zio e gli disse: “lei ha fatto un miracolo, mi chieda quello che vuole e io lo farò”. Lo zio disse: “so che i miei cugini continuano a cercare di mandare un pacco di viveri in Germania e non hanno mai avuto notizia che fosse arrivato, vorrei che gliene venisse recapitato uno”. L’ufficiale promise che avrebbe provveduto ma, alla vista dell’indirizzo di Dachau disse: “ah io sono un uomo d’onore, quindi manterrò la parola data, però lei chiede la mia condanna”. In effetti abbiamo saputo che l’ufficiale tedesco venne mandato in Russia da dove non fece più ritorno.
Sempre in modo fortuito, cioè a un congresso della Croce Rossa a Ginevra, al presidente della Croce Rossa di Brescia, l’ingegner Buizza, fecero vedere il materiale raccolto nella biblioteca. Tra gli schedari vide il bollettino d’arrivo del pacco inviato da Brescia a Dachau, arrivato nel giorno nel quale però il papà partì per Mauthausen. Da allora non abbiamo saputo praticamente più nulla perché, come vi ho detto, il papà aveva il terrore che la sua famiglia potesse essere coinvolta, quindi non ci ha mai scritto nemmeno una lettera per la paura di comprometterci, mentre risulta che in molti casi i tedeschi concedessero ai prigionieri, anche da quei Lager, di inviare una lettera al mese per far credere alla Croce Rossa che fossero prigionieri normali.
Comunque non abbiamo mai avuto una riga: quello che sappiamo lo sappiamo da qualche sopravvissuto sul treno da Dachau a Mauthausen. C’era Max Boris che aveva attivato una radio clandestina a Firenze che è stato uno dei massimi esponenti dell’associazione deportati e ci ha detto che l’aveva visto. Ci ha scritto un deportato che era riuscito a farsi mettere nella segreteria del campo di Mauthausen come interprete: aveva conosciuto il papà e vide l’ordine di trasferirlo al campo di Gusen 2. Questo campo, aperto solo recentemente alla visita, era di enormi dimensioni, e comprendeva gallerie sterminate sotto oltre 50 metri, in un primo tempo per la fabbrica di componenti di aerei e poi per il tentativo fatto dai tedeschi di utilizzo di uranio arricchito per un progetto di bomba atomica. Da quel campo saranno tornati in tutto una trentina di persone rispetto alle migliaia che vi furono deportate: questo più o meno è il poco che sappiamo.
Dal punto di vista storico può forse interessare cercare di capire perché mio padre fosse un po’ in vista.
Nel ‘42-‘43 mio padre aveva organizzato una serie di conferenze facendo venire persone per allora abbastanza in vista, uomini di cultura: non so, forse il nome più famoso allora potrebbe essere Carnelutti, grande avvocato, del quale però si diceva “carne per sé e lutti per gli altri”!; altri come Giorgio La Pira poi sindaco di Firenze, il prof. Federico Marconcini tributarista che sarebbe poi stato senatore, Mariano Cordovani allora maestro dei sacri palazzi apostolici (teologo ufficiale del papa). E siccome erano conferenze un po’ sul filo del rasoio naturalmente suscitarono molte preoccupazioni in ambiente fascista, anche perché contemporaneamente il papà aveva organizzato fiere del libro in città e in provincia riuscendo a far circolare libri italiani e francesi che non potevano non suscitare sospetti. Le ultime conferenze furono ai primi di giugno del ‘43 cioè alla vigilia del primo crollo del fascismo e averle organizzate può averlo messo in luce più del necessario. Papà annunciava di volta in volta i temi delle conferenze proposte con articoli che riunì poi in un opuscolo pubblicato semiclandestinamente nell’autunno del ’43 (A la soglia dei problemi sociali”), sempre nell’autunno pubblicò diffuse largamente un manifesto: “Ricchi e poveri”.
Molti giovani, che frequentavano quelle conferenze e altre iniziative promosse da mio padre, si sarebbero poi impegnati a vari livelli: tra questi Bruno Boni, sindaco di Brescia dal 1947 al 1975, Egidio Ariosto poi ministro socialdemocratico, Franco Salvi parlamentare dal … al …, Mario Cassa professore di storia e filosofia al liceo Arnaldo per vari decenni.

Prof. Molinari: Direi che è proprio un quadro che può mettere insieme l’aspetto autobiografico della personalità con lo scenario, perché sia dal punto di vista dell’intreccio famigliare che dell’intreccio storico mi sembra ci sia già del materiale che offre molte piste su cui lavorare, perché è uno spaccato non solo famigliare ma anche della storia di Brescia e della storia d’Italia.
Jacques Panizza: Quanto sarebbe pensabile di approfondire, restando legati alla biografia di suo padre, la tematica delle differenze interne sia a quella parte di società che ha offerto il consenso al fascismo, sia di quella che ha fatto opposizione? Cioè ricordava anche lei la differenza fra la famiglia di suo padre e quella di sua madre e anche all’interno di queste: a me pareva molto interessante, appunto, questa enorme ramificazione, se ci sono abbastanza dati, abbastanza materiali per lavorare su questo in modo piuttosto specifico.

Cesare Trebeschi: Forse un particolare che ho trascurato è quello diciamo “religioso”: nel ‘18 mio padre con Battista Montini, che poi ha fatto un po’ di strada, ha messo insieme un giornale studentesco che è durato qualche anno (1925); quindi c’è stato questo legame molto stretto con Montini. L’Istituto Paolo VI ha pubblicato il carteggio giovanile tra mio padre e Battista Montini. Io prima avevo potuto pubblicare solo le lettere di Montini non avendo quelle di mio padre, che invece Montini aveva in gran parte conservato. Quindi questo è un aspetto secondo me di estremo interesse. I vostri mentori vi diranno, credo, che la Democrazia Cristiana non è stata fondata da De Gasperi, ma da Montini, che era convinto della necessità di un impegno civile dei cattolici, non solo civile ma anche organizzato tra loro. Mio padre invece non era di questo parere ed ebbe una polemica violenta con un esponente del Partito Popolare nel ‘24 e, pur essendo prima in rapporti anche molto cordiali, in pratica non si salutarono più per quindici anni, proprio perché papà era del parere che siamo cittadini in uno stato, e non soltanto cristiani, dobbiamo impegnarci per la città di oggi e non soltanto per il paradiso. Città di oggi nella quale non solo è lecito, ma è bello avere idee diverse: chi vuole costruire con dei mattoni omogenei probabilmente non pensa che la varietà sia importante. A casa sua, come dicevo, avevano idee un po’ diverse, però ebbero un rapporto amicale molto stretto, dimostrato da un carteggio, che in meno di trent’anni sarà costituito da un centinaio di lettere; poi ne abbiamo trovate anche altre. Papà e Montini erano coetanei, essendo nati nel settembre ’97, e il papà aveva una stima enorme di questo suo amico e io lo ricordo, perché papà, avendo come tutti i genitori forse stima dei propri figli più del dovuto, mi portava come bagaglio appresso alle riunioni, anche clandestine. Ricordo una certa riunione a Roma di un suo gruppo, diciamo di cattolici impegnati, che sostenevano questa opportunità di un’unità solo sulle cose fondamentali, ma del pluralismo nel resto e si discuteva. “Eh però i vecchi popolari hanno un leader importante come De Gasperi e quindi sicuramente riescono a sfondare”! Per di più tra i, diciamo, fondatori della Democrazia Cristiana c’era un giovane che nei primi anni ‘20 era stato non so se presidente o segretario della FUCI, ed era riuscito a conservare rapporti in tutta Italia e quindi aveva una possibilità di ricostituire e di costituire ex novo un movimento, mentre gli altri erano piuttosto dispersi e forse non avevano figure particolarmente rappresentative. Ma dopo la discussione ricordo uno che dice: “Sì sì va beh, vanno bene tutti come leader, però di là c’è Monsignor Montini che tiene tutto il Vaticano dalla parte di De Gasperi!” e ricordo il papà che dice: “Vò me da Montini!” e andammo insieme. Io ricordo la scena: il disappunto, subito frenato, di mio padre perché Montini mi offrì una cioccolata con i biscotti e disse al papà: “noàlter andòm de là”, e mi piantarono in asso per più di un’ora. La discussione fu evidentemente molto lunga e approfondita e, per la prima volta, mio padre non mi riferì nulla: evidentemente Montini riuscì a convincerlo non solo della opportunità hic et nunc dell’unità dei cattolici italiani ma anche a prendersi una responsabilità personale nella costituzione a Brescia del partito dei cattolici.
Prof. Magurno: Posso chiederle una cosa che mi incuriosisce molto? Allora suo padre è stato compagno anche di classe all’ Arici, perché due anni, da quello che ho letto, due anni di ginnasio, diciamo, li ha trascorsi all’Arnaldo e poi è passato all’Arici, probabilmente di Giovan Battista Montini; quindi, siccome erano coetanei, probabilmente hanno sostenuto l’esame di maturità nello stesso anno, nel senso che, a riguardo, ho un’informazione, almeno che compare in un libro pubblicato da Augusto Monti, il maestro di Cesare Pavese, che ha insegnato all’Arnaldo dal ‘19 al ‘23-’24, come ricorda lo stesso Augusto Monti in un volume “I miei conti con la scuola”, pubblicato da Einaudi, che si trova anche alla biblioteca dell’Arnaldo (io, per altro, ho ricordato Augusto Monti, quando insegnavo in quella scuola, dedicandogli un pomeriggio di studi, invitando il professor Luigi Pati, dell’Università Cattolica di Brescia, e il professor Tesio, dell’Università del Piemonte Orientale, e poi il sindaco del paese natale, un paese della provincia di Cuneo, mi pare, quindi è stato un bel pomeriggio!).. Ebbene, Monti, ricordando la sua esperienza bresciana, all’interno di questo volume, parla dell’esame di maturità di Giovan Battista Montini e dice: “Io ho esaminato un giovane vispo dall’occhio arguto, eccetera eccetera.., che veniva dal Liceo Arici e che doveva sostenere gli esami all’Arnaldo”; quindi anche suo padre probabilmente ha sostenuto l’esame nello stesso anno e, magari, con lo stesso Augusto Monti: questo particolare non si può appurare?
Cesare Trebeschi: Credo che papà abbia fatto la maturità a Bologna perché quando partì suo fratello come volontario, chiese anche lui di arruolarsi, ma fu investito da un camion proprio il 24 maggio e, quindi, passò l’ultimo periodo di ospedale in ospedale. All’Arnaldo in quel periodo c’erano Giorgio Valgimigli poi grande medico, figlio del letterato Manara Valgimigli e Lionello Levi che è stato Presidente del Consiglio di Stato e il cui padre Dario insegnava all’Arnaldo.
Prof. Magurno: Comunque questo Monti parla benissimo di Giovan Battista Montini e dice: “Ma aveva delle prevenzioni iniziali nei confronti della scuola statale, però poi parlando è apparso alla fine più disteso e diceva che aveva fatto un esame brillantissimo e Monti aveva sentito il bisogno di intrattenersi con lui dopo l’esame”.
Cesare Trebeschi: Allora un altro professore dell’Arnaldo era un naturalista: ricordo che mio nonno materno, che era pure naturalista, era professore di botanica all’Università di Modena e disse all’aspirante genero: “Salutami il professor Cacciamali “. Quando papà , che aveva avuto degli scontri con questo grande anticlericale, gli disse: “Mi manda il professor De Toni a salutarla!”. “De Toni? Lei?”. L’altro personaggio della famiglia, del quale non dico che ci vergogniamo ma quasi, il fratello del mio nonno materno, era invece uno studioso di geografia e, purtroppo, collaborò col famigerato conte Tolomei nel processo di italianizzazione che ha cambiato tutti i nomi dei paesi e delle famiglie sudtirolesi. Io ho avuto una vicenda professionale interessante per il riconoscimento della peculiarità delle comunioni familiari di montagna nell’Ampezzano e c’era un certo professor Serafino Maierotto, che di famiglia si chiamava Otto Maier: per dire che è stata una cosa ignobile! In Val D’Aosta son riusciti a mantenere la loro fisionomia, mentre appunto in Alto Adige è stata modificata tutta la toponomastica e addirittura i nomi delle famiglie.
In generale la cancellazione delle identità è una cosa terribile. I nazisti lo hanno fatto incidendo il numero sul braccio dei deportati, chiamandoli e facendoli conoscere soltanto per un numero.

 

 

APPENDICE: Nina Grazi - Nota storica su Giovanni Andrea Trebeschi

Sin dal dibattito politico risorgimentale fu abitudine degli storici quella di dividere gli italiani in due schieramenti, contrapponendo non i partecipanti attivi ai non interessati alla vita pubblica e al moto unitario del Paese, bensì i liberali ai clericali, sorvolando, così, quasi del tutto, l’acuto e diffuso entusiasmo patriottico di questi ultimi. Giovanni Andrea Trebeschi è, in questo, figura esemplare; figura che seppe combinare la sua profonda fede religiosa al più convinto ideale patriottico, e che mantenne viva questa fusione di ideali per tutta la vita, forse perché connaturata alla stessa, avendo ereditato questi valori, rispettivamente, da madre e padre. Trebeschi fu espressione tipica, ma al tempo stesso più alta, del contesto sociale, politico e religioso della città di Brescia e dell’intera Italia in epoca fascista. È questa la situazione storica su cui egli si affaccia, con una lotta – o meglio ancora, una convinzione – radicale, costante e in continua evoluzione, che non oltrepassa mai, e neppure si allontana, dai principi della morale e della religione cristiana. Numerose sono le critiche che riceve, per l’impegno politico, l’attenzione per il sociale, la fede patriottica, ed è proprio nelle risposte a queste critiche, sempre pacate e cristalline, di chi non ha dubbi, di chi conosce sinceramente quello in cui crede, che chiaramente viene rivelato il suo ideale. È, per esempio, in una risposta a Longinotti che Trebeschi si domanda:
« Che fa dunque la G.C.I  (Gioventù Cattolica Italiana) di fronte alla politica? Bisogna tener presente che lo scopo della G.C.I. è la formazione religiosa sociale delle coscienze giovanili, la preparazione dei futuri uomini cattolici e cittadini italiani. Ora, cos’è la politica? La vera sana politica è la grande azione collettiva dei cittadini per il bene temporale della Patria, della sua terra, delle sue industrie, del suo popolo, nel senso cristiano, nel rispetto e nell’onore della Chiesa. Perché dunque la G. C. non dovrebbe collaborarvi? Sì, che vi collabora; formando e sviluppando nei nuovi cittadini le virtù cattoliche che sono anche le uniche virtù patriottiche: spirito di sacrificio, di disciplina, rispetto all’Autorità, formando carità nelle famiglie, senso di giustizia nei proprietari, di dovere nei lavoratori. . .
Ma la politica è praticamente lotta di partiti, spesso violenta e chiassosa campagna elettorale: ciò è assolutamente fuori dai fini della G.C.I. e per questo il Papa ne proclama la più precisa e leale distinzione.»

E ancora, alle critiche di chi vede La Fionda vincolata alla politica risponde:
«E che cos’è questa signora Politica, dopo tutto, da meritare tante condanne?
È l’anima della Storia. E dite poco voi?
È la scienza del Governo degli Stati.
E allora, come disinteressarsene noi; noi, che viviamo in una epoca storica in cui il governo degli Stati è uno dei problemi più gravi e importanti per l’Umanità e per le sue vie dell’incivilimento? La politica serve a molte, a troppe ambizioni e a molte, a troppe tasche. Sì, è vero. Ed è per questo che molte cose vanno male e infinite ragioni di lamentele e di malcontenti e di reazioni turbano la vita della Nazione. […] »

Con il trascorrere degli anni inizia tuttavia ad emergere sulla scena politica bresciana un fascismo che si fa via via sempre più radicale, e contro il quale il contrasto di Trebeschi si fa sempre più acceso. L’occasione delle prime polemiche è la questione di Fiume. Un ex fiondista, ora esponente del nascente fascismo, Alessandro Melchiori, accusa Trebeschi di rinnegare l’italianità, sino a definirlo, nel giornale studentesco Vita Nova, di essere la rovina del Movimento Studentesco Bresciano, e di essere un politicante. L’opposizione di Trebeschi di fronte ai numerosi tentativi di Melchiori di trovare adesioni tra il movimento studentesco è severissima, così come severissima è la posizione di Trebeschi di fronte ai primi pronunciamenti fascisti, considerando il Popolo d’Italia, insieme all’Avanti, «figli della medesima megera, smorfie di un medesimo odio e di una medesima contraddizione. . .»

E ancora, sul fascismo, scrive:
«Quando manca un principio base superiore a un movimento, e quando il metodo di tale movimento si basa solo sul pregiudizio della ragione a chi picchia più sodo, più brutalmente, quando un movimento vuole fare anche guerra religiosa casca, decade, traligna, tradisce persino i suoi primi postulati.»
I fascisti lo ricambiano con forte violenza verbale, numerosi sono gli attacchi che Trebeschi vede indirizzarsi, soprattutto da parte de La Fiamma, a causa della sua presa di posizione contro il fascismo. Rapidamente, però, lo scontro verbale diventa concreto: è il 1° novembre 1922 quando i fascisti invadono Palazzo S. Paolo, sede de La Fionda, danneggiando e distruggendo macchinari della tipografia e degli uffici, rovinando carte e documenti con insulti e frasi ingiuriose. È il numero successivo, uscito in ritardo, de La Fionda stessa a dare notizia del gravissimo episodio. In esso si ribadisce la non adesione al fascismo: non è possibile, si sottolinea, che i cattolici aderiscano ad associazioni che prendono atteggiamenti più o meno apertamente antireligiosi. Nello stesso numero, però, ci si chiede per quale motivo una rappresaglia puramente politica abbia invaso e colpito istituzioni di carattere religioso.
Ancora una volta, anche di fronte un episodio così colmo di violenza, Trebeschi carica – di contro – le sue parole di speranza, di fiducia. Le sue posizioni sono però sempre fermamente e radicalmente ostili al fascismo: «[…] Al Fascismo però si deve riconoscere la sincerità di essersi finalmente proclamato Partito Politico; non gli resta che un gesto ancora di lealtà: quello di proclamarsi ufficialmente “antireligioso”».
Esso si fonda su teorie dell’odio, della violenza, del cinismo e, soprattutto, della menzogna: in questo ultimo elemento Trebeschi intravede, oltre al resto, il carattere profondamente diseducativo del fascismo stesso, per i giovani e per la società tutta. Al di là di questi fermi pronunciamenti e nonostante questa profonda convinzione Trebeschi non ha intenzione di sacrificare completamente il movimento nella lotta politica. Nonostante il rincrudire degli episodi di violenza fascista – spesso non solo verbale – Trebeschi ribadisce il ruolo esclusivamente morale, religioso e culturale de La Fionda, e distingue chiaramente l’attività dell’Apostolato Cattolico dall’attività politica.
In risposta ad un articolo del Popolo di Brescia, respinge l’accusa di voler istituire una «milizia bianca» e ordina, per non offrire pretesti al Fascismo, la soppressione del gruppo delle «Camicie bianche» promosso da Davide Cancarini tra i soci della Gioventù Cattolica di Val Trompia per evitare eventuali assalti a processioni religiose da parte di elementi sovversivi.
In qualsiasi lettera inviata, in ogni articolo scritto riecheggia tutta la fierezza del cattolico militante e del cittadino democratico.

Andrea Trebeschi dall'Enciclopedia Bresciana di mons. Antonio Fappani:

(Brescia, 3 settembre 1897 - Gusen, Austria, 24 gennaio 1945). Di Cesare (v.) e di Elvira Fiorini. Avvocato. Di famiglia patriottica, rimane orfano con due fratelli a soli tre anni, per cui sente vivissima l'influenza della madre, donna di viva intelligenza, di alte virtù e di profonde convinzioni religiose. Frequenta, 1903-1904, fin dalla prima elementare il Collegio Cesare Arici e ottiene la menzione onorevole mentre il condiscepolo Giovanni Battista Montini miete il primo premio. Frequenta poi le scuole pubbliche per ritornare al Collegio Arici dove nel 1914 è segretario della Congregazione Mariana della quale Giovanni Battista è prefetto. Completa il ginnasio all'Istituto Arnaldo da Brescia, mentre frequenta con il fratello Giovanni l'oratorio della Pace. Si iscrive all'Associazione Alessandro Manzoni della quale diviene presto protagonista, coinvolto in un intenso apostolato oltre che religioso, culturale e civile. Nel 1914 a 17 anni promuove a Cellatica una biblioteca circolante e dà vita ad un giornaletto poligrafato dal titolo "Parvae Favillae" per tenere i contatti con i compagni dispersi dalle vacanze.

La guerra registra il suo passaggio dall'avversione alla partecipazione e all'arruolamento nel 1916. Immobilizzato a lungo per un incidente automobilistico, riceve la notizia della morte, avvenuta il 24 luglio 1916, per ferite di guerra del fratello Giovanni del quale da ora in poi assume il nome firmandosi Gian Andrea. Pur nel servizio militare, continua l'attività di apostolato e assume la carica di presidente della Società A. Manzoni (v.); organizza manifestazioni e attività di sostegno e di assistenza ai combattenti e ai mutilati e reduci. Organizza in casa sua una "Maison du soldat français"; ospita, sempre in casa, legionari cecoslovacchi, mentre la madre fonda con altre signore l' "Associazione madri e vedove dei caduti di guerra". Prima ancora che la guerra termini, il 15 giugno 1918 fonda "La Fionda", organo dapprima della "Manzoni" e, più tardi, dell'Unione Nazionale Studenti Medi, con diretta collaborazione di don Piero Rigosa, Giovanni Battista Montini, Mario Marcazzan, Mario Bendiscioli, Giulio Bevilacqua, Giuseppe Schena e altri. Mentre "La Fionda", che ha il sostegno di personalità quali p. Semeria, p. Giovanazzi, p. Gemelli, mons. Pini ecc., allarga sempre più il suo ambito mobilitando giovani di altre città e regioni, pubblicando un'edizione per il Mezzogiorno con sede a Napoli, egli intensifica l'attività (sezioni, gruppi di cultura, corsi, conferenze, teatro e anche una libreria), organizza un "Convegno studentesco della Vittoria" (22-24 aprile 1919), che porta alla rinascita della F.U.C.I. (Federazione Universitari Cattolici Italiani). Ai primi del 1922 fonda l'Unione Studenti Medi Cattolici, della quale la "Fionda", nel settembre, diventa l'organo. Nel 1924 promuove un "Patronato nazionale per l'assistenza morale e materiale delle organizzazioni degli studenti cattolici medi". Per gli studenti nell'estate 1924 apre a Saviore una colonia alpina. Intensamente impegnato, trova il tempo di laurearsi nel luglio del 1921, di sposarsi l'1 giugno 1922 con Vittoria De Toni (n. a Modena il 22 novembre 1903) e di superare gli esami di procuratore il 14 aprile 1923. Dalla moglie avrà quattro figli: Maria Elvira (Brescia, 22 settembre 1923), insegnante, Cesare (Brescia, 21 agosto 1925), avvocato e sindaco di Brescia dal 1975 al 1985, Giovanni Battista (Brescia, 6 aprile 1927) ed Elvira Amalia (Brescia, 4 maggio 1929). È impegnato fin dal 1919 nell'attività diocesana nell'Azione Cattolica e in particolar modo nella Federazione Giovanile Leone XIII. Nel dicembre 1921 viene chiamato alla vice presidenza della Giunta diocesana dell'A.C.; il 24 agosto 1922 viene nominato presidente del Centro cittadino cui affianca un sottocentro per le periferie: oratori, scuole di religione, un circolo militare, associazioni scautistiche, conferenze di S. Vincenzo, adorazione notturna, ritiri, sostegno ai templi votivi, giornate del Vangelo, Università Cattolica e molte altre attività lo vedono in prima linea tanto da portarlo il 6 aprile 1923 alla presidenza della Gioventù Cattolica bresciana. In tale incarico organizza il Congresso Regionale Lombardo (Brescia 1-6 maggio 1923). Ma nel settembre 1924 incappa in un incidente. Alla richiesta del Commissario Regio di una partecipazione della Gioventù Cattolica alla festa del XX Settembre, data che ha «ormai perduto ogni vuoto carattere settario», vi aderisce; ma le riprovazioni dell'"Osservatore Romano", della "Civiltà Cattolica", di dirigenti cattolici lo costringono il 4 dicembre 1924 a rassegnare le dimissioni di presidente, rimanendo nella carica di vice presidente della Federazione Giovanile Leone XIII.

Negli stessi mesi si consuma anche la sua militanza politica nel P.P.I. dove ha assunto fin dal 1919 decise posizioni sulla aconfessionalità del partito, sulle battaglie sindacali di Guido Miglioli e dei suoi, sul voto delle donne, ecc. Accetta di essere eletto consigliere comunale di Cellatica, partecipa al Congresso nazionale di Napoli, ma fin dall'ottobre 1921, in vista del Congresso di Venezia del P.P.I., presenta con Leonzio Foresti, alla sezione cittadina, un ordine del giorno in favore di una collaborazione con i socialisti per una più netta resistenza al fascismo e una più decisa politica sociale. Coerentemente si impegna in un'intensa azione sociale fra studenti e operai. Decisa è la sua battaglia al fascismo, dal quale riceve attacchi e anche minacce e dal quale deve registrare nel 1922 e poi nel novembre 1926 la devastazione della sede della Fionda e delle associazioni cattoliche di Palazzo S. Paolo. Nel tentativo di tener viva l'attività del movimento cattolico nella società italiana distinta dal Partito Popolare, polemizza vivacemente con l'on. Longinotti e fino al novembre 1926 continua l'attività nel movimento studentesco e della Fionda. Sacrificata questa dalla violenza fascista, continua ancora per qualche anno, nonostante gravi prove morali, a far parte della Giunta Diocesana e del Consiglio Nazionale dell'A.C. che lascia poi nel novembre 1934 con la presidenza nazionale di Gedda. Tuttavia continua come "umile miles Christi" ad interessarsi del Movimento Laureati cattolici. Numerose iniziative, conferenze, pubblicazioni lo accompagnano, mentre le cure familiari e quelle professionali scandiscono anni di nascondimento. Avvocato, gode la considerazione di maestri del diritto come Piero Calamandrei. Ma continua a studiare e a sperare, anzi, come scrive in "A la soglia dei problemi sociali." "a meditare per operare" a "meditare e studiare con mente libera da ogni pregiudiziale interessata (...) con cuore aperto a tutte le giustizie e a tutte le generosità". La meditazione e l'attenzione al momento storico lo orientano verso don Primo Mazzolari, Giorgio La Pira, e Parte Guelfa di Malvestiti.

Nel 1941 è attivo nella sempre più decisa resistenza al fascismo. Con don Agazzi, mons. Almici, Enrico Roselli, Enrico Testa studia un piano di apostolato negli stabilimenti; con Vittorio Gatti, con i librai cattolici si spende per progetti editoriali, per le fiere del libro cattolico; con don Daffini, p. Manziana organizza un ciclo di conferenze che vede tra gli oratori La Pira, Marconcini, p. Cordovani, Fanfani, Corsanego ecc. Tiene conferenze, scrive su l'"Italia" di Milano, "La Voce Cattolica", ecc., diffonde manifestini di propaganda. Il 25 luglio 1943 la caduta del fascismo lo trova pronto. Il 26 luglio in una riunione nella canonica di S. Faustino, presenti militanti del movimento cattolico, viene incaricato dell'organizzazione cattolica in campo politico e sociale, dei rapporti con gli altri partiti. L'attività di progettazione si fa intensa.

Dopo il crollo dell'8 settembre 1943, avvertito della possibilità di una cattura da parte dei tedeschi e fascisti ritornati in circolazione, a Zone, dove si rifugia, incontra i primi resistenti. Pregato da p. Manziana di scendere in città, qui è fra gli organizzatori della resistenza attiva anche se vede il pericolo di imprudenze e di fughe in avanti. Molti gli incontri con personalità non solo bresciane, alla ricerca di quadri del movimento cattolico politico, sociale, amministrativo. Per il 4 novembre 1943 lancia un appello alla resistenza; pochi giorni dopo appoggia un colpo di mano per assicurare al movimento clandestino la radiotrasmittente dell'Istituto Moretto che egli ospita in casa sua a Cellatica. Sempre più sospettato viene, nel dicembre, arrestato e trattenuto 48 ore in Questura. Tuttavia accetta di incontrare l'esponente più in vista del fascismo repubblicano, Innocente Dugnani, al quale ribadisce l'impossibilità di qualsiasi collaborazione. Le energiche proteste degli avvocati e magistrati della città, assieme a quella del vescovo, lo riportano, con scuse, in libertà e l'assicurazione che simili incresciosi errori giudiziari non si sarebbero ripetuti. Ma quando il suo nome viene trovato assieme a quelli di p. Carlo Manziana, Mario Bendiscioli, don Giacomo Vender, Pietro Feroldi in un elenco, trovato addosso a Peppino Pelosi (v. Pelosi Giuseppe), di persone disposte a collaborare a Radio Brescia Libera che dovrebbe svolgere propaganda antifascista, viene il 6 gennaio 1944 definitivamente arrestato assieme ad altri. Dopo i primi interrogatori e pestaggi, il 28 gennaio viene trasferito a Verona nel forte di S. Mattia e poi a quello di S. Leonardo, e il 29 febbraio viene trasferito in Germania. Passa dal campo di concentramento di Dachau a quello di Mauthausen e poi l'1 gennaio 1945 a quello di Gusen, dove consumato da stenti e dal duro lavoro, si spegne il 24 gennaio "per debolezza cardiaca".

Nell'ottobre 1969 gli veniva dedicato un nuovo villaggi a Gussago. Per delibera del Consiglio comunale di Brescia gli è stata intitolata una via (v.). Alla sua memoria e a quella di Franco Gerardi è dedicata la lapide sotto il porticato interno del palazzo della Corte d'Appello con la seguente iscrizione: «A perenne memoria / dei colleghi / che diedero la vita / per la resurrezione d'Italia / l'ordine degli avvocati e procuratori / ricostruito in libertà / ne scolpisce qui i nomi e il sacrificio / monito ed esempio / per l'avvenire / avv. Andrea Trebeschi / morto in campo di concentramento a / Mauthausen il 24 gennaio 1945 / dr. Franco Gerardi / fucilato dai tedeschi a Limone del Garda / il 28 giugno 1944».
Fu collaboratore del "Cittadino di Brescia", dell'"Italia" (Milano), di "Voce Cattolica" e "Voce del Popolo".

HA PUBBLICATO: "Idealità nostre" e "Contrasti" assieme a Gianni Naldi, edito dall'Associazione Studenti Bresciani "A. Manzoni" (Brescia, Fratelli Geroldi, 1918, 43 p.); "Luci e riflessi di vita giovanile" (Brescia, Tip. Ed. Morcelliana, 1924, 142 p.); "Preghiere e pensieri di vita cristiana" (Brescia, Tip. Pavoniana, II edizione, 1936, p. 279, in 8°); "Le casse rurali ed artigiane" (Brescia, Tip. Pavoniana, 1938, p. 227, in 8°); "L'uomo di tutti i tempi" (Brescia, Scuola Tip. Opera Pavoniana, 1938, 27 p.); (A.T.) "La terra non inganna" (Milano, Ed. Ancora, 1941, 256 p.); "A la soglia dei problemi sociali" (Brescia, Queriniana, 1943, 31 p.); "Alcuni pensieri del nonno Andrea per ricordare il giorno del Battesimo" (s.i.t., 23 giugno 1963); "A mio figlio nel giorno della sua prima Comunione: oggi, per domani e sempre" (Tip. Morcelliana, 1932). Traduzione: G. e P. Mornand, "La dolorosa infanzia. Romanzo" (Brescia, Tip. O. Rovetta, 1934, 288 p.).

 

 

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