Maurilio Lovatti

 

Introduzione alle Memorie di Ugo Pozzi

 

 

Le memorie di Ugo Pozzi costituiscono uno straordinario documento per ricostruire un segmento significativo della storia del mondo cattolico bresciano, nell'arco del ventennio tra il 1938 e il 1957. Completate nell'ottobre del 1991, sono rimaste per un quarto di secolo nell'archivio personale di mons. Antonio Fappani, dove solo qualche storico ha potuto consultarle. Chi scrive le ha ampiamente utilizzate, sia per il volume Giacinto Tredici, vescovo di Brescia in anni difficili (Brescia 2009), sia per diverse ricerche sul mondo cattolico bresciano nel dopoguerra.

Ugo Pozzi, nato a Cortine di Nave il 7 ottobre 1923, entra giovanissimo, non aveva ancora quindici anni, nel movimento giovanile (la Gioventù Maschile) dell'Azione Cattolica. Siamo nel 1938, nella parrocchia cittadina di S. Francesco da Paola nella zona di Porta Venezia, il cui parroco è don Stefano Pebejani, convinto antifascista. L'anno successivo Pozzi sostiene gli esami di Stato che allora erano previsti alla fine della quinta ginnasio. Alla fine di dicembre del 1940, a guerra già iniziata, Pozzi prende il brevetto di pilota, divenendo il più giovane pilota d'Italia. Nel 1941 s'iscrive alla facoltà di medicina dell'Università di Padova: la sua presenza a Brescia sarà limitata ai fine settimana e ai periodi di sospensione delle lezioni universitarie fino al settembre del 1943.

Verso la fine di ottobre del 1942 inizia un suo diretto coinvolgimento nel gruppo dirigente dei giovani d'Azione Cattolica: mons. Giacinto Tredici, vescovo di Brescia, decide di distaccare la Gioventù maschile d'AC dalla Federazione Leone XIII, diretta da mons. Lorenzo Pavanelli, che continuerà ad occuparsi degli oratori e del coordinamento delle attività catechistiche a livello diocesano.[1] Questa scelta, che allora apparve solo come un miglioramento organizzativo, in realtà avrà conseguenze significative, perché il movimento giovanile d'AC sarà protagonista, in ambito religioso e politico, sia negli anni della resistenza, sia in quelli della ricostruzione.

Don Domenico Bondioli, allora curato nella parrocchia di S. Francesco da Paola è nominato dal vescovo assistente spirituale diocesano del movimento giovanile d'AC. In quei giorni mons. Tredici rinnova completamente il gruppo dirigente diocesano del movimento giovanile. Presidente diocesano è nominato Francesco Brunelli, che però in quel periodo era stato chiamato alle armi, mentre Ugo Pozzi è scelto quale vice presidente. A soli 19 anni Pozzi si trova quindi a rivestire inaspettatamente e quasi improvvisamente un ruolo di grande responsabilità, stante l'assenza prolungata di Brunelli a causa della guerra.

Il movimento giovanile rimane in Via S. Chiara, ma ha or­mai uffici propri. Ha un suo primo segretario effettivo nella persona di Francesco Falsina (che poi diverrà sa­cerdote).[2] In quel periodo l'Azione Cattolica bresciana è presieduta da Lodovico Montini, fratello del futuro Papa Paolo VI, e diretta di mons. Giuseppe Almici, stretto collaboratore del vescovo. Il gruppo dirigente dell'Azione Cattolica bresciana aveva un orientamento nettamente antifascista, che non poteva però esplicitamente sostenere nelle occasioni pubbliche per evidenti ragioni di prudenza nei confronti della repressione del dissenso tipica della dittatura fascista. Accanto ad un fermo convinto atteggiamento antifascista dell'AC, che riteneva il fascismo responsabile della grave e irresponsabile scelta di entrare in guerra, è riscontrabile un atteggiamento molto più prudente e rassegnato della maggioranza del clero bresciano, che per timore o conformismo si astiene, con qualche rara eccezione, dal criticare anche in occasioni non ufficiali la scelta dell'intervento in guerra. Al punto che anche le autorità fasciste appaiono diversificate nel valutare l'atteggiamento del mondo cattolico verso la guerra.

Infatti, nelle settimane immediatamente seguenti all'entrata in guerra dell'Italia, il nuovo Prefetto di Brescia, Vincenzo Ciotola, scrive più volte al Gabinetto del Ministero dell'Interno, per informare sulle reazioni del clero alla guerra; in particolare, il 13 luglio afferma:

"Come è noto a codesto Ministero […] si era andato diffondendo nel Clero di questa Provincia una tendenza di opposizione al fascismo, che non poteva essere ignorata o che, ove non fosse stata infrenata, poteva divenire allarmante. Insofferenze e resistenze erano state riscontrate sempre, a quanto mi dicono, anche nel passato: ma soltanto recentemente queste avevano assunto il carattere di vera opposizione che si rivelava in numerosi episodi che, anche se non assumevano un carattere concreto, rivelavano però un animus di acida critica e di nascosta avversione. I numerosi casi espostimi dagli organi informatori richiamarono subito la mia attenzione tanto più che soltanto all'inizio dell'anno corrente era stata disposta una accurata sorveglianza e richiesto un più preciso controllo. Già nella visita ufficiale fattami dal Vescovo, ebbi a richiamare la sua attenzione sul fenomeno riscontrato. Egli, sebbene negasse e tentasse di attenuare la portata dei casi espostigli, convenne nella necessità di una maggiore comprensione o di un più diretto controllo da parte del clero dipendente. Ma purtroppo giornalmente mi venivano riferite notizie di propalazione di fatti rilevati da radio estere e di precisazioni di avvenimenti in senso non conforme alla perfetta verità, da parte di sacerdoti. E perciò detti ordine al questore di procedere subito in ogni caso per por termine ad una tendenza che contrastava con il più elementare senso di disciplina."[3]

Segue un nutrito elenco di sacerdoti diffidati ai sensi della legge di Pubblica Sicurezza. Gli uffici della Prefettura compilano varie liste "sui vari incidenti sollevati dai preti" nelle quali, oltre ai padri della Pace e a mons. Paolo Guerrini, ripetutamente citato, troviamo ad esempio sacerdoti che si sono rifiutati di far suonare le campane delle chiese "in segno di giubilo" il 10 giugno (come don Giuseppe Serlini, parroco di Castegnato) o che si rifiutano di benedire i gagliardetti del sindacato fascista in mancanza dell'impegno scritto a non organizzare feste da ballo.[4]

Tuttavia, il Questore di Brescia, Carlo Alberto Rossi, risulta molto meno preoccupato, almeno negli atti ufficiali, infatti comunica al Ministero dell'Interno, in modo molto sintetico, che: "Il clero e la stampa cattolica si limitano al campo religioso."[5] Tale valutazione è confermata periodicamente anche nei due anni successivi, con frasi molto simili o con la ripetuta constatazione che "Il clero non ha svolto alcuna attività politica degna di rilievo."[6] La divergenza tra il punto di vista del Prefetto e quello del Questore è probabilmente dovuta al fatto che il secondo si basa prevalentemente su atti ufficiali (bollettini parrocchiali, diffide ed eventuali denuncie penali) mentre il Prefetto utilizza informazioni più meticolose, che prevengono dai Carabinieri e dalla Milizia fascista. Tuttavia i casi di pubblica e aperta critica alla guerra sono molto rari. L'atteggiamento negativo di gran parte del clero verso la guerra non si manifesta in occasioni pubbliche, come le prediche, sia per timore di provvedimenti delle forze dell'ordine, sia perché in molti sacerdoti era radicata la convinzione che la lealtà e l'obbedienza alla legittima autorità politica fosse un preciso dovere del cristiano. Tra le poche eccezioni è da segnalare un'omelia di don Pietro Lancini, curato di S. Andrea di Rovato, che afferma: "Il Papa, i preti e i veri cattolici sono gli unici che non vogliono la guerra; i Capi del governo e tutti gli altri sono guerrafondai ai quali non bisogna credere."[7] Don Lancini è diffidato dalla Questura il 14 gennaio 1941.

Nel dicembre del 1940 è sequestrato un numero della Voce Cattolica. Tredici scrive ai due sacerdoti redattori (don Giuseppe Tedeschi e don Domenico Bondioli) una lettera riservata, per manifestare loro tutto il suo appoggio e incoraggiamento:

"Ho sentito con dispiacere che il nostro caro settimanale è stato seque­strato. Sono però contento, - e ve lo dico con fierezza, - che la vostra col­pa sia stata di aver insegnato la carità evangelica. C’è tanto bisogno di un po’ di carità e di bontà in mezzo a tanta violenza, odio e distruzioni. Una voce cattolica non può dispensarsi da questa direttiva. Appunto per questo, però, vedete di conservare viva questa voce e aperta questa cattedra.

Non direte mai una parola di tutto quello che, ad animi non sereni e de­siderosi di prendervi in fallo e di chiudervi la bocca, possa dare occasione di accusarvi, sia pure falsamente, di mettervi in contrasto colla tensione in cui tutti si è in questo momento, per le sorti delle guerra. Fin quando è possibile...Che il Signore vi aiuti nel compito difficile, ingrato. Il vostro Vescovo vi segue con affetto, contento del vostro animo generoso, e riconoscente del li­vello a cui avete portato questo foglio, che ha fatto molto bene, e deve farne ancora."[8]

In quest'unico accenno alla guerra, trova conferma la preoccupazione del Vescovo, già manifestata in precedenza, di ricordare a tutti i doveri morali di carità e solidarietà, che nei momenti difficili sono ancor più utili ed auspicabili per il bene comune, rinunciando ad ogni valutazione politica della guerra, lasciata alle determinazioni dello Stato.

Nei primi tre anni di guerra, giungono al Vescovo diverse lamentele sui comportamenti del clero locale da parte di autorità fasciste: ad esempio, il 4 novembre del 1940 il Podestà di Roncadelle segnala "attacchi dal pulpito" ai gerarchi fascisti; il 31 ottobre del 1941 il "Gruppo rionale Mussolini" accusa don Primo Adami, curato di S. Lorenzo in città, di "prediche antifasciste"; il Prefetto il 6 maggio 1942 informa che don Giovanni Polinotti, parroco di S. Zeno, "turba l'ordine pubblico" e ne chiede la rimozione, e il 6 giugno chiede provvedimenti contro don Santo Delasa, parroco di Gianico, per la sua "nota avversione al fascismo".[9]

Nel frattempo, in prospettiva di un possibile crollo della dittatura fascista, l'associazionismo cattolico muove i primi passi di una nuova prospettiva politica. Nel 1941 si tiene a Villa S. Filippo di Brescia un convegno clandestino per la riorganizzazione del movimento politico cattolico, a cui partecipano esponenti di spicco a livello nazionale come Achille Grandi e Pietro Malvestiti.[10]

Palazzo S. Paolo, sede dell'AC, la Pace e La Scuola Editrice divengono centri di raccolta di oppositori cattolici al fascismo, ben prima della caduta di Mussolini e dell'armistizio.

Ugo Pozzi, sempre attento osservatore della realtà lui vicina, così ricorda la situazione nei primi due anni di guerra:

"L’A.C. era fon­damentalmente antifascista in tutte le sue strutture perife­riche e nella grande maggioranza dei dirigenti e soci. Vedeva la realtà politica con diffidenza ed apprensione; dopo il 1940-41 nacque anche una certa insofferenza che si manifestò con la ricerca di conoscenze e informazioni e con progressivi atteggiamenti di critica, magari cauta ma costante, culturalmente più viva e più intensa in certe zone […] ma comunque largamente diffusa. Il fascismo locale era cosciente di que­sta situazione che… teneva d’occhio, cercando di inserirsi in qualche modo (vedi, ad esempio, i tentativi del federale Feliciani, dichiaratosi “cattolico” e ascritto al Terz’ordine francescano...) Sapevano di non potersi fidare dell’adesione e della sincerità degli iscritti all’AC: cercavano ad ogni modo, di coinvolgere cattolici qualificati con incarichi e funzioni pubbliche, con non molto successo, per il vero, per farsene una copertura e tranquillizzare l’opinione pubblica."[11]

Un'indicativa presa di distanza pubblica verso il Regime, da parte della Curia vescovile di Brescia nei primi tre anni di guerra, è la commemorazione, pronunciata da don Pasini, vicario del Vescovo, in occasione del decennale della morte del precedente vescovo, mons. Giacinto Gaggia. Il pubblico discorso solenne è tenuto nel palazzo vescovile giovedì 20 maggio 1943. Senza mezzi termini don Pasini si riferisce alle persecuzioni fasciste subite dalle organizzazioni cattoliche e afferma che mons. Gaggia:

 "Ebbe dolori: e quando si vide, in una notte triste e tenebrosa, manomessa brutalmente la sede del suo giornale che aveva difeso per tanti anni, sì nobilmente e fortemente la verità, quando vide sciolte arbitrariamente le associazioni giovanili che avevano formato l'oggetto delle sue cure paterne ed erano la gloria della diocesi, ne soffrì intimamente che parve precipitare anche in salute.[…] Non si chiuse in un avvilimento, ma forte della sua autorità, esortò i suoi sacerdoti ad intensificare il loro zelo nel coltivare lo spirito di pietà, specie nella gioventù che egli aveva sempre riguardata come la più cara speranza della Chiesa e della patria."[12]

Il testo integrale della commemorazione è pubblicato nel numero di giugno del Bollettino ufficiale della diocesi. Sulla Voce Cattolica ne sono pubblicati ampi stralci, compreso quello citato, il più critico sulle persecuzioni fasciste verso la stampa cattolica.[13]

Solo qualche mese prima, a conferma di un ritrovato protagonismo culturale, la curia vescovile aveva proposto un ciclo di conferenze sul tema del messaggio sociale di Pio XII, che "riscossero tanto successo" e "la città ne fu come risvegliata da un ventennale torpore".[14] La serie di confe­renze, organizzate da don Luigi Daffini, padre Carlo Manziana e Andrea Trebeschi, e tenute in Episcopio tra l'autunno del 1942 e la primavera del ‘43 affrontano il concet­to cristiano di persona e argomenti di sociologia e filosofia; sono invitate personalità come p. Mariano Cordo­vani, Giorgio La Pira, don Primo Mazzolari, Igino Giordani, Livio Labor, Federico Marconcini, Giuseppe Lazzati e Amintore Fanfani.[15] Ugo Pozzi, che ne è testimone diretto, ritiene che queste conferenze "furono una precisa presa di posizione pubblica e una sfida ed ebbero una grandissima partecipazione, molto significativa per l'epoca, con gente persino nel cortile e nella piazzetta antistante."[16]

Il notevole influsso di queste conferenze è ricordato da vari testimoni; particolarmente indicativo è il ricordo di Teresa Venturoli, che nel 1944 diverrà presidente diocesana della Gioventù femminile d'AC:

"Dal ‘41 insegnavo filosofia al Liceo scientifico Calini. Ma fu solo ai primi del ‘43, in piena guerra, con tre fratelli richiamati, che dalle conferen­ze del prof. Marconcini tenute nel salone dell’Episcopio sul fascismo, o piuttosto sul rapporto persona – Stato, che capii gli errori della dottrina fascista. La mia generazione non aveva sperimentato mai una società democratica: il ventennio fascista non ci aveva impedito di vivere intensamente la no­stra vita spirituale e morale. L’educazione sociale ci manca­va, sostituita dalle parate, manifestazioni esterne che si subivano passivamente. Bisogna ricordare che l’autorità era norma assoluta e dominan­te sia in famiglia che a scuola, nella Chiesa e nella società e la nostra sottomissione esterna non ci impediva di costruire all’interno un nostro modo personale di pensare e di riflettere. La formazione cristiana certo non era integrale, almeno per questi aspetti, ma non ci impedì di partecipare alla Resistenza, che a Brescia ebbe nell'AC i suoi più generosi artefici."[17]

In questo contesto così difficile e drammatico inizia la paziente azione di Ugo Pozzi per ricostituire nelle realtà parrocchiali della diocesi il movimento giovanile; in poco più di un anno, dall'ottobre 1942 alla fine del 1943, ogni fine settimana (gli altri giorni è a Padova per gli studi di medicina), spesso insieme a don Bondioli, incontra i vicari foranei nelle zone e i curati delle singole parrocchie ove in precedenza c'erano strutture o gruppi della federazione Leone XIII. Chiude i gruppi che esistevano solo sulla carta, censisce quelli effettivi e cerca si rivitalizzare le iniziative e i gruppi che erano in crisi per vari motivi, principalmente per la chiamata alle armi della maggior parte dei giovani che le dirigevano o le coordinavano. Nonostante tutte le difficoltà oltre 70 gruppi erano pienamente attivi e funzionanti nel territorio della diocesi; quasi altrettanti erano solo costituiti, ma poco attivi. Organizza con perseveranza corsi formativi nelle zone, della durata di almeno sei domeniche consecutive, con lo scopo di formare nuovi dirigenti e giovani animatori dei gruppi parrocchiali, convinto della necessità di sostituire molti dei dirigenti locali ancora formalmente in carica, ma che avevano ormai raggiunto un età adulta. Il frutto di questa intensa attività matura rapidamente; già nel 1943 sono attive nella diocesi circa 220 associazioni giovanili

Mentre questo lavoro di ricostruzione del movimento giovanile è in atto, giunge quasi improvviso il 25 luglio 1943, il voto del Gran Consiglio del Fascismo che provoca la caduta di Mussolini. A Brescia, accanto alle diffuse manifestazioni popolari di giubilo, simili a quelle che si verificano in ogni altra città d'Italia, troviamo anche nel mondo cattolico qualche riflessione critica. Ugo Pozzi ne riferisce in queste memorie con molto realismo, senza nessuna facile idealizzazione:

"…Venne il 25 luglio, con tutto il contorno delle vistose incertezze e contraddizioni tipiche della «furbizia» italiana. Alle manifestazioni di giubilo partecipammo quasi stancamente: d'accordo con don Bondioli decidemmo di non fare alcun cenno né commento al fatto come GM, e credo che fummo forse la sola presidenza diocesana che si astenne dall'intervenire con deprecazioni e peana. Ci preoccupò fin dai primi giorni, invece, lo svolgersi degli avvenimenti in modo tanto dilettantesco e improvvisato, che suscitava apprensioni e previsioni oscure per il futuro immediato."

In questo periodo molto intensa fu l'azione dei laici per porre le basi di una presenza politica dei cattolici: la sera del 27 luglio nella canonica di S. Faustino si tiene il primo incontro, a cui partecipano tra gli altri Longinotti, Astolfo Lunardi, Andrea Trebeschi, Leonzio Foresti, Guido Salvadori; Bruno Boni lo ricorda così:

"Dopo il 25 luglio, si era svolta una prima assemblea degli amici impegnati, o che intendevano impegnarsi, nell’atti­vità politica. Presiedeva la riunione Mons. Luigi Fossati. Alla fine era stato approvato un mio ordine del giorno, più di natura filosofica e sociale che politica, per la mancanza di esperienza. Ma già allora si dava valore centrico alla nostra azione politica nel concetto della perso­na, nella difesa della libertà politica - quella ontologica richiede ben altro discorso - per realizzare, nella giustizia, le migliori condizioni di convivenza civile, nella ferma convinzione che la politica deve soddisfare i bisogni materiali, lasciando all’individuo la scelta spirituale, quella che dà piena realizzazione alla persona. In occasione di quell’assemblea era giunto da Roma G. M. Longinotti, che aspirava ad es­sere il leader della nuova formazione politica bresciana. Nel contempo, il nostro Lodovico Montini presumeva di avere meriti per lo stesso compito. Tra i due era sorto un litigio che era giunto al punto di agitare le sedie."[18]

A Trebeschi è comunque affidato il compito di mantenere i rapporti con gli altri partiti e di curare l'organizzazione interna.

Nell'ultima decade d'agosto, a Villa S. Filippo in città, si svolge un convegno di tre giorni dei giovani d'AC, con la partecipazione di don Arturo Paoli di Lucca, vice assistente centrale dei giovani, di Lodovico Montini, presidente diocesano degli uomini d'AC, e di altri dirigenti cattolici. Ugo Pozzi nelle memorie ricorda che Montini, ben informato da Roma, illustrò con chiarezza la situazione politica nazionale, e si dice convinto che "la Tre Giorni Dirigenti ebbe un posto significativo nell'orientare e definire le scelte e i ruoli della GM d'AC bresciana per tutto il periodo duro e oscuro che seguì fino alla Liberazione."

Il 29 agosto si riuniscono a Brescia, all'albergo Eden, dopo la messa celebrata nella chiesetta delle Consolazioni, i rappresentanti democristiani di Verona, Parma, Milano, Cremona, La Spezia, Genova, Pavia, Torino, Como, Bergamo e Novara, con la presenza dell'on. Giuseppe Micheli e di Stefano Jacini, poi senatore e Ministro.[19] Segretario della riunione è Albino Donati; tra i bresciani sono presenti Lodovico Montini, Astolfo Lunardi e Vincenzo Bernardelli.

Il 5 settembre 1943 a Villa S. Filippo, in Brescia, si tiene un incontro allargato (un'adunanza generale, come si diceva allora) alla quale partecipa Lodovico Montini, che lancia un appassionato appello a tutti i cattolici, invitandoli ad impegnarsi senza indugio nella vita politica attiva.[20]

Lo stato d'animo dei cattolici impegnati in ambito sociale e politico, in quei 45 giorni prima dell'armistizio, è efficacemente colto da Ugo Pozzi in queste memorie:

"Come responsabile della GM d’AC ero dentro fino al collo: ricordo riunioni di AC nel vecchio Palazzo San Paolo con le riflessioni, i commenti, le proposte conseguenti alle informazioni che filtravano dalla Segreteria di Stato vaticana attraverso mons. Montini. E ricordo gli incontri più chiaramente politici, intesi non solo a discutere e formare, ma anche a preparare orientamenti organizzativi, che si tenevano in casa Trebeschi a Cellatica, ove arrivavo in bicicletta di prima sera con i vari compagni di viaggio, ora Libero Dordoni, ora Franco Feroldi, ora Ghighi Togni, a volte Ludovico Montini e Piero Bulloni, a volte «Ciro» Bruno Boni. Andrea Trebeschi teneva le fila con la sua verve rigorosa e precisa e, se anche talvolta la discussione sulle idee poteva essere accanita, non veniva mai perso di vista l’obiettivo finale del «prepararsi a fare». Certamente si avvertiva qualche cosa di aleatorio che non era la solita percentuale di imprevedibilità che vi è in ogni proposito o programma, ma rispondeva a un che di incombente e quasi di scontato: non per questo, tuttavia, ci si lasciava andare. Si sapeva, o meglio, si sentiva che l’apparente staticità del momento era data da un equilibrio instabile e impossibile da mantenere a lungo e vi era attesa della sua rottura: in fondo, ci si preparava proprio a questo."

Arriva l'8 settembre e l'annuncio dell'armistizio. Il giorno dopo Pozzi partecipa alla riunione plenaria dei dirigenti cattolici nella canonica di S. Faustino, vero e proprio momento d'inizio della resistenza cattolica,[21] e ne traccia nelle memorie un ritratto vivace e penetrante.

Questo è sinteticamente il quadro culturale e politico in cui si inserisce l'attività di Ugo Pozzi descritta nelle prime pagine delle sue memorie. Attività che si interrompe temporaneamente nel 1944 e nei primi mesi del 1945, quando egli partecipa direttamente alle attività residenziali.

E' da notare che l'intero gruppo dirigente del movimento giovanile passa alla resistenza: oltre al presidente Brunelli, al vicepresidente Pozzi, anche Emi Rinaldini, ucciso poi dai fascisti il 10 febbraio 1945, Michele Capra e Antonio Bellocchio, per citare solo i più noti. In seguito a queste scelte, il movimento giovanile rimase praticamente privo di guida e tuttavia, come ci ricordano queste memorie, mons. Giacinto Tredici non volle sostituire i dirigenti del movimento giovanile in clandestinità perché "non voleva che un cambiamento fosse inteso come una sconfessione e si prestasse a speculazioni propagandistiche fasciste: in fondo egli era orgoglioso delle posizioni di tanti suoi giovani di GM e riteneva un bene che i dirigenti fossero con loro."

Durante la resistenza Ugo Pozzi, nell'inverno del 1944, tiene alcuni collegamenti tra gruppi partigiani bresciani e milanesi e poi entra in contatto, tramite Brunelli, col comandante partigiano Francesco Zane[22] di Salò. Pozzi racconta che Zane "mi fece trovare assunto come allievo sanitario presso la clinica chirurgica che il comando tedesco aveva apprestata a Villa delle Rose, a fianco del comando di Wolff[23] in Italia. Naturalmente con i relativi lasciapassare, il permesso di passare ore libere a casa e così via."[24] Nell'occasione Zane gli disse: "Da un ambiente così potrai portar fuori un sacco di notizie interessanti; resta inteso che ti stabilisci a casa mia". Il 24 agosto 1944 durante un rastrellamento in viale Rebuffone, Beppe Usanza,[25] giovane staffetta del gruppo partigiano di Pozzi, è catturato dalla Guardia Nazionale Repubblicana e tenta una fuga disperata, ma viene ucciso da due ufficiali della stessa. Pozzi si rende conto di essere in gravissimo pericolo e abbandona la città per andarsi a nascondere a casa Dordoni a Quinzanello, ove rimane fino alla liberazione. Partecipa tuttavia nel marzo 1945 ad un'operazione condotta da un gruppo della Brigata Perlasca delle Fiamme Verdi, comandato da Angio Zane, figlio di Francesco, all'ospedale di Salò per liberare il comandante partigiano Renato Mombelli.[26] Dopo la sparatoria, il gruppo partigiano riesce a far perdere le tracce e si rifugia in casa Zane, dove Pozzi medica e cura due partigiani feriti nell'azione. Poi accompagnato da Francesco Zane, attraverso il giardino delle Suore Ancelle, si trasferisce nell'abitazione di un altro fiancheggiatore, dove può rifugiarsi per qualche giorno, prima di lasciare Salò.

 

Oltre a fornire importanti informazioni sulla nascita del movimento giovanile d'AC, le memorie di Pozzi sono una fonte ricchissima e preziosa per meglio conoscere il carattere e l'azione di vari protagonisti del mondo cattolico bresciano, sia sacerdoti, come mons. Giacinto Tredici, don Stefano Pebejani, don Domenico Bondioli, don Giuseppe Almici, don Giacinto Agazzi e don Luigi Daffini, sia laici come Lodovico Montini, Andrea Trebeschi, Albino Donati, Bruno Boni, Libero Dordoni, Emilio Franchi, Carlo Viganò e tanti altri, poiché Pozzi descrive gli eventi ai quali ha partecipato o è stato testimone con molta franchezza e immediatezza, senza diplomazia e senza nemmeno indulgere ad alcuna forma d'idealizzazione o di retorica.

Ma non è solo per questi motivi che le memorie di Ugo Pozzi sono interessanti e preziose. Tra le righe, non esplicitamente tematizzate, troviamo infatti alcune piste di riflessione molto stimolanti, che per certi versi sono ancora attuali. Tra le tante, ne possiamo individuare almeno tre particolarmente significative:

1) la chiarificazione del profondo dissenso culturale e politico tra l'orientamento dell'Azione Cattolica bresciana e le posizioni della dirigenza nazionale, e in particolare di Luigi Gedda;

2) la ripetuta sottolineatura delle difficoltà che incontravano coloro che intendevano impegnarsi in ruoli di responsabilità e non appartenevano al mondo relativamente chiuso delle famiglie tradizionali del mondo cattolico bresciano (l'establishment cattolico, come lo chiama Pozzi);

3) l'individuazione remota di alcune ragioni che possono spiegare il declino dell'egemonia cattolica che si manifesterà negli anni Settanta, ma che già si potevano intravedere nell'immediato dopoguerra.

 

Il dissidio con l'AC nazionale e con Luigi Gedda

 

Pozzi racconta come nella primavera del 1948, in occasione dell'ottantesimo anniversario della GIAC (Gioventù italiana di AC) era stata ipotizzata dal prof. Luigi Gedda[27] e dalla presidenza centrale una manifestazione nazionale a Roma nelle vacanze pasquali, quindi prima delle elezioni, in contrasto con l'orientamento comunemente assunto in precedenza dai presidenti diocesani della GIAC che avevano concordato di celebrare l'anniversario a settembre del 1948. Allora i giovani d'AC nella diocesi di Brescia erano circa 20 mila.

Ugo Pozzi, appoggiato da tutto il gruppo dirigente del movimento giovanile e da don Bondioli, è fermamente contrario all'ipotesi, che appariva come un tentativo di strumentalizzare i giovani d'AC a fini elettorali, e su suggerimento del Vescovo, si reca a Venezia a conferire con il card. Adeodato Piazza,[28] che presiedeva la Commissione episcopale per l'AC. Successivamente i giovani predispongono una lettera da inviare a tutti i Vescovi italiani affinché facciano sentire la loro voce contro la strumentalizzazione politica della GIAC. Ugo Pozzi riferisce che mons. Tredici non disse di no, ma si riservò l'autorizzazione dopo aver controllato il testo della lettera. Il vescovo la lesse e rilesse con calma, apportò un paio di correzioni e una piccola aggiunta di sua mano, poi gliela riconsegnò dicendo: «Va bene, mandatela con questi cambiamenti e ricordate che agite sotto la mia responsabilità e con la mia autorizzazione.» Non era importante ciò che aveva modificato, ma quello che aveva aggiunto, che suonava: «…sentito il nostro Ordinario diocesano mons. Giacinto Tredici e per suo mandato…»

Tredici appoggia quindi pienamente la posizione dei giovani. Scrive Onger, riferendosi a questa lettera ai Vescovi: "Una lettera che fece tremare le sedie dei dirigenti, ma fece trionfare la loro tesi, grazie anche alla preziosa difesa di mons. Tredici."[29] Alla fine Gedda fu costretto a posticipare a settembre il convegno nazionale dei giovani a Roma.

Il dissidio tra Gedda e l'orientamento prevalente nel movimento giovanile, sempre presente sottotraccia, diverrà nuovamente esplosivo nel 1954. Infatti il 16 aprile il dott. Mario Rossi, presidente centrale dei giovani d'AC, scrive ai Vescovi di tutta Italia, per rendere note le sue dimissioni dall'incarico "per profonde divergenze col presidente generale" d'AC, cioè con il prof. Luigi Gedda.[30] Qualche mese prima, il 27 gennaio, Rossi aveva inviato la lettera di dimissioni dalla presidenza nazionale della GIAC a mons. Montini, Sostituto alla Segreteria di Stato; la goccia che aveva fatto traboccare il vaso di un lungo contrasto con Gedda erano state le dimissioni imposte a don Arturo Paoli, vice assistente centrale dei giovani, in seguito ad un'intervista da questi concessa al settimanale L'Europeo, nella quale il sacerdote aveva sostenuto un ruolo maggiore dei laici nella Chiesa ed aveva affermato che "i giovani non vogliono essere di destra".[31] Mons. Montini, che condivideva gran parte delle critiche di Rossi alla linea di Gedda, aveva però cercato di mediare, bloccando la diffusione della lettera di dimissioni. E' stato addirittura ipotizzato che l'atteggiamento di Montini su questa vicenda abbia suscitato "le perplessità e la sfiducia del Pontefice",[32] contribuendo all'allontanamento di Montini da Roma. Nel mese di marzo, a Castellamare di Stabia era stata formata una Giunta comunale frutto di un'alleanza tra DC, monarchici e missini, che era stata fortemente criticata dai giovani. L'episodio induce Rossi a rompere gli indugi e a rendere pubbliche le dimissioni,[33] anche se le ragioni del dissidio non sono soltanto politiche, ma riguardano il ruolo stesso dei laici nella Chiesa e nella società (in particolare Rossi e i giovani sono favorevoli ad una pastorale "d'ambiente", sul modello francese, con momenti formativi differenziati per studenti, operai, contadini, ecc, mentre il modello tradizionale, difeso da Gedda, articolava le attività per classi d'età; inoltre la GIAC auspica un ruolo più attivo ed autonomo per il laicato).

La presidenza di Rossi era stata molto breve, meno di due anni, e fin dall'inizio si era caratterizzata per il sostegno dato alla tesi degasperiana dell'autonomia dei laici cattolici nelle scelte politiche. Scrive Rossi, in aperta polemica con Gedda:

"I giovani vogliono che la politica si faccia con scelte politiche e non con scelte religiose: la religione deve ispirare la politica e non sostituirsi ad essa. Perciò i laici facciano i laici a loro rischio personale senza usare la Chiesa a sostegno di una tesi di partito."[34]

Questo punto di vista è perfettamente in linea con la posizione assunta di Tredici nel 1948 e poi anche successivamente,[35] apertamente critica nei confronti della linea di Gedda e del tentativo di "trascinare anche l'AC direttamente nella politica di partito".

E Tredici ribadisce queste sue convinzioni anche nel 1954, quando in seguito alla diffusione della notizia delle dimissioni di Rossi, riportata con grande risalto dai quotidiani nazionali del 18 aprile, mons. Federico Sargolini,[36] assistente centrale della GIAC, scrive a tutti gli assistenti diocesani per negare che le dimissioni di Rossi siano dovute a motivi politici, e afferma che:

"E' l'ora di dare ancora una volta la prova di una disciplina senza riserve e di una fedeltà assoluta alla Chiesa. La gioventù con i suoi 560.000 soci si stringa con amore filiale attorno al Papa ed ai Vescovi, come i primi credenti si strinsero compatti nel Cenacolo attorno a Pietro e agli apostoli, sotto lo sguardo materno di Maria, formando un cuore solo ed un'anima sola."[37]

Il 24 aprile, sulla Voce del Popolo e quindi con l'autorizzazione del Vescovo, è pubblicato un contributo di Rossi, intitolato Nei momenti difficili stiamo ancorati alla Madonna. Il presidente dimissionario dei giovani, con tono appassionato, graffiante e combattivo, scrive:

"Quando nostalgici di ieri e dittatori di oggi, sotto etichette diverse e affermando la loro sfiducia nell'uomo, insidiano la libertà e in nome della libertà si preparano a toglierla, noi ci prepariamo a difenderla e invitiamo tutta la gioventù a farsi portatrice di questo insostituibile valore umano ed a unirsi a noi per abbattere tutte le insidie che possano sminuire l'affermazione di questo ideale: l'ignoranza, lo scadimento del senso morale nella vita pubblica e privata, l'ingiustizia sociale. E questo in nome di tutti coloro che per una città di uomini liberi hanno sofferto fino a martirio."[38]

Una settimana dopo, Tredici scrive al cardinale Adeodato Piazza, presidente della Commissione episcopale che sovrintende all'AC,[39] e dopo aver assicurato che i giovani bresciani dell'AC non sono mai venuti meno ai doveri di disciplina e obbedienza all'autorità ecclesiastica, esprime con franchezza alcune sue valutazioni sulla vicenda:

"Non posso nascondere, però, che le dimissioni del dott. Rossi, e le circostanze ed i commenti che l'accompagnarono, hanno dato occasione, nei nostri dirigenti e nei gregari, ad un disagio certo spiacevole, specialmente nei riguardi del Presidente Generale dell'Azione Cattolica [il prof. Luigi Gedda, NdA]. E' sembrato infatti che egli voglia imprimere all'Azione Cattolica un suo indirizzo personale, e che per questo tenda ad eliminare le persone che abbiano un indirizzo diverso. I nostri giovani e uomini ricordano, a questo riguardo, precedenti, come le dimissioni del prof. Carretto[40] e l'allontanamento dell'avv. Veronese. Di più, a quello che molte volte si è già detto, pare che egli eserciti un'azione politica, orientandosi ed orientando l'Azione Cattolica verso un indirizzo di alleanza cogli elementi più conservatori (a destra, come si dice); mentre ai nostri pare che l'Azione Cattolica, per i suoi statuti e per una vera ragione di necessità, non debba fare azione politica, e comunque debba orientarsi piuttosto verso un accentuato indirizzo sociale e democratico, se non vogliamo vedere allontanarsi da noi le masse popolari, a cui i nostri giovani sono vicini, e che sono continuamente insidiate dalla propaganda comunista, che si presenta come la sola a difendere gli interessi delle classi lavoratrici, e che proprio in questi momenti vuole attirare le masse dei cattolici.

Di più, il comunicato dell'Osservatore Romano[41] ha dato come motivo delle dimissioni del dott. Rossi deviazioni dottrinali. Ora i giovani e gli uomini nostri vorrebbero che fossero segnalate queste deviazioni dottrinali, anche solo perché se ne possano guardare.

A proposito poi di questo, mi permetto di osservare che anche a noi vescovi, che per il nostro ufficio e per gli stessi statuti dell'Azione Cattolica dobbiamo dirigere nelle diocesi l'azione stessa, non sono state indicate queste deviazioni. Difatti una circolare dell'Eminentissimo Cardinale Ottaviani,[42] Pro-Segretario del S. Officio, ci ha mandato una copia dell'Osservatore Romano col comunicato suddetto perché lo prendessimo come norma, ma non ha indicato quali fossero quelle deviazioni."[43]

Non può non sorprendere una critica così franca ed esplicita all'orientamento di Gedda, se si considera che il Presidente Generale dell'Azione Cattolica godeva in quel periodo della piena fiducia di Pio XII e l'aperto e totale appoggio, oltre dello stesso cardinal Piazza, anche del cardinal Ottaviani e del cardinal Pizzardo,[44] e quindi del S. Offizio, e cioè dei più autorevoli collaboratori dello stesso Pontefice. Tredici smaschera anche una certa ipocrisia dell'Osservatore Romano, che attribuisce al Rossi delle "deviazioni dottrinali", che nessuno ha saputo peraltro precisare, mentre le divergenze, oltre all'ambito politico, vertevano su questioni organizzative e pastorali, e investivano una diversa funzione del laicato, che i giovani di AC volevano più attiva e responsabile, con una visione ai tempi pionieristica, ma che poi diverrà comune con l'insegnamento del Concilio Vaticano II sul sacerdozio universale dei fedeli.

Tredici si fa costantemente e fermamente interprete dell'orientamento dei dirigenti dell'AC bresciana, vicini alle posizioni di Rossi. Scrive Giulio Colombi:

"Nel 1954 il discorso all’Assemblea diocesana dell’intera AC, al Teatro Sociale, avrebbe dovuto essere tenuto da Mario Rossi; ora, egli lasciò la Presidenza, che aveva retta per due anni, pochi giorni prima. Da noi, si decise che una allocuzione al cospicuo raduno fosse affidata a Mario Cattaneo, che sviluppò in sostanza, con la finezza e la precisione che gli sono proprie, le tesi appunto di Rossi, riscuotendo l’approvazione e il consenso degli interve­nuti, in special modo dei giovani, e, circostanza rile­vante, esplicitamente del Vescovo, mons. Giacinto Tre­dici."[45]

Lo stesso Mario Cattaneo, che collaborava strettamente con Giulio Onofri, racconta che mons. Tredici disse loro: "Io ho piena fiducia nella GIAC bresciana, essa ha agito sotto la mia responsabilità e io mi trovo d'accordo con voi", atteggiamento molto diverso da quello della maggior parte delle diocesi lombarde, ricorda ancora Cattaneo, ove vi fu invece un allineamento alle posizioni di Gedda. Il dott. Cattaneo spiega che, in quei momenti difficili, la tesi principale che i giovani difendevano era l'autonomia e la responsabilità dei laici nelle scelte politiche e sociali, ma che attraverso quest'affermazione di principio essi sentivano l'importanza di battersi contro il pericolo di una svolta a destra della DC, sotto la pressione dell'AC nazionale, che avrebbe potuto pregiudicare quegli ideali di libertà e giustizia sociale che animavano la loro azione. Sempre Cattaneo ricorda che le l'attività e le riunioni della GIAC erano sempre seguite da mons. Almici, che agiva costantemente in sintonia col Vescovo, e che periodicamente, quando lo riteneva necessario, suggeriva loro di incontrare Tredici per tenerlo aggiornato e per chiedere indicazioni.

A metà maggio il presidente diocesano dell'AC, Dino Filtri, scrive una durissima lettera al card. Adeodato Piazza, presidente della Commissione episcopale per l'Alta Direzione dell'AC, nella quale sono contenute numerose critiche alla presidenza Gedda. Scrive Filtri:

"[La Giunta diocesana] …ritiene inoltre che la Presidenza Centrale, non sempre rispetti le debite autonomie dei rami d’Azione Cattolica e delle Diocesi, inframettendosi con ordini diretti, non portati prima a conoscenza dei capi responsabili, e non tenga nel dovuto conto le istanze e le proposte riguardanti i molteplici problemi della vita e dell’attività dell’AC, che dalla periferia vengano ripetutamente espressi, sia per iscritto, sia direttamente a voce negli incontri e convegni regionali e nazionali. Tale mancata rispondenza prende un aspetto particolarmente preoccupante, quando attraverso i C.C. [Comitati Civici] o altre forme si cerca di far perno sull’organizzazione dell’AC per portare i cattolici all’azione politica, in direzioni non certo condivise dalla folla dei nostri iscritti, che, per essere gente umile e lavoratrice, non può accordarsi con tendenze autoritarie, conservatrici e retrivamente paternalistiche, già duramente sperimentate attraverso i vent’anni di fascismo. Ciò riesce poi particolarmente inviso a Diocesi, come quella di Brescia, che ha dato attraverso le forze cattoliche organizzate un altissimo contributo di uomini, di sangue e di vite alla lotta della resistenza."[46]

Dopo altre critiche relative agli aspetti organizzativi dell'AC e alla scarsa considerazione manifestata dalla Presidenza centrale verso i presidenti diocesani, Filtri conclude proponendo addirittura al Cardinale di destituire Gedda:

"Poiché d’altra parte, sia nei nostri ambienti come in altri a noi vicini, la principale causa del disagio sopra notato, vien ravvisata nella persona e nei metodi del prof. Gedda, questa Giunta Diocesana sarebbe d’avviso che potrebbe essere opportuno un avvicendamento nella carica della Presidenza Generale. Quanto sopra si è voluto dire perché riteniamo nostre precipuo dovere far conoscere alle Autorità preposte dal S. Padre alla vigilanza dell’Azione Cattolica, tutti quei fatti e stati d’animo, che, se fino ad ora non hanno dato origine ad episodi di dissensi gravi, nelle condizioni attuali diffondono però una sfiducia e un disagio che a lungo andare potrebbero anche menomare l’efficienza, l’unità, lo spirito insomma dell’AC Diocesana."

Nove giorni dopo, Filtri torna a scrivere al card. Piazza, insistendo sulla linea politica portata avanti da Gedda:

"Si è andato sempre più diffondendo presso dirigenti e soci, oltre che in vasti settori dell'opinione pubblica, la convinzione che la Presidenza centrale intenda dare all'AC un orientamento che viene interpretato come avvallo politico a situazioni vagamente di destra. Detta interpretazione di fatti e avvenimenti, ancorché fosse priva di reale fondamento, si palesa estremamente dannosa, in quanto pone l'AC in cattiva luce presso le classi più umili. Nella nostra diocesi inoltre potrebbe arrecare danno gravissimo e forse irreparabile all'intesa fiduciosa, alla collaborazione con le altre forze cattoliche operanti nei difficilissimi campi sindacale e politico che, attuata e sperimentata finora con stima e lealtà piena e reciproca, ha consentito l'esemplare superiorità dei cattolici bresciani rispetto alle forze avversarie."

In conclusione, la Presidenza diocesana:

"Rivolge un caldo appello alla Superiore Autorità perché venga smentito con parole e fatti tale ravvisato e paventato indirizzo."[47]

Tredici non si limita a manifestare a Roma le sue perplessità con delle lettere, ma interviene anche di persona. Il 12 giugno ha un lungo colloquio con il cardinal Piazza, nella sede della Congregazione concistoriale, che dura quasi l'intera mattinata. Dall'agenda sappiamo che oggetto principale dell'incontro è "il caso Rossi e la GIAC".[48] A conclusione dell'incontro, Piazza invita Tredici a pranzo, con inizio alle ore 13.15, a cui partecipa anche mons. Ernesto Camagni,[49] che ben conosceva il dott. Enrico Vinci, il successore di Rossi alla presidenza centrale della GIAC. Non conosciamo ovviamente il contenuto dell'incontro, ma tenuto conto della durata inusuale dell'incontro, che si prolunga col pranzo, e della franchezza delle critiche esposte nella lettera del 1 maggio allo stesso Piazza, possiamo verosimilmente ipotizzare che Tredici abbia sostenuto con forza le sue ragioni e le critiche a Gedda, che aveva più volte manifestato, sia negli anni precedenti, sia in occasione delle dimissioni di Rossi.

Tuttavia la vicenda non finisce in quell'occasione: circa un anno e mezzo dopo, mons. Mario Castellano,[50] assistente ecclesiastico generale dell'AC, scrive a Tredici, con una lettera personale "riservata", manifestando preoccupazione per la GIAC bresciana:

"E' stato portata a mia conoscenza la iniziativa presa dalla Presidenza Diocesana della G.I.A.C. di Brescia, in forza della quale sono state apportate modifiche di rilievo alla formula del tesseramento dei soci, con lo sganciamento dei tesserati dal giornale nazionale per favorire la nuova pubblicazione diocesana dal titolo Realtà Giovanile.

Tutto ciò la Presidenza diocesana della GIAC ha disposto con lettera agli Assistenti e Presidenti parrocchiali “per il lancio del tesseramento”, con parole nelle quali non sembrano rispecchiati i sentimenti di correttezza e di carità che senza alcun dubbio animano sia il Presidente che l’Assistente verso la rispettiva Presidenza Centrale […]. Mi consta inoltre che la iniziativa presa, non solo non fu preventivamente concordata con la medesima Presidenza Centrale, ma che ad un primo accenno fattone all’Assistente Mons. Lanave, questi escluse la possibilità di un tale[51] consenso, tenendo anche conto delle esigenze di ordine generale.

Nel segnalare quanto sopra all'E.V., e nel chiedere il Suo autorevole intervento per chiarire la situazione venutasi a creare, mi permetto di sottoporre altresì alla Sua prudente considerazione la convenienza o meno di rinnovare l’incarico di Presidente Diocesano al dott. Francesco Onofri.[52] Egli infatti non sembrerebbe nuovo ad atteggiamenti di fronda non solo in materia organizzativa, ma anche disciplinare, come apparirebbe - se sono bene informato - dal suo comportamento al tempo del caso Rossi.

La Presidenza Centrale della G.I.A.C. mentre segue con spiegabile preoccupazione la situazione della Presidenza Diocesana di Brescia, ha creduto necessario sospendere il tesseramento della Diocesi, anche per sottolineare il suo dovere di difendere l'unità strutturale dell’Organizzazione quale è stata stabilita dai Superiori."[53]

Sia pure in modo diplomatico e rispettose delle prerogative del Vescovo, mons. Castellano suggerisce a Tredici di non confermare Giulio Onofri, considerato troppo vicino a Rossi. In realtà, però, tutti i dirigenti giovanili di Brescia condividono le idee di Rossi. Scrive Colombi che la GIAC bresciana manifestava allora:

"una cordiale solidarietà con le idee di fondo che veniva elaborando sulle pagine di «Gioventù» e altrove, con un linguag­gio apparso subito a noi gradevolmente nuovo, Mario Rossi: discorso che, ridotto alla semplicità dei suoi ter­mini essenziali, mirava a mettere in guardia, con vigore virile, dalle strumentalizzazioni, si direbbe ora, che del­la GIAC si intendevano da molti operare in funzione civico-politica, per di più spesso nettamente caratterizza­ta da occulte o palesi simpatie con le destre e con i set­tori della DC propensi a «governi forti», nell’intento di rintuzzare lo slancio di conquista di comunisti e so­cialisti e di giungere anche a mettere fuori legge almeno i primi. Da noi si avvertiva con una certa chiarezza che questi propositi avrebbero finito per annullare lo sforzo ormai diuturno per giungere ad una definizione esatta della propria collocazione e della propria essenza da par­te dell’AC italiana, e per farla retrocedere, in un moto involutivo, verso lo stadio dell’Opera dei Congressi, tan­to più perentoriamente superato negli anni cinquanta, di quanto lo fosse stato negli anni in cui era stata sop­pressa da san Pio X."[54]

Il progetto di realizzare un giornale autonomo dei giovani bresciani d'AC, era stato comunicato al Vescovo da Giulio Onofri nel settembre del 1955. L'analisi di Onofri partiva dalla constatazione di un "sentimento di scontentezza" di molti giovani della GIAC nei riguardi di Gioventù, il giornale nazionale dei giovani d'AC, dovuta:

"…secondo un giudizio ormai diffuso, alla superficiale genericità dell'impostazione di contenuto di Gioventù, alla sua impossibilità di incidere realmente nelle coscienze dei lettori."[55]

Prudenzialmente Onofri aveva stabilito che il giornale giovanile fosse stampato come supplemento alla Voce del Popolo e che pertanto mantenesse "la dipendenza dal Direttore di quel giornale e quindi, in via gerarchica, alla Giunta diocesana di AC che, a nome di V. E., vigila sul settimanale diocesano." In tal modo, verosimilmente su suggerimento dell'accorto mons. Almici, i giovani si affidavano al Vescovo per fronteggiare le prevedibili difficoltà che la loro iniziativa avrebbe suscitato a Roma.

Ebbene, in questa difficile situazione, Tredici resiste fermamente alle pressioni romane e, risolta diplomaticamente la questione del tesseramento, autorizza la pubblicazione di Realtà Giovanile e soprattutto consente a Giulio Onofri di rimanere alla presidenza dei giovani fino al luglio del 1957, quando sarà sostituito da Mario Cattaneo,[56] anche lui amico di Rossi e in piena sintonia d'idee con Onofri, col quale collaborava da diversi anni, svolgendo di fatto la funzione di vice-presidente dei giovani di AC. Nella seconda metà degli anni cinquanta e nei primi anni sessanta, la GIAC di Brescia e il suo quindicinale, Realtà Giovanile, che vende circa 4.000 copie, vivono un periodo di intensa attività, d'impegno coraggioso e ricco d'entusiasmo; vi partecipano molti giovani, che poi avranno un ruolo importante nella vita sociale, religiosa e politica di Brescia e fra i quali ricordiamo: Giuseppe Camadini, Pietro Padula, Renato Papetti, Giulio Colombi, Pier Virgilio Begni-Redona, Mario Picchieri, Giambattista Lanzani, Giulio Onofri, Vasco Frati e Angelo Onger. Ricorda Giulio Colombi:

"Tra gli episodi particolarmente significativi dell’A.C. bresciana ritengo debba annoverarsi la fondazione e la continuazione per un periodo abbastanza lungo, seppure da ultimo con crescenti difficoltà, del periodico Realtà giovanile cui da principio contribuii anch’io. Un foglio, questo, molto modesto, se paragonato agli standard attuali, ma vivace, puntuale nella riflessione, abba­stanza non conformista anche rispetto a tesi e orientamenti nazio­nali, sui quali in sede bresciana si pensava di poter eccepire. Per esempio, vi si diede voce a dissenso marcato rispetto alla campagna di sospetto e demolizione del pensiero - soprattutto politi­co - di Maritain, svolta dalla “Civiltà Cattolica” (p. Messineo)."[57]

 

La tendenziale "chiusura" del mondo cattolico bresciano

 

Pozzi richiama più volte una certa perplessità che il suo impegno diretto nel gruppo dirigente del movimento giovanile aveva suscitato negli ambienti cattolici tradizionali (l'establishment cattolico, come lo chiama nelle memorie). Già nel suo primo incontro con don Almici, al momento della sua nomina a vicepresidente dei giovani, gli viene detto senza mezzi termini che "c'erano nomi più graditi", ma che il vescovo lo aveva approvato "per quanto anomalo all'ambiente" potesse apparire.

E ancora, osserva: "chi non aveva influenza, propria o familiare, godeva di un ...occhio diverso: certamente non superbia o malanimo, ma solo un sentire di altro tipo."

Esattamente cinque anni dopo, in un ulteriore incontro con mons. Almici, nel momento stesso in cui gli viene notificata la decisione del vescovo di nominarlo presidente dei giovani, gli viene detto senza mezzi termini che l'AC diocesana e lo stesso Almici non erano del tutto d'accordo sulla sua nomina: "avrebbero preferito, disse esplicitamente, un figlio di qualche famiglia dell’establishment cattolico tradizionale, come lo era stato Brunelli a suo tempo, e fece alcuni nomi che ben ricordo, ma che non faccio per rispetto e amicizia attuale: però nessuna di questi aveva, al momento, figli in età sufficiente all’incarico, quindi potevo servire io."

L'atteggiamento di don Almici con Pozzi non era chiaramente dettato da un pregiudizio personale negativo sul giovane presidente, anzi al contrario Almici stimava Pozzi e ne apprezzava l'impegno serio e responsabile; era semmai la conseguenza di una difficoltà oggettiva per le tradizionali famiglie del mondo cattolico ad accettare l'apporto di persone nuove, emerse nel periodo della resistenza, difficoltà che non si manifesta in quegli anni solo all'interno dell'Azione Cattolica, ma anche nella Democrazia Cristiana e in altre istituzioni del mondo cattolico bresciano.

Infatti anche nel partito cattolico nel dopoguerra si era creata un'aspettativa degli uomini nuovi, spesso giovani che si erano formati rapidamente negli anni drammatici della resistenza, di assumere un ruolo effettivo nel mondo cattolico, dove per decenni avevano dominato i cosiddetti notabili.

A più riprese, negli anni Quaranta e Cinquanta si manifesta, all'interno della DC in particolare, ma più in generale nel mondo cattolico bresciano, il contrasto tra chi vuol mantenere saldo il controllo dei centri decisionali del mondo cattolico da parte di un'elite composta da esponenti delle tradizionali famiglie e gli uomini nuovi che aspirano invece a essere integrati nelle varie istituzioni (come le banche e le case editrici). Fin dalla resistenza il nucleo dirigente della DC, che proveniva quasi completamente dall'Azione Cattolica, era un misto tra esponenti di famiglie benestanti espressione del tradizionale mondo cattolico prefascista e una serie di uomini nuovi provenienti dal popolo. Nel 1945, infatti, nel primo nucleo dirigente democristiano, accanto ai Montini e ai Bazoli, ad Emilio Franchi, Carlo Viganò e Giulio Togni, troviamo ad esempio Bruno Boni, figlio di un sarto, o Davide Cancarini, primo Segretario provinciale della DC, figlio di un fornaio, insieme a tanti giovani di umili origini, come Fada, Castrezzati o Grazioli. Gli esponenti dell'elite tradizionale del mondo cattolico, pur essendo aperti a scelte di rinnovamento, svolgevano la loro azione politica con molta prudenza e circospezione, frutto della saggezza e dell'esperienza accumulata in decenni. Pertanto si può comprendere come queste famiglie fossero molto restie a introdurre nelle istituzioni del mondo cattolico (come banche, assicurazioni, case editrici, Giornale di Brescia, fondazioni, ecc.) gli uomini nuovi della DC.

Infatti proprio di questo si lamenta ad esempio Annibale Fada nelle lettere a Lodovico Montini, quando sottolinea la chiusura delle istituzioni del mondo cattolico bresciano che non permettono alla nuova classe dirigente emersa dopo la Liberazione nella DC, nel sindacato e nell'associazionismo cattolico di partecipare alla loro gestione. Scrive infatti Fada:

"… il sottoscritto ha presentato dal 1959, ben tre domande per avere qualche azione della Banca S. Paolo ma non ha ancora avuto il piacere nemmeno d’una risposta e quale sia il trattamento per me in uso al "Giornale di Brescia" mi risulta non solo da dirette indiscrezioni dei redattori ma dal fatto che non si accenna il nome nemmeno in occasione d’un intervento in Consiglio nazionale. Ho citato due insignificanti esempi personali esclusivamente per metterti in evidenza che non si può pretendere di mettere alla porta tutta una realtà, valida meno che sia, del mondo cattolico bresciano col pretesto dell'anonimato societario e poi lamentarsi perché questa realtà non sente queste "Istituzioni" come cosa sacrosantemente sua e comunque come un patrimonio che, al di là delle vicissitudini temporanee, va difeso e potenziato nel supremo interesse della nostra idealità. Ti ripeto non scuso le prevenzioni, ma non è possibile assolvere le esclusioni: un discorso chiarificatore ed unitario non può non avere la sua premessa in una soluzione concreta del problema che a Brescia devono finire i compartimenti stagni con categorie di serie A e di serie B. Finché dei fatti dimostrativi non abbatteranno le paratie che una realtà ambientale, forse contro le stesse intenzioni degli uomini, ha elevate credo, purtroppo, che continuerà un dialogo tra sordi e persisterà la diffidenza al di là dei discorsi e delle intenzioni migliori."[58]

E’ verosimile ritenere che Fada alluda al fatto che fin dal ritorno di Boni alla Segreteria DC nel 1953, la Banca S. Paolo e «Il Giornale di Brescia» (posseduto dalla società per azioni Editoriale Bresciana, controllata dalla Curia vescovile[59]) abbiano sempre appoggiato l'ala moderata della DC contro Boni[60] e i fanfaniani, per non parlare della sinistra DC[61].

 

Le ragioni remote declino dell'egemonia cattolica

 

 

Pozzi nelle sue memorie individua alcune ragioni remote che possono spiegare il declino dell'egemonia cattolica che si manifesterà negli anni Settanta, in modo originale e sicuramente molto eterogeneo rispetto ad altre spiegazioni ritenute più autorevoli e più volte richiamate nelle pubblicazioni di storia locale. L'ipotesi interpretativa proposta da Pozzi nasce da una profonda conoscenza del mondo cattolico bresciano: oltre che dirigente dell'Azione Cattolica, è stato vicepresidente provinciale delle ACLI bresciane dal 1953 al 1957, prima con la presidenza di Enrico Roselli e poi con quella di Michele Capra, nonché consigliere comunale a Brescia per la DC dal 1951 al 1960 e assessore dal 1956 al 1960. Inoltre è stato anche relatore al Sinodo diocesano del 1952, come egli stesso ricorda nelle memorie.

E' quasi evidente che il declino dell'egemonia cattolica nel bresciano, si manifesta visibilmente dal periodo 1965-75, dopo un ventennio in cui quest'egemonia si era mantenuta sostanzialmente salda. Infatti, mentre nel periodo 1958-1965 la dialettica interna alla Democrazia Cristiana e al mondo cattolico bresciano era incentrata soprattutto sulla questione ideale e politica dell'apertura a sinistra, che vedeva i fanfaniani e la sinistra DC favorevoli e i dorotei contrari,[62] e quindi il percorso faticoso che porta alla formazione tra la fine del 1964 e l'inizio del 1965 delle giunte organiche di centro sinistra in Comune e Provincia, era caratterizzato dalla preminenza delle questioni politico-ideologiche e la politica della DC era profondamente influenzata dal dibattito interno al mondo cattolico e dall'azione delle varie organizzazioni collaterali, viceversa nel decennio successivo si assiste ad una rapida e radicale trasformazione di questo quadro storico e si manifestano contemporaneamente sia la disgregazione del mondo cattolico come totalità organica, sia una mutazione "genetica" del partito cattolico. Mentre il primo fattore, pur avendo una specificità locale, è largamente determinato da elementi esterni alla situazione bresciana, come l'attuazione del Concilio Vaticano II, l'autonomia della CISL e delle ACLI, la contestazione studentesca, l'autunno caldo e la crescita di consenso elettorale alla sinistra, viceversa la trasformazione della DC è largamente determinata da cause locali e avviene in un periodo in cui, quasi paradossalmente, il consenso elettorale, a livello provinciale, rimane pressoché immutato: dal 51% delle elezioni politiche del 1963 al 51,4% del 1976, con un minimo del 50,7% nel 1972 (dati relativi alla Camera dei Deputati). La DC, che nella intera regione Lombardia ha in questi anni un consenso attorno al 40%, mantiene sempre la maggioranza assoluta in provincia di Brescia.

Questa "mutazione genetica", quasi una sorta di degenerazione della DC, è riconosciuta a posteriori da alcuni dei suoi autorevoli dirigenti. Ad esempio, per il sen. Fabiano De Zan,[63] negli anni della ricostruzione e nei primi anni '60 nella DC "la politica era strettamente collegata alla questione sociale, e chi si azzardava a fare «politica pura», cioè a proporsi mete esclusive di potere personale, era messo ai margini come usurpatore. Furono gli anni in cui la DC, per il tramite principale di Boni, seppe imporre, insieme ad un forte spirito d'iniziativa, la sua attitudine alla sintesi e alla mediazione."[64] Viceversa "è possibile situare a metà degli anni '70 la svolta di metodo e di comportamento che gradualmente modificò l'assetto e il volto della DC bresciana […] La sua classe dirigente assunse sempre più l'aspetto di una oligarchia di regime, distaccata dall'area del consenso. I voti continuavano, con lenta regressione, a sostenere la DC, ma in molti elettori si percepiva la scarsa convinzione, quando non addirittura la riluttanza."[65]

Ancor più esplicito è Matteo Perrini,[66] che vede negli anni '70 il periodo che ha portato a quell'"intreccio perverso di affari e politica divenuto sistema negli anni di fango (1977-93) […] e alla degradazione della politica a pubblicità e a organizzazione di interessi personali."[67]

Perrini individua anche una precisa causa statutaria tra le ragioni del declino della DC. Il consiglio nazionale della DC del 24-27 gennaio 1964 (quello in cui Mariano Rumor è eletto segretario nazionale al posto di Aldo Moro, divenuto presidente del consiglio dei ministri) approva una modifica sostanziale del regolamento congressuale del partito: gli organi del partito non verranno più eletti col tradizionale metodo del panachage, che consentiva ai delegati di esprimere preferenze anche per candidati di liste diverse, ma col metodo proporzionale a liste bloccate, cioè senza preferenze, con il quale ogni corrente eleggeva un numero di componenti l'organismo direttivo proporzionale ai voti congressuali ottenuti e nell'ordine di lista dei candidati predisposto dalla corrente stessa.[68] Certamente questa procedura, che conferisce ai capi corrente un potere smisurato e impedisce un rinnovamento dei gruppi dirigenti basato sulle qualità umane e morali dei candidati, contribuisce in maniera significativa alla mutazione genetica della DC, anche se ovviamente non può essere considerata la causa prevalente dell'involuzione del partito cattolico.

In maniera radicalmente difforme a queste ed altre classiche interpretazioni del declino dell'egemonia cattolica, Pozzi individua nelle sue memorie ragioni molto antecedenti.

Dopo aver ricordato che il movimento cattolico bresciano aveva avuto grandi e illustri tradizioni, sia in campo strettamente religioso e formativo, che in campo sociale e politico ed era stato ricco di fermenti, di iniziative e di posizioni non sempre coincidenti, anche se accomunate dallo stesso spirito, con una pluralità che all’avvento del fascismo aveva consentito anche una certa duttilità, Pozzi sottolinea come "persone e iniziative avevano potuto in qualche modo salvare il salvabile, resistere e continuare a tener viva la propria fiammella. Fatale che vi potessero essere (o apparire) diversi …orticelli coltivati per sopravvivere, ciascuno con l’intenzione che riteneva più valida."

Nonostante ciò, secondo Pozzi, le fasi difficili della Resistenza e della ricostruzione resero possibile la confluenza delle diverse posizioni in un unico disegno e in un medesimo intento, portando a convergere le varie e molte anime del cattolicesimo bresciano. E anche lui sostiene che "non vi furono generiche o dubbie ammucchiate, come purtroppo ne vedemmo poi, o insinceri embrassons nous dettati da calcoli o furberie: il concetto, e in un certo senso la prassi di essere furbi maturerà e inquinerà l’ambiente molti anni dopo, quando ormai le prevalenze partitiche o correntizie avevano imposto le loro leggi."

Si domanda quindi quali fossero, o fossero stati, gli errori operativi, di metodo e di scelte di uomini che potessero aver aperto la strada "a tali dispersive e scadenti situazioni". Pozzi non si sottrae a questa domanda e formula una sua interessante proposta interpretativa:

"Anzitutto, il lavoro di preparazione, di formazione, negli anni bui dei quali parlo, fu fatto, è vero, nella prospettiva del «dopo»: ma questo «dopo» rimaneva in parte un astratto che veniva previsto secondo una linea, una mentalità, una forma che si allacciavano al «prima», cioè a quel pre-fascismo del dopo grande guerra, durante il quale i partiti, tutti chi più chi meno, apparivano prossimi a essere «bolsi» e mostravano segni avanzati di furberia e di partitismo. In queste condizioni, non so quanto preveggente e libera, spregiudicata in senso veramente innovativo intendo, potè essere la visione e la preparazione al dopo e quanto, invece, rimanesse invischiata in una visione retrò, per così dire, quasi un revival di vecchi buoni propositi che però...avevano aperto la porta la fascismo. Tutto ciò in perfetta buona fede e con le migliori intenzioni, ma, direi, senza una coraggiosa, anche se dolorosa, analisi critica di ciò e di come era accaduto."

Pozzi sottolinea come le tradizioni non erano certo da dimenticare e denegare: era un patrimonio che poteva dare ispirazioni e stimoli ideali e culturali, ma che a suo giudizio non poteva essere ritradotto in formule, mentalità, modalità operative quasi identiche a quelle esistenti allora, come se non ci fosse stato alcun intervallo e si potesse ripartire dal giorno dopo; "la tendenza, invece, era o appariva propensa a prevedere o preparare un’operatività in quella direzione."

Secondo Pozzi, dopo la fine della guerra "ci trovammo di fronte alla necessità di iniziare qualcosa di nuovo che non richiedeva riedizioni di un dejà vu, ma soluzioni più agili e disincantate. Vi era preparazione in molti e per molti versi, altrettanta e sincera buona volontà, ma non vi era fantasia: il rinnovamento non fu novità, innovazione, ma un richiamarsi, talora pedissequo, al passato, a volte con gli stessi uomini, come se niente fosse passato sotto i ponti. Ho avuto spesso, allora, un’impressione, da «paradiso perduto», come se si dovesse riprendere dal modo di intendere e di vivere il sociale e il politico che aveva segnato gli anni dal '22 al '25 e tutto l’accaduto fosse stata una parentesi spiacevole, ma accidentale. Mancò l'attacco, quindi, mancarono il coraggio e la fantasia dell’innovazione: lungi da me l’idea di offendere qualcuno, ma ebbi l’impressione che venisse fatto molto «reducismo», ma non dai reduci recenti, bensì da reduci passati, per così dire, dai reduci di ciò che era accaduto prima e del quale, in fondo, portavano pure qualche corresponsabilità, se non altro per la furberia (tentennamenti, incertezze, indecisioni) e la sicumera di poter controllare la tigre dopo averla cavalcata."

Nell'ambito di questa mentalità diffusa nei maggiori protagonisti del mondo cattolico bresciano si spiegano le scelte di fondo le cui conseguenze negative si svilupparono lentamente, ma inesorabilmente negli anni successivi: "andarono nei posti dei bottoni in buona parte uomini della vecchia generazione, capaci, onesti, preparati però secondo il loro tempo, che era già stato ed era finito o sul finire. Queste persone ebbero gran merito, e questo va loro riconosciuto sinceramente, e dovettero affrontare grosse difficoltà ed emergenze: ma il cambiamento di mentalità, di passo, di tono, che la situazione nuova imponeva, avvenne solo in parte, lentamente, con riserve. Fu come se uno camminasse in avanti, ma continuando a guardarsi indietro o facendolo molto spesso, con ciò lasciando spazio, e quindi possibilità di crescere e di assestarsi, ai non sopiti spiriti indecisi e corrosivi di un tempo e alloro reinserimento nell’oggi. Se in prima battuta occorreva pur rifarsi ad una deontologia politica e fu necessario e opportuno riprendere quella che si era interrotta, non si capì, o non si voleva capire, poi, l’urgenza e l’indispensabilità di un nuovo codice deontologico per questo campo disastrato: si proseguì a voler fare il nuovo, usando strumenti vecchi che già non avevano dato gran prova nel momento del bisogno. I tempi successivi, cioè quello in cui scrivo, ne mostrano purtroppo gli effetti col degenerare di un partitismo che tende ad essere sempre più chiuso in se stesso e lontano dalla comprensione e dalla realtà della gente."

Secondo Pozzi, dunque, la mancanza di coraggio e di spirito di rinnovamento nell'affrontare la riforma delle strutture statali ereditate dal Regno d'Italia e dal fascismo è strettamente connessa all'incapacità degli esponenti cattolici, e della DC in particolare, di stabilire e rispettare un "codice deontologico", incapacità che ha portato al diffondersi di prassi regressive e dannose come il partitismo ed il correntismo, contro le quale Pozzi non ha mai cessato di battersi.

Non a caso, molti anni dopo, nel 1960, dopo una esperienza da Assessore nella giunta comunale iniziata nell'estate del 1956, quando non viene rieletto nelle elezioni amministrative del 27 maggio a causa dell'organizzazione scrupolosa delle preferenze da parte dei gruppi di potere e delle varie correnti della DC, scrive subito dopo le elezioni al vice-segretario Annibale Fada per protestare contro la gestione delle preferenze:

"Quanto è accaduto riprova che il clima che si è creato al Partito non consente più ad alcuno di condurre una lotta politica leale ed onesta che rifugga dai personalismi e dagli interessi individuali; che non esiste più alcuna preminenza delle impostazioni e degli interessi del partito nella necessaria ragionata disciplina; che non esiste a Brescia una organizzazione democratico-cristiana, ma tale settore è in mano di volta in volta all’attività di individui e di gruppi esterni al partito che da questi viene usato come comodo strumento."[69]

Con le elezioni del 1960, Ugo Pozzi lascia la politica attiva, ma in compenso intensifica la sua attività di medico a servizio della comunità, insegnando all'università, facendo parte e assumendo ruoli di responsabilità nell'International College of Psychosomatic Medicine in Gran Bretagna, nel consiglio di presidenza della Società italiana di medicina psicosomatica, nell'Associazione italiana di Psicologia dello sport, nel consiglio provinciale di Sanità, nel centro di orientamento scolastico e professionale e nella federazione medico sportiva e scrivendo numerosi articoli, saggi e relazioni scientifiche in campo medico.

 

Maurilio Lovatti

 



[1] La Federazione Leone XIII era stata costituita nel maggio del 1906 per coordinare tutte le organizzazioni giovanili della diocesi a carattere educativo, ricreativo e religioso. Il primo presidente era stato Francesco Perlasca, vicepresidente Daniele Tovini, segretario don Lorenzo Pavanelli.

[2] A. Onger, Il periodo 1940-1951, in Cento anni della gioventù cattolica bresciana, GIAC - La Scuola, Brescia 1968, pag. 85.

[3] Nota n. 1321 del 13 luglio 1940, in Archivio di Stato di Brescia (d'ora in avanti ASBs), Fondo Gabinetto di Prefettura, B 78, fasc. "Clero-Azione del clero".

[4] Memoriale per il Prefetto del 23 giugno 1940, in ASBs, Fondo Gabinetto di Prefettura, B 96, fasc. "Clero-Azione del clero".

[5] Relazione del Questore di Brescia al Ministero dell'Interno del 24 dicembre 1940, cit. in F. Malgeri, La Chiesa italiana e la guerra (1940-45), Studium, Roma 1980, pag. 138.

[6] ASBs, Fondo Gabinetto di Prefettura, B 96, fasc. "Clero-Azione del clero".

[7] Nota n. 2013 del 31 dicembre 1940 del Prefetto al Questore, in ASBs, Fondo Gabinetto di Prefettura, B 78, fasc. "Clero-Azione del clero".

[8] A. Fappani, Mondo cattolico e fascismo a Brescia, in F. Molinari, M. Dorini (a cura di) Brescia cattolica contro il fascismo, S. Marco, Esine (Bs) 1978, pag. 34.

[9] Archivio Storico diocesano di Brescia, Fondo Tredici, B 109

[10] A. Fappani, La resistenza bresciana. Appunti per una storia, Ed. Realtà giovanile, Brescia 1962, vol. I, pag. 171; A. Onger, Il periodo 1940-1951, cit., pag. 86.

[11] Testimonianza del dott. Ugo Pozzi, in L'Azione Cattolica di ieri e di oggi. Ricordi e testimonianze di militanti e dirigenti, CeDoc, Brescia 1987, pag. 31.

[12] «Bollettino Ufficiale della diocesi di Brescia», a. XXXIII (1943), n. 6, pag. 207.

[13] «La Voce Cattolica», a. 7, n. 21, 29 maggio 1943, pag. 3.

[14] Lettera del 23 febbraio 1985 dell'avv. Cesare Trebeschi, allora sindaco di Brescia, a don Antonio Masetti Zannini, in Fondo Tredici, B 109.

[15] Enciclopedia bresciana, voce Andrea Trebeschi; Lettera di Cesare Trebeschi a don Antonio Masetti Zannini del 23 febbraio 1985, in Fondo Tredici, B 109.

[16] Testimonianza del dott. Ugo Pozzi, in L'Azione Cattolica di ieri e di oggi, cit., pag. 29.

[17] Testimonianza della prof. Teresa Venturoli, in L'Azione Cattolica di ieri e di oggi, cit., pag. 101-102.

[18] Lettera di Bruno Boni a mons. Enzo Giammanchieri del 28 maggio 1991, in Lettere di Bruno Boni ad un amico, Edizioni Franciacorta, Passirano (Bs) 2003, pag. 174.

[19] M. T. Bonafini, M. Faini, R. Fracassi, A. Rivali, P. Segala, I lavoratori cattolici nella vita politica bresciana, Sangallo, Brescia 1976, pag. 24-25.

[20] Testimonianza di mons. Giuseppe Almici, in Il contributo del clero bresciano all'antifascismo e alla resistenza, Atti del convegno di studio promosso dal Centro di documentazione in Brescia, 13 marzo 1975, Cedoc, Brescia 1976, pag. 81; testimonianza di Egidio Comini, in L'Azione Cattolica di ieri e di oggi, cit., pag. 54.

[21] Sul ruolo del mondo cattolico nella resistenza bresciana si veda: A. Fappani, La resistenza bresciana, Squassina, Brescia 1965, 3 vol.; R. Anni, Storia della Resistenza bresciana 1943-1945, Morcelliana, Brescia 2005; M. Lovatti, Testimoni di libertà. Chiesa bresciana e Repubblica Sociale Italiana (1943-1945), Opera diocesana San Francesco di Sales, Brescia 2015.

[22] On. Francesco Zane (1898-1971) dirigente dell'Azione Cattolica, milita fin dall'inizio nel Partito Popolare. Nella resistenza è nelle Fiamme Verdi che operano in Val Sabbia. Arrestato dai fascisti il 25 marzo 1945, poiché nella sua abitazione fu rinvenuta una piccola radio ricetrasmittente clandestina del figlio Giuseppe. Senatore dal 1948 al 1968. Sindaco di Limone del Garda dal 1952 al 1956, di Sirmione dal 1956 al 1960, di Salò dal 1960 al 1970.

[23] Karl Wolff (1900-1984) nazista e membro delle SS fin dal 1931, è noto per aver negoziato con gli alleati e ad insaputa di Hitler la resa delle truppe tedesche in Italia, nel marzo-aprile 1945.

[24] U. Pozzi, La mia amicizia col «capitano Veneziani», in Francesco Zane, CeDoc, Brescia 1989, pag. 63.

[25] Giuseppe Usanza (1927-1944) studente dell'istituto tecnico industriale, aveva in precedenza partecipato a pericolose azioni partigiane per sottrarre armi in una caserma della Guardia di Finanza a Porta Trento e del Reparto Paracadutisti a Collebeato.

[26] Nell'azione rimane ucciso il giovanissimo partigiano Ippolito Boschi, medaglia d'argento al valor militare.

[27] Prof. Luigi Gedda (1902-2000) presidente centrale della Gioventù Italiana d'Azione Cattolica (GIAC) dal 1934 al 1946, presidente degli Uomini di Azione Cattolica dal 1946 al 1949, presidente generale di tutta l'associazione dal 1952 al 1959. Nel 1948 organizza i Comitati Civici, per mobilitare gli iscritti dell'Azione Cattolica a sostegno della Democrazia cristiana. In occasione delle elezioni comunali del 1952 a Roma propone di costituire una lista civica in cui confluiscano esponenti della DC, del MSI e del partito monarchico, guidata da don Luigi Sturzo. Ma l'operazione Sturzo fallisce soprattutto per la ferma opposizione di Alcide De Gasperi. La coalizione a guida democristiana riesce comunque vittoriosa dalle urne, senza l'alleanza con l'MSI e coi monarchici, caldeggiata dagli ambienti più fortemente anticomunisti e conservatori.

[28] Card. Adeodato Piazza (1884-1957), Vescovo di Benevento dal 1930 al 1935, Patriarca di Venezia dal 1935 al 1948, Cardinale dal 1937, Segretario dalla Congregazione concistoriale dal 1948.

[29] A. Onger, Il periodo 1940-1951, in Cento anni della gioventù cattolica italiana, cit., pag. 92.

[30] M. C. Giuntella, Cristiani nella storia. Il "caso Rossi" e i suoi riflessi nelle organizzazioni cattoliche di massa, in A. Riccardi (ed.), Pio XII, Laterza, Roma – Bari 1985, pag. 347-377; la cit. è a pag. 360. Si veda anche: M. V. Rossi, I giorni dell'onnipotenza: memoria di un'esperienza cattolica, Borla, Roma 2000; G. de Antonellis, Storia dell'Azione Cattolica, Rizzoli, Milano 1987, pag. 261-271; E. Preziosi, Obbedienti in piedi. La vicenda dell'Azione Cattolica in Italia, SEI, Torino 1996, pag. 284-288.

[31] M. C. Giuntella, Cristiani nella storia, cit., pag. 359.

[32] E. Versace, Montini e l'apertura a sinistra. Il falso mito del «Vescovo progressista», Guerini, Milano 2007, pag. 132; B. Lai, Il Papa non eletto. Giuseppe Siri cardinale di Santa Romana Chiesa, Laterza, Roma – Bari 1993, pag. 99.

[33] Quando Rossi riferisce a Montini le pesanti critiche che gli avevano rivolte i cardinali Piazza, presidente della Commissione episcopale per l'AC, Pizzardo e Ottaviani, "Il prosegretario di Stato, allibito, non fa che ripetere: «E questo accade senza informarmi di nulla!» Scuote la testa, non sa cosa fare, e allora Rossi insiste per le dimissioni chiedendogli di utilizzare la vecchia lettera; a questo punto Montini acconsente, ma scoppia a piangere senza ritegno." (G. de Antonellis, Storia dell'Azione Cattolica, cit., pag. 267).

[34] M. Rossi, Gli italiani hanno votato, in «Gioventù», 14 giugno 1953, cit. in M. C. Giuntella, Cristiani nella storia, cit., pag. 356 e 374, n.35.

[35] M. Lovatti, Giacinto Tredici, vescovo di Brescia in anni difficili, Fondazione civiltà bresciana, Brescia 2009, pag. 182-183; 187-88; 210; 230-239.

[36] Mons. Federico Sargolini (1891-1969) Assistente della GIAC dal 1929, Vescovo ausiliare di Camerino dal 1963.

[37] Lettera di mons. Sargolini agli assistenti diocesani della GIAC del 20 aprile 1954, in Fondo Tredici, B 92.

[38] «La Voce del Popolo», 24 aprile 1954, n. 17, pag. 6.

[39] La Commissione episcopale per l'Alta Direzione dell'AC, presieduta dal card. Piazza, è composta di altri 8 Vescovi e ha come Segretario l'Assistente ecclesiastico centrale dell'AC (mons. Giovanni Urbani fino al 1955, poi mons. Ismaele Mario Castellano).

[40] Prof. Carlo Carretto (1910-1988), presidente centrale della GIAC dal 1946 al 1952, fonda la Fraternità di Spello nel 1965.

[41] Faziose speculazioni, in «L'Osservatore Romano» del 23 aprile 1954, pag. 1.

[42] Card. Alfredo Ottaviani (1890-1979) Cardinale e Pro-segretario del Sant'Offizio dal 1953 al 1959, poi Segretario; Pro-prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede dal 1966 al 1968.

[43] Lettera del 1 maggio 1954 al card. Piazza, in Fondo Tredici, B 91.

[44] Card. Giuseppe Pizzardo (1877-1970) Vescovo dal 1930, Cardinale dal 1937, Prefetto della Congregazione dei Seminari e delle Università dal 1939, Vescovo di Albano dal 1948, Segretario del S. Offizio dal 1951 al 1959.

[45] G. Colombi, Il periodo delle presidenze Giulio Onori, Mario Cattaneo e Giuseppe Onori, 1951-1964, in A. Fappani, A. Onger, Cento anni della gioventù cattolica bresciana, cit., pag. 100.

[46] Lettera dell'ing. Dino Filtri al card. Piazza del 15 maggio 1954, controfirmata dal vice presidente diocesano, prof. Giovanni Vezzoli, su carta intestata della Presidenza diocesana di AC, in Archivio storico dell'AC di Brescia, B 132, fasc. Corrispondenza varia – Presidenza Giunta diocesana (1953-1954).

[47] Lettera di Dino Filtri al card. Adeodato Piazza del 24 maggio 1954, in AACBs, B 132, fasc. Corrispondenza varia – Presidenza Giunta diocesana (1953-1954); Una copia della lettera è inoltrata, con nota separata, al card. Giovanni Battista Montini, Prosegretario di Stato.

[48] Fondo Tredici, B 12, Agenda 1954 B.

[49] Mons. Ernesto Camagni (1900-1966), Vescovo dal 1964, addetto alla Curia Romana.

[50] Mons. Ismaele Mario Castellano o. p. (1913-2000) Vescovo di Volterra dal 1954 al 1961, Arcivescovo di Siena dal 1961 al 1989.

[51] Sottolineatura nell'originale della lettera.

[52] In realtà si tratta di Giulio Onofri, presidente diocesano della GIAC dal 1951 al 1957.

[53] Lettera riservata di mons. Castellano a Tredici, del 26 novembre 1955, su carta intestata della Commissione episcopale per l'alta direzione dell'AC (commissione presieduta dal cardinal Piazza e di cui Castellano era Segretario) in Fondo Tredici, B 91.

[54] G. Colombi, Il periodo delle presidenze…, cit., pag. 99.

[55] Lettera di Giulio Onofri a Tredici, del 23 settembre 1955, su carta intestata della Presidenza diocesana della GIAC e controfirmata dall'Assistente diocesano, don Francesco Vergine, in Fondo Tredici, B 92.

[56] Il dott. Mario Cattaneo, nato nel 1926, è stato presidente diocesano della GIAC dal 1957 al 1960.

[57] Testimonianza del dott. Giulio Colombi, in L'Azione Cattolica di ieri e di oggi, cit., pag. 8. Il gesuita padre Antonino Messineo, dopo le elezioni del 1953, si era schierato pubblicamente contro De Gasperi e l'alleanza con i partiti di centro, propugnando un'alleanza tra DC e monarchici (A. Messineo, Dopo le elezioni politiche del 7 giugno, in «La Civiltà Cattolica», luglio 1953, vol. III, pag. 3-12).

[58] Archivio privato della sig.ra Gianna Salvinelli vedova Fada, Lettera dell'on. Annibale Fada all'on. Lodovico Montini, 8 aprile 1965, pag. 6.

[59] Sul controllo del Giornale di Brescia si veda: M. Lovatti, Giacinto Tredici…, cit., pag. 203-207. Nel 1950 il vescovo Tredici aveva ottenuto, grazie ad una donazione di Antonio Folonari, il pacchetto azionario di controllo dell'Editoriale bresciana che possiede il Giornale di Brescia.

[60] Allo stesso Boni, nonostante fosse Sindaco di Brescia e Segretario provinciale della DC, era stata negata la possibilità di acquistare azione della Società Editoriale Bresciana, che controllava il Giornale di Brescia. Scrive Boni alla sorella Ines: «Da tempo attendevo, pazientemente come è mio costume, di poter avere qualche azione dell'Editoriale bresciana. Sembrava ardua impresa per me ed ecco che la tua generosità mi ha procurato questo grande piacere.» (lettera del 13 novembre 1967 alla sorella Ines, su carta intestata del Sindaco di Brescia, in: B. Boni, Lettere a Ines, sorella "buona e serena", Brescia, Tip. Fiorucci di Collebeato, 2011, ed. fuori commercio, pag. 34).

[61] Perfino il settimanale diocesano, in occasione del cambio di direttore de «Il Giornale di Brescia » (il 16 marzo 1960 il dott. Vincenzo Cecchini aveva sostituito il dott. Alberto Vigna) aveva ospitato una lettera molto critica di Mario Faini, e il direttore don Pasini nella risposta aveva affermato che i lavoratori cattolici bussano «invano a porte che spesso rimangono caparbiamente chiuse» (Proprio nulla di nuovo al Giornale di Brescia?, in «La Voce del Popolo», 26 marzo 1960, pag. 11).

[62] M. Lovatti, Democrazia cristiana, mondo cattolico e apertura a sinistra a Brescia (1958-1965), in «Storia in Lombardia», 2012, pag. 117-183.

[63] On. Fabiano De Zan (1923-2013), direttore del Cittadino dal 1953 al 1963, vicesegretario provinciale della DC dal 1956 al 1958, consigliere provinciale dal 1960 al 1963, Deputato dal 1963 al 1968, Senatore dal 1968 al 1983.

[64] F. De Zan, Trent'anni di potere democristiano, in «Città e dintorni», 1999, n. 67, pag. 35.

[65] Ivi, pag. 37.

[66] Prof. Matteo Perrini (1925-2007), Segretario provinciale della DC dal 1963 al 1964.

[67] M. Perrini, La cultura come passione per la verità e la cura dell'anima, in S. Danesi (a cura di), Confcooperative, Unione provinciale di Brescia : cinquant'anni di storia, Brescia, Confcooperative, 2002, pag. 138.

[68] M. Perrini, In quella stagione breve e ardente (1961-1965), in G. Valzelli, F. De Zan (ed.), Omaggio a Bruno Boni, Ateneo di Brescia, Brescia 1998, pag. 211-212.

[69] Lettera di Ugo Pozzi a Annibale Fada, novembre 1960, cit. in E. Fontana, Annibale Fada, Cooperativa di cultura Giacomo Mazzoli, Brescia 1989, pag. 186. Così Eugenio Fontana interpreta e commenta il punto di vista di Ugo Pozzi: «Si discuta fin che vuole nella formazione delle liste, ma poi deve scattare e valere per tutti la regola morale della lealtà verso gli accordi sottoscritti approvati e non già una sorta di guerra di tutti contro tutti. Quello che non si può accettare è una duplice lotta condotta senza scrupoli e non certo alla leggera: la lotta per la candida­tura e la lotta per l’elezione. Pozzi pensa al partito come ad autorità; e vi pensa sulla base delle esperienze di Azione Cat­tolica, sui modelli organizzativi della gerarchia e del servizio. Ma tutto ciò gli si infrange tra le mani alla verifica del dato elet­torale. Per prima cosa si dimette dal Comitato provinciale del partito quale rappresentante del gruppo consiliare comunale; per seconda cosa, prende in mano penna e carta e scrive una lunga lettera ad Annibale Fada che si conferma così essere l’interlo­cutore più credibile e più richiesto del partito, l’interlocutore a cui vale la pena presentare i problemi e con il quale si può discu­tere.» (E. Fontana, Annibale Fada cit., pp. 185-186). Sulle elezioni amministrative del 1960 a Brescia si veda: M. Lovatti, Democrazia cristiana, mondo cattolico e apertura a sinistra a Brescia, cit., pag. 133-137.

 

 

Ugo Pozzi

 

 

Tratto da: Ugo Pozzi, Memorie. Un giovane d'Azione Cattolica tra resistenza e ricostruzione a Brescia, a cura di Antonio Fappani e Maurilio Lovatti, Fondazione Civiltà Bresciana, Brescia 2016, pp. 17 - 53

 

 

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