documenti sull'università a cura di Maurilio Lovatti
Antonio La Penna
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I
mali vecchi e nuovi dell’università in un documento dell’Accademia
dei Lincei I
mali della nostra università non sono un tema peregrino, ed è
generalmente noto che essi si sono molto aggravati nell’ultimo mezzo
secolo; tuttavia è ben degno di attenzione un documento dell’Accademia
dei Lincei, intitolato Linee
per una riforma universitaria,
approvato nell’assemblea a classi riunite dell’11 giugno 2009. Il
documento è stato elaborato da una commissione presieduta dal filosofo
Fulvio Tessitore e composta da intellettuali di alto livello, che
conoscono bene l’università italiana attraverso una lunga esperienza
diretta. Analisi e proposte sono oggetto di una trattazione organica e ben
articolata; ma io mi propongo solo di toccare alcuni problemi o per
approfondirli o per esprimere dissenso sulle proposte. Mi rifaccio a una
lunga esperienza diretta dell’università italiana, senza la pretesa di
avanzare proposte sicure. 1.
Da decenni circola, dentro e fuori dell’università, la condanna per la
proliferazione eccessiva e ingiustificabile di università e di sedi
distaccate. È nota a tutti la causa di questa ipertrofia: il bisogno dei
politici di accontentare, per mantenere o rafforzare la propria influenza,
le ambizioni di questa o quella città. Ben inteso, non mancano eccezioni:
per esempio, era giusto dare una università alla Calabria, ma anche a
questa esigenza si rispose in modo distorto: l’università fu
spezzettata in tre sedi. È giusto aggiungere che la superfetazione ha una
causa convergente, posta dentro l’università: la brama dei professori
di trovare posti per i propri allievi e clienti. Quasi sempre si è
dimenticato che istituire un’università o una sede distaccata significa
dotarla delle attrezzature necessarie, biblioteche e strumenti di ricerca
scientifica, spesso molto costosi. È ovvio che uno sfoltimento oculato è
necessario; credo che sarebbe utile tener presente l’utilità di sedi
distaccate per gli insegnamenti dei primi due anni, o dei primi tre, se si
mantiene il 3+2: basterebbero attrezzature limitate e si attenuerebbe
l’affollamento delle grandi sedi. La lotta contro la superfetazione è
giusta, ma, data la forza e la tenacia degli orientamenti contrari, temo
che ben poco si possa realizzare. 2.
L’attività didattica e scientifica nelle università italiane è da
sempre senza controllo; ci fu controllo sotto il regime fascista, ma
riguardava solo gli orientamenti politici. Risalendo indietro, si possono
indicare molti esempi di docenti, specialmente fra i piú illustri, che
alla ricerca e all’insegnamento hanno dedicato un’attività
straordinaria e feconda; ho conosciuto scienziati che in lezioni,
esercitazioni, laboratorio passavano gran parte delle ventiquattro ore
quotidiane; d’altra parte è ben noto che trascuratezza e assenteismo
sono stati e sono una piaga dell’università italiana: decenni fa sentii
parlare di un professore molto scrupoloso della Facoltà di Giurisprudenza
di Roma, che era diventato una sorta di pecora nera, un caso scandaloso
fra i colleghi generalmente assenteisti, dediti a lucrose attività
professionali o a nobili attività politiche. La libertà d’insegnamento
è un valore sacro; ma non dico niente di nuovo, se ricordo che spesso è
stata e viene usata per coprire trascuratezza e inefficienza. Quindi è
ben degna di attenzione e di favore la proposta dell’Accademia di
istituire in tempi “strettissimi” una Agenzia di valutazione per la
ricerca e la didattica, un organismo autonomo da collocare fra il ministro
e l’università; bisognerà vedere come sarà formato e che poteri avrà. L’esperienza
fatta all’interno dell’università non può non alimentare la
sfiducia. Per esempio, il passaggio, per i docenti della prima fascia,
dallo status di
straordinario a quello di ordinario, è stato ed è una pura e inutile
formalità; ma non è questo il peggiore dei mali. I controlli di cui si
sente piú bisogno, riguardano i primi gradini della ricerca e
dell’insegnamento. Non si può dire che manchino le possibilità e i
modi; ma l’esperienza è desolante. Per esempio, per i ricercatori è
previsto un controllo, mediante giudizio, dell’attività dopo pochi anni
dall’inizio: non conosco nessun caso di ricercatore bloccato, con
giudizio negativo, per incompetenza e/o inefficienza; eppure non mancano i
ricercatori inetti. Perché questa paralisi dei controlli? Perché è
doloroso creare un disoccupato; perché è pericoloso offendere un
collega; la paura di ritorsioni produce una solida omertà, e ciò avvenne
in parecchi altri casi. Saranno importanti i criteri con cui l’Agenzia
verrà organizzata e con cui verranno fissati i compiti; ma molto piú
importante sarà la selezione dei membri a cui i compiti saranno affidati,
cioè di persone davvero competenti e indipendenti, che abbiano come unico
fine l’efficienza e il buon livello dell’università. Non so se sia
lecito sperare. Meno
discutibili e, forse, meno difficili a realizzarsi sono altre proposte:
Rettorato di cinque anni non rinnovabile; un albo dei dirigenti
dell’amministrazione; cambiamento frequente dei vertici
dell’amministrazione. 3.
Molti, e difficili, sono i problemi che riguardano l’articolazione della
didattica e della ricerca e gli organismi che devono assolvere i vari
compiti. Incominciamo dall’accesso all’università. Su questo
passaggio il documento mostra incertezze e non avanza proposte chiare. Non
è messo bene a fuoco il problema piú grave, aperto dalle condizioni
culturali disastrose degli studenti che provengono dalle nostre scuole
medie superiori. È notorio che sono divenuti comuni i casi di studenti
che si smarriscono nella costruzione grammaticale di un testo scritto; è
ovvio che non è questione di nozioni grammaticali, ma di formazione
mentale; non raramente si riscontra una povertà paurosa non solo di
logica e di gusto, ma anche di nozioni di ogni genere, a cominciare dalla
storia e dalla geografia. La causa di questa frana culturale è evidente a
tutti: è l’inefficienza del nostro sistema scolastico, specialmente
delle scuole medie superiori; va qui evitato il discorso, che sarebbe
senza fine, sulle cause sociali e politiche della frana della scuola; è
stata una grande conquista democratica la scuola per tutti, ma è stata
una colossale truffa la scuola che non serve a niente. Non è il caso di
tornare sull’esame di maturità, ridotto a un rito inutile; per una
breve fase si è arrivati persino all’esame di maturità sostenuto
davanti a una commissione formata quasi tutta dai docenti stessi: non
poteva essere che una farsa; si sa che, secondo un sano principio
liberale, la libertà d’insegnamento va bilanciata con un controllo
esterno efficace in determinati momenti di passaggio (ma si sa che in
quest’epoca di liberismo trionfante il liberalismo viene calpestato a
ogni passo). Poiché l’iter scolastico non garantisce nulla, c’è
bisogno di una prova di accesso all’università: basta una prova scritta
di italiano, integrata, quando opportuno, da un colloquio. Alcuni decenni
fa un eminente storico della lingua italiana della mia Facoltà (la Facoltà
di Lettere di Firenze) propose per il terzo anno lo sbarramento in base,
appunto, a una prova scritta di italiano; ma mi pare evidente che la prova
va spostata al momento dell’accesso. Un
ottimo consiglio dato nel documento è che nella prova di accesso vengano
evitati i quiz, che significano la miseria della cultura. Il numero chiuso
è una misura abominevole, ma credo che sia una triste necessità quando
sono fondamentali le esercitazioni di laboratorio e le possibilità
didattiche sono gravemente insufficienti. Da ultimo (ma avrei dovuto farla
all’inizio della trattazione su questo punto) una domanda, che vuole
essere anche un auspicio: quando verrà un ministro che abbia il coraggio
di proporre l’abolizione delle leggi Codignola? Grazie a queste leggi,
com’è noto, uno studente proveniente da qualunque scuola media
superiore può accedere a qualsiasi Facoltà: una liberalizzazione
demagogica e assurda. Fu approvata in fretta e furia in un momento di
convulsioni: fu accettata perché contribuiva a placare le ondate furiose
della rivolta degli studenti. Per non pochi anni i danni sono stati
rilevanti: per esempio, nelle Facoltà di Lettere si vedevano errare,
sperduti, smarriti, studenti provenienti da istituti tecnici, che non
avevano nessun presupposto necessario per interpretare un testo letterario
italiano[1].
È vero che, a causa delle ovvie difficoltà, aberrazioni del genere sono
diventate rare; comunque gli accessi all’università vanno regolati
secondo le scuole di provenienza; se il diplomato di un istituto tecnico
vuole accedere alla Facoltà di Lettere o di Giurisprudenza deve sostenere
un esame integrativo. Riflessioni
molto opportune ho trovate nel 3+2 e, piú in generale, sui percorsi
didattici. Si fa osservare che il 3+2 non va generalizzato, ma, piuttosto,
modificato secondo esigenze delle singole Facoltà e della preparazione.
Piú che il 3+2 in me suscitano molti dubbi la frammentazione in piccoli
corsi e il sistema dei crediti. I corsi brevi, di una quindicina di
lezioni, sono utili, forse, per formazioni professionali, ma non possono
dare nessuna formazione umanistica o scientifica di livello universitario;
meglio raggiungevano lo scopo, e fino a un certo punto, i corsi di 50 o 60
lezioni, accompagnati da esercitazioni. I crediti spesso apportano
contributi futili, di nessun peso, quando non sono dannosi. La divisione
in semestri, che non sono semestri di lezioni, separati da ampi
intervalli, serve a dare piú tempo libero e piú otia ai
docenti. La frammentazione ha abbassato ulteriormente il livello
dell’insegnamento, che la commissione dei Lincei denunzia senza
esitazione. Piú difficile sarà passare da queste giuste riflessioni alle
proposte alternative. Il
ruolo del Dipartimento è mantenuto e rafforzato; fin qua credo che si
debba concordare. Ma, da quando il Dipartimento, sul modello di università
straniere, è stato istituito, io ho sempre ritenuto che sulle sue
funzioni e sui suoi scopi non ci sia stata chiarezza sufficiente; esporrò
qui la mia idea del Dipartimento. Il passaggio all’università di massa
è stato certamente un progresso, ma la ricerca di massa sarebbe un
disastro, anzi è impossibile. Alla Facoltà va assegnata la funzione
didattica per la massa; per funzione didattica intendo, prevalentemente,
la trasmissione critica del sapere; è ovvio che un docente, se ne è
capace e se ne ha voglia, può condurre nel suo corso una ricerca
innovativa e offrire un esempio di metodo. Viene mantenuta la divisione in
corsi di laurea; ma la commissione dei Lincei denuncia giustamente
l’incredibile superfetazione di questi corsi e auspica una decisa
riduzione. Nei miei primi anni di insegnamento universitario fui docente
presso la Facoltà di Magistero di Firenze. V’era, ovviamente, una
cattedra di psicologia; ma in un Consiglio di Facoltà fu proposta
l’istituzione di una cattedra di psicologia dell’età evolutiva: io mi
stupii, perché pensavo che quella materia potesse essere insegnata
nell’ambito della psicologia; forse avevo torto; ma chi avrebbe
immaginato che poco dopo si sarebbe sviluppata una giungla di insegnamenti
del genere? La moltiplicazione è, in piccola parte, causata
dall’evoluzione della ricerca, dal bisogno di specializzazione, dal
bisogno di rispondere a esigenze nuove dell’economia; in gran parte, però,
è dovuta alla solita brama dei professori universitari, cioè al bisogno
di creare posti per i propri allievi e clienti. Se la didattica è il
compito della Facoltà, il Dipartimento, che può afferire a piú Facoltà,
dovrebbe curare la formazione scientifica; l’insegnamento, invece che
alle folle, dovrebbe essere rivolto a gruppi limitati, formati da dottori
di ricerca e da laureandi, magari selezionati. La forma d’insegnamento
dovrebbe essere il seminario; io preferirei che questo fosse guidato da
due docenti piuttosto che da uno solo; i docenti dovrebbero essere diversi
da quelli della Facoltà: dovrebbero avere il compito specifico
dell’insegnamento dipartimentale ed essere selezionati a questo scopo.
La partecipazione al seminario dovrebbe essere libera per altri docenti
della Facoltà, specialmente per i ricercatori. Nel
quadro piuttosto incerto è chiaro, però, che il Dipartimento deve curare
il dottorato di ricerca. Ci saranno, specialmente nelle Facoltà
scientifiche, corsi di dottorato ben organizzati ed efficienti; io, però,
prima della fine del secolo scorso ne ho avuto un’esperienza deludente.
L’insegnamento consisteva in brevi corsi sporadici; mancava ogni
continuità; procedeva meglio la preparazione delle tesi di dottorato. Ciò
dipende soprattutto dal fatto che quei brevi corsi erano un’appendice
all’attività dei docenti della Facoltà: ciò mi conferma nella
convinzione che per il Dipartimento occorrono docenti specifici e
qualificati. Ancora piú difficile è risolvere il problema che si apre
dopo la conclusione del dottorato: non c’è un chiaro raccordo del
dottorato di ricerca con l’iter universitario o con un iter di ricerca;
dopo una bella tesi i dottori si trovano disorientati, smarriti, sgomenti;
le borse di studio post-dottorato sono un rimedio precario. In alternativa
al dottorato di ricerca ci sono corsi di preparazione professionale, per
esempio per i laureati in lettere scuole speciali di preparazione
all’insegnamento. Si può ben dire che l’istituzione di queste scuole
è stata fallimentare. Ben pochi docenti erano preparati ai compiti
necessari a queste scuole; anche questi compiti venivano assolti in
appendice all’insegnamento ordinario; sarebbe stato opportuno riservare
compiti a docenti esentati dall’insegnamento ordinario. Molto
discutibile il contenuto dell’insegnamento. L’istituzione di tali
scuole è partita dalla giusta opinione, abbastanza diffusa, che la
padronanza di una disciplina non basta per insegnarla: contano molto il
contatto con gli alunni, la capacità di tener desta la loro attenzione,
di interessarli, coinvolgerli; l’insegnamento è un’arte, ma non
un’arte che si possa improvvisare. Della
necessità di una buona preparazione didattica sono stato convinto da
decenni anche in base all’esperienza che feci da giovane come professore
di liceo. Secondo me i compiti delle scuole di preparazione
all’insegnamento dovrebbero essere questi: 1) consolidamento nelle
discipline da insegnare; 2) didattica generale; 3) didattica speciale per
le discipline da insegnare; 4) elementi di pedagogia, di psicologia, di
sociologia; 5) tirocinio di insegnamento, cioè esperienza diretta nelle
scuole. Specialmente per l’ultimo punto sono molto utili la
collaborazione con i Provveditorati agli Studi e la cooperazione con
docenti delle scuole medie ricchi di esperienza. Lo scarso successo è
dovuto alla novità dell’esperimento e alla debolezza dell’impegno;
per la didattica speciale nelle singole discipline è molto difficile
trovare i competenti; parecchio, credo, ha influito la petulante influenza
dei pedagogisti, che pretendono in queste scuole uno spazio eccessivo:
ancora una volta si constata in Italia l’enorme difficoltà di una
proficua collaborazione fra docenti, sia delle scuole medie sia
dell’università, e i pedagogisti, non raramente vacui predicatori. Per
l’anno accademico 2008-2009 le scuole di preparazione all’insegnamento
sono state eliminate; la misura drastica, piú che al cattivo
funzionamento, è dovuta ai tagli della spesa pubblica, che si sono
abbattuti sulla scuola, sull’università e sulla ricerca in modo
deleterio; ora pare che il ministero voglia reintrodurle; in questa
confusione catastrofica nessuno se la sente di avanzare previsioni e
proposte. 4.
Veniamo, in ultimo, al problema piú difficile e piú spinoso: la
selezione dei docenti. Qui mi limito ai docenti della fascia piú alta. Da
una quarantina di anni in qua i modi di selezione, cioè i sistemi di
concorso, sono cambiati piú volte, senza che si sia avuto il minimo
miglioramento; anzi l’iniquità dei concorsi è arrivata, come tutti
sanno, a punti stupefacenti ed è da tempo prassi usuale. Credo che
nessuno oggi, tanto meno io, sia in grado di indicare una soluzione
soddisfacente; la difficoltà è dovuta soprattutto alla disonestà dei
giudici, che nella nostra università è dilagante; sia ben chiaro che non
intendo scagliare pietre contro nessuno: si tratta di un sistema che tutti
noi docenti abbiamo dovuto subire. Quando
io, piú di mezzo secolo fa, affrontai il concorso universitario, la
commissione sceglieva una terna; spesso dietro due vincitori validi si
nascondeva uno scadente; quando le cose andavano male, i vincitori
scadenti erano due; almeno i candidati che nell’opinione accademica
corrente erano i migliori, riuscivano a vincere; non dico che le eccezioni
fossero rare, ma questa era la prassi. Oggi il rispetto per il valore e il
lavoro dei candidati è ridotto a zero. Una forte spinta a questo processo
di corruzione è venuta dal crescente peso dato alle singole Facoltà
nell’organizzazione e nell’espletamento dei concorsi; nella
commissione giudicante è entrato un membro designato dalla Facoltà,
generalmente un membro della Facoltà stessa. Inoltre la Facoltà
chiedente il concorso si è cautelata con uno stratagemma: la Facoltà
deve scegliere tra i vincitori del concorso (una bina o una terna) quello
corrispondente a un profilo determinato, rispondente a un progetto di
ricerca; naturalmente progetto e profilo sono stati delineati in modo da
calzare perfettamente col candidato designato dalla Facoltà; quasi mai è
successo che il candidato designato non abbia vinto e non sia stato scelto
dalla Facoltà; questo procedimento è stato favorito dal fatto che il
candidato designato insegna già, come ricercatore o associato, nella
Facoltà: dunque ne deriva un risparmio di spesa per l’università in
cui la Facoltà rientra. È facile capire che il profilo è un trucco
miserevole: la ricerca progettata ha generalmente una durata limitata; il
docente cooptato insegnerà fino a settant’anni; cosí ciascuna Facoltà
si è chiusa in se stessa, come una roccaforte, sempre piú povera di
energie per la ricerca. Questa spinta si è aggiunta all’influenza delle
clientele, un male che esiste da sempre, ma che quasi in tutte le aree
della nostra società si è molto aggravato, com’è ben noto, nell’era
democristiana. Una malattia piú recente, sviluppatasi con rapidità da un
quarantennio circa, è l’influenza della parentela. Un collega eminente,
che insegna storia, mi ha raccontato una sua vicenda giovanile: dopo la
laurea voleva diventare assistente del suo professore; ma il professore,
che pure aveva grande stima del suo allievo, rifiutò perché il padre
dell’allievo era suo collega nella Facoltà; la vicenda risale a una
sessantina di anni fa, ma sembra che siano passati dei secoli. Oggi i casi
di docenti che hanno cooptato nella propria Facoltà mogli o concubine o
figli non si contano piú; alcuni anni fa abbiamo assistito a un concorso
organizzato da alcuni colleghi, per collocare nell’università, con un
colpo solo, mogli e amanti; superfluo aggiungere che il progetto ebbe
pieno successo; in tempi meno recenti un noto italianista, noto anche per
la collaborazione a giornali, causò una tempesta in una Facoltà di
Lettere di Roma per far chiamare la sua amante, divenuta poi, se non erro,
sua moglie. E cosí via. L’inquinamento
dei concorsi universitari in Italia, il cui esito è generalmente
conosciuto in anticipo fin nei dettagli, è cosí noto che, a denunciarlo
di nuovo, ci si copre di ridicolo; dopo tanti cambiamenti, che quasi
sempre hanno peggiorato la situazione, è ridicolo anche proporre rimedi;
si finisce per concludere, con alcuni storici antichi, che le leggi non
servono a niente quando i mores sono
corrotti. Comunque la soluzione accettata dalla commissione
dell’Accademia è tra le peggiori. La commissione accoglie la proposta,
già formulata in passato, di selezionare attraverso concorso, per
ciascuna disciplina, un albo nazionale di idonei. Una buona proposta, che
diviene disastrosa per il modo in cui viene precisata: l’albo non
dovrebbe essere a numero chiuso, ma aperto. Sembra che questi colleghi non
vivano in Italia, ma nella Città del Sole. È facile prevedere che cosa
succederà nel nostro paese, se l’albo sarà a numero aperto: vi
entreranno tutti gli aspiranti che abbiano un sostenitore dentro
l’università. Chi ha la mia età ricorderà la conclusione disastrosa
della libera docenza: quando il numero fu aperto, vi entrarono,
specialmente nella Facoltà di Medicina, dove il titolo di professore
impinguava i guadagni, molte nullità; il titolo fu coperto di tale
discredito che, persino in Italia, fu abolito. Il titolo di idoneo
diventerebbe, come la libera docenza, il famoso sigaro di Vittorio
Emanuele II: «Un sigaro e una croce di cavaliere non si nega a nessuno».
Dunque sí all’albo nazionale, ma a numero chiuso; lo si potrà
aumentare, rispetto al numero dei posti messi a concorso, di un 10% o, al
massimo, 20%. Se
la selezione dell’albo è seria, non c’è bisogno di passare
attraverso altri concorsi: ciascuna Facoltà potrà scegliere nell’albo
nazionale, giustificando, secondo la prassi corrente, la propria scelta
con una relazione. Il numero aperto renderebbe l’albo nazionale inutile:
tanto varrebbe lasciare la scelta alle singole Facoltà: si
risparmierebbero danaro pubblico e tempo. La proposta della commissione si
inquadra in un orientamento secondo me radicalmente errato: tende a
responsabilizzare i docenti universitari; ciò presuppone una profonda
ignoranza della situazione dell’università italiana: i docenti
universitari italiani, anche quando sono persone dabbene, sono
generalmente irresponsabili e la loro irresponsabilità è la causa piú
grave della malattia. Da decenni sono arrivato alla conclusione che la
responsabilità dello sfascio della scuola ricade soprattutto sui governi,
di qualunque colore, in parte anche sui sindacati; la responsabilità
della grave decadenza dell’università ricade sull’avidità di potere
e sulla miopia dei docenti universitari, miopia che sussiste anche quando
i docenti sono scienziati, storici, filologi di grande valore. In
conclusione non farei nessun affidamento sul senso di responsabilità dei
nostri docenti universitari: occorrono regole quanto piú possibile
precise e vincolanti. Con questo difficilissimo problema fa tutt’uno
quello dell’elezione delle commissioni giudicanti. Quando ero giovane,
l’elezione dei cinque membri era diretta. Negli anni cinquanta e
sessanta insoddisfazione e protesta montarono perché le elezioni erano
dominate da gruppi ristretti di potere; i membri di quei gruppi si davano
il turno nelle commissioni giudicanti. Si capisce che i detentori del
potere erano molto corteggiati; erano famosi alcuni ras, amati da pochi,
temuti dai piú; ricordo soprattutto, nell’ambito delle Facoltà di
Lettere e di Magistero, un famoso ras siciliano, glottologo insigne,
fascista e già membro del Consiglio Superiore della Razza, ma sfuggito,
per ragioni facilmente comprensibili, a ogni epurazione; la sua avidità
di potere era sconfinata. Dopo gli anni sessanta si tentarono rimedi: il
sorteggio puro e semplice; l’elezione di un numero doppio (ora si parla
anche di un numero triplo) di docenti rispetto a quello dei commissari e
sorteggio. Oggi si può ben dire che i rimedi si sono dimostrati peggiori
del male. Il giudice sorteggiato non diventa piú giusto grazie alla buona
sorte; giacché è del tutto incerto che la Fortuna lo favorisca
un’altra volta, egli ritiene di dover profittare dell’occasione
offertagli per risolvere i suoi problemi, ciò per collocare allievi e
clienti, prescindendo completamente dal loro valore. Fra i potenti del
tempo della mia giovinezza prevalevano studiosi di grande competenza e
ingegno; la sorte non guarda alle qualità del giudice. Confesso di non
avere una ricetta per il problema; forse la cooptazione in commissione di
colleghi stranieri o la richiesta di loro giudizi scritti potrebbe
attenuare il male, che consiste nella grande difficoltà di trovare
giudici disinteressati ed equi. Solo una raccomandazione mi sentirei di
dare con certezza: non restringere la base elettorale; se l’elettorato
è ristretto ai docenti di singole discipline, la formazione di gruppi di
potere è piú facile, d’altra parte tornare a una base elettorale che
comprenda tutti i membri delle Facoltà italiane in cui si insegnano le
discipline messe a concorso, è improponibile: dunque si estenda la base
elettorale alle materie affini, secondo un sistema già messo alla prova. Altro
problema difficile è come gestire i concorsi affollati, con centinaia di
candidati (per esempio, i concorsi di letteratura italiana). Affidare a
una sola commissione il giudizio su centinaia di candidati è una farsa
(una farsa che, purtroppo, è già stata rappresentata piú volte); per
concorsi di queste dimensioni bisognerebbe, io credo, dividere l’Italia
in piú zone universitarie e formare, in corrispondenza, commissioni
diverse. Tuttavia
la parte dedicata alla docenza universitaria non va rifiutata interamente.
La commissione fa notare giustamente che «l’internazionalizzazione del
sistema universitario non è compatibile con la prassi dei concorsi
nazionali»; ma fa notare anche quante difficoltà si presentano per
l’internazionalizzazione dei concorsi; la via è lunga: ci sarà tempo
per riflettere. In modo giusto la commissione affronta il problema della
mobilità dei docenti, cioè del passaggio dei docenti da una Facoltà
all’altra, da una sede all’altra. Temo che il problema non sia
compreso in tutta la sua gravità. Durano gli inconvenienti del
pendolarismo, male cronico dell’università italiana, ancora molto
diffuso (ne soffre anche una scuola di eccellenza come la Scuola Normale
Superiore di Pisa); in questo senso la mobilità è in piena efficienza;
invece negli ultimi decenni è diventato raro il trasferimento dei docenti
da una sede all’altra; la causa è nella chiusura di ciascuna Facoltà
in se stessa, un immiserimento a cui ho accennato poco fa; dopo che entrai
nell’università, per alcuni decenni, le chiamate di docenti da altre
sedi erano una buona consuetudine, benché non raramente dessero luogo a
conflitti asperrimi; ora ciascuna Facoltà si preoccupa di fare scorrere
al suo interno i docenti che già ci sono, indipendentemente dal loro
valore: è molto facile capire le conseguenze. Giustamente la commissione
raccomanda di scoraggiare la permanenza dei giovani studiosi nell’Ateneo
in cui si sono formati. Quanto alla chiamata per chiara fama raccomanda
procedure rigorose; io la vedrei volentieri soppressa. In passato non sono
stati rari gli abusi, soprattutto per servilismo politico; oggi il
servilismo politico mi pare poco diffuso nell’università; ma la fama,
piú o meno chiara, tocca generalmente a giornalisti, spesso anche
mediocri anche come tali, e a manipolatori di storia e di scienze nelle
trasmissioni televisive: c’è il pericolo di riempire l’università di
abili comunicatori, che non sanno neppure che cosa è una ricerca in
archivio o in laboratorio. L’università potrebbe essere inghiottita
dalla trivialità culturale che la circonda. Alcuni
dissensi, anche netti, non mi impediscono di vedere nel documento
elaborato dalla commissione dei Lincei un contributo molto utile ad
affrontare i molti e spinosi problemi della nostra università. Ma, nel
clima attuale, dubito che possa avere un effetto rilevante. La
degradazione politica tocca oggi punte stupefacenti: il nuovo Caligola non
solo ha fatto console il suo cavallo, ma ha messo a covare la scuola e
l’università una gallina santimoniosa presa dal suo numeroso pollaio. Antonio La Penna [1] «Il
Ponte» non è d’accordo con La Penna su questo giudizio sull’azione
di Codignola nel liberalizzare gli accessi all’università. Codignola
riteneva che la maturità conseguita nella scuola media superiore
permettesse allo studente di compiere la scelta giusta per la facoltà
universitaria. Ovviamente chi non conosceva determinate discipline (in
modo specifico si allude qui al latino e al greco) avrebbe dovuto
provvedere di persona, aiutato magari da qualche corso universitario
integrativo, ma l’università ancora una volta fu assente. Resta il
fatto, comunque, che la liberalizzazione degli accessi all’università
fu un atto di democrazia di cui non solo l’università ma la società
italiana aveva grande bisogno (ndd). tratto da: Il Ponte , dicembre 2009
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