Franco Manni

 

 

Il pensiero del XIX secolo su vizi e virtù

 

 

 

I. Temi e Problemi

 

·                           buona azione, virtù, buona salute (mentale) : definizioni di queste espressioni e loro rapporti. La buona azione può essere vista come un singolo atto che dia bene agli altri e/o a sé, di solito accompagnato dall’idea di “merito”. Una virtù è piuttosto una abituale tendenza a comportarsi in maniera tale da giovare a sé e/o agli altri, con possibilità di fare diventare sé e/o gli altri felici: essa può essere innata (una “dote”) e dunque non sempre associata all’idea di “merito”. La buona salute (mentale, psicologica, di “carattere”) ha le stesse caratteristiche della virtù ma in essa maggiormente è assente l’idea di “merito”, e dunque di “volontarietà” e responsabilità; inoltre in essa è più chiara l’idea di giovare a sé (piuttosto che agli altri) e di diventare felici. Infine un argomento di riflessione è: queste tre realtà sono innate, acquisite o sono entrambe le cose? Virtù (idea di volontarietà e di non fisicità), doti (idea di non volontarietà, e sia fisiche sia non fisiche, cioè  psicologiche) , qualità (sia volontarie sia non volontarie, sia fisiche sia psicologiche),

·                           Peccato, vizio, malattia (mentale): definizioni di queste espressioni e loro rapporti. Il peccato può essere visto come una singola infrazione a un dovere focalizzato su una persona una autorità, una comunità, di solito infrazione accompagnata dall’idea di “colpa” (che è l’idea speculare di quella di “merito”). Il vizio invece è visto come un’abituale tendenza a comportarsi in maniera tale da nuocere a sé e/o agli altri, con la conseguenza di rendere dunque infelici sé e/o gli altri. La malattia (mentale, psicologica, di “carattere”) ha le stesse caratteristiche del vizio, ma in essa è più chiara l’idea di nuocere a sé (piuttosto che agli altri) e di diventare infelici. Infine un argomento di riflessione è: queste tre realtà sono innate, acquisite o sono entrambe le cose? Vizi (idea di volontarietà e di non fisicità), malattie (idea di non volontarietà, e sia fisiche sia non fisiche, cioè  psicologiche), difetti (sia volontari sia non volontari, sia fisici sia psicologici)

·                           Il problema del “moralismo” cioè dell’atteggiamento che ci fa esprimere spesso giudizi morali: per quali motivi siamo portati a giudicare sè ma soprattutto gli altri? Più per cercare di aiutare a migliorarsi o più per aggredire, accusare? Per quali motivi – all’opposto – siamo “tolleranti” e non giudichiamo né noi stessi né gli altri? Per irresponsabilità, per confusione, oppure per tolleranza empatica, per accogliere?

·                           Virtù e Felicità, Vizio e Infelicità. L’etica – cioè il nostro comportamento volto ai valori (beni) più importanti -  come è collegata con la Felicità (il sommo bene)? È sufficiente l’etica a raggiungere la felicità? È necessaria ma non è sufficiente? Non è sufficiente e anche non è necessaria? Detto con altre parole: esistono i buoni infelici ed esistono i cattivi felici , oppure no?

·                           Il pensiero contemporaneo: per “contemporaneità” si intendono varie cose, nella convenzione universitaria di distingue dalla “modernità” e si fa coincidere di solito con XIX e XX secolo

·                          tra gli autori e le correnti di pensiero di XIX e XX secolo che vorrei trattare in questo corso ci sono: Il Romanticismo e G.W. F. Hegel, il marxismo, il neoidealismo di Benedetto Croce, la psicanalisi di Sigmund Freud , l'esistenzialismo di J. P. Sartre, la teologia protestante di Barth e Bonhoeffer, la teologia cattolica di  De Lubac e  Rahner, la psicanalisi di Melanie Klein e Donald Winnicott, la società aperta di Karl R. Popper.

·                          felicità, ragione, interpersonalità. Per secoli – soprattutto nell'Età Moderna (XVI-XVIII secolo) - sia le filosofie sia il senso comune hanno tenuto separati i discorsi su felicità, ragione, interpersonalità. In tal modo si sono prodotte: a) visioni della felicità emotivistiche, edonistiche e mistiche: cioè senza connessione con la ragione o senza connessione col rapporto interpersonale. b) visioni della ragione intellettualistiche o matematizzanti: cioè senza connessione col rapporto interpersonale e senza connessione con la felicità. c)  visioni dell’amore sentimentalistiche (come nel romanticismo) e ascetiche (come in Kant): cioè senza connessione con la ragione o senza connessione con la felicità. Dal XIX secolo  in poi, però, l’intrecciarsi delle cause più varie , alcune categorie di pensatori sono arrivate a convergere in una visione diversa, in cui i tre elementi costituiscono le parti di un discorso unico. In  tale sviluppo il pensiero contemporaneo  ha visto che per la soluzione del problema antropologico («Cosa è l’uomo?») e del problema etico («Come l’uomo può essere felice?»), l’attenzione alla «salute» ossia alla felicità come realizzazione della natura umana, l’attenzione alla razionalità, e l’attenzione al rapporto interpersonale devono convergere, non devono separarsi né tanto meno contrapporsi.

 

 

II. Romanticismo

 

 

  • il Romanticismo è un complesso movimento culturale a cavallo tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, cominciato in Inghilterra ma diffusosi soprattutto in Germania, e successivamente in Francia ed Italia. Esso coinvolge le varie arti (poesia, musica, pittura) ma anche il “pensiero”. Succede all'Illuminismo, precede il Positivismo. È fortemente collegato alle grandi e drammatiche esperienze politiche, sociali ed umane legate alla Rivoluzione Francese e alle Guerre Napoleoniche; questo legame è esplicitato in alcune opere come Le rouge et le noir di Stendhal e lo Jacopo Ortis di Foscolo

 

 

  • Virtù :             l'integralità e polivalenza delle facoltà
  • Virtù: il nutrimento della tradizione    
  • Virtù: la superiorità e il ruolo salvifico dell'arte
  • Virtù: la idealizzazione del sentimento
  • Virtù: l'anticonformismo (coraggio, genio, libertà)
  • Virtù: il contatto con la “natura”
  • Virtù: la continua tensione verso l'infinito
  • Virtù: la sensibilità alla fantasia e la credenza nella magia            
  • Virtù: coraggio e devozione alla patria

 

 

  • Vizio: la sopravvalutazione dell'intelletto “astratto” (scientifico ed operativo)
  • Vizio: viltà e servilismo
  • Vizio: l'artificialità inautentica della civiltà
  • Vizio: il “filisteismo”: conformismo, materialismo, meschinità e strettezza mentale, carrierismo, assolutizzazione del quieto vivere                                                

                                                                                                                                                                                                                                                                                   

  • il Romanticismo ha influito in cose molto concrete come nella trasformazione del matrimonio, nel ruolo sociale dell'artista, nell'ecologismo. Si è riprodotto in vari momenti successivi di neo-romanticismo: il decadentismo, l'ideologia nazifascista, il movimento beat

 

 

 

Bibliografia

 

Johann Wolfgang Goethe, I dolori del giovane Werther

Friederich Holderlin, Hyperion

Jean Jacques Rousseau, Discorso sulle scienze e sulle arti

Friedrich Schleiermacher, Discorsi di religione

Friedrich Schlegel, Pensieri sulla filosofia

Novalis, Paralipomeni ai Discepoli di Sais

Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri

Francoise Auguste René Chateaubriand, René

Giuseppe Mazzini, I doveri dell'uomo

Joseph De Maistre, Du Pape

 

 

 

 

 

 

I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang Goethe, 1774

 

Per il resto qui mi trovo proprio bene, la solitudine stilla da questi luoghi

paradisiaci un balsamo prezioso nel mio cuore, e la stagione della gioventù lo

riscalda vigorosamente, facile com'è lui ai brividi. Ogni albero, ogni siepe è

un mazzo di fiori, e vorrei trasformarmi in un maggiolino per svolazzare nel

mare dei profumi e suggervi tutto il nutrimento necessario.

La città in sé è brutta, però con tutt'intorno l'indicibile bellezza della

natura. Il che convinse il fu conte von M... a farsi un giardino su una delle

colline che s'intersecano nella leggiadra mutevolezza dei pendii e dei poggi che

si rincorrono attraverso le valli. Il giardino è semplice, e già all'entrata si

sente che al progetto non ha posto mano un giardiniere da tavolino, ma un cuore

sensibile che voleva venirci per godervi i propri battiti. Devo dire che ho

versato qualche lacrima alla sua memoria nel piccolo padiglione fatiscente che

era il suo posticino preferito e che ora è diventato il mio. Ci manca poco che

diventi io il padrone del giardino; ci vengo da un paio di giorni soltanto e il

giardiniere mi si è già affezionato, e non avrà certo di che pentirsene.

 

 

Come fai a chiedermi se non dovresti mandarmi i miei libri? Mio caro, per l'amor

di Dio, non nominarmeli neppure! Non voglio più essere guidato, incoraggiato,

infervorato, questo cuore è già abbastanza attivo per conto suo; quello di cui

ho bisogno è una ninna-nanna, e l'ho trovata pienamente nel mio Omero. Quante

volte cullo il mio sangue in ebollizione fino a calmarlo, e non ti capiterà mai

di trovare qualcosa di più disuguale, di più instabile di questo mio cuore.

Caro, ma devo propio dirlo a te che così spesso hai dovuto sopportare di vedermi

passare dalla titubanza all'eccesso e dalla malinconia più dolce alla passione

più sfibrante? E allora tratto il mio cuoricino come un bambino ammalato: ogni

capriccio gli viene concesso. Ma non dirlo in giro: qualcuno potrebbe

disapprovarmi.

 

 

Che la vita degli uomini sia soltanto un sogno, l'hanno pensato in molti, e

anche a me capita continuamente di sentirmi attirato da questa sensazione.

Quando vedo la limitatezza in cui sono prigioniere le energie fattive e

sperimentali dell'uomo... quando vedo come ogni azione tenda alla soddisfazione

di bisogni che altro scopo non hanno se non quello di allungare la nostra misera

esistenza, e per giunta che ogni appagamento riguardo a certi punti della

scienza non è che una sognante rassegnazione, un dipingere le pareti fra le

quali siamo incastrati di figure variopinte e di scorci luminosi, ecco, tutto

ciò, Guglielmo, mi fa restare di sasso. Mi ripiego in me stesso, trovo il mio

mondo! daccapo fatto più di presentimenti e oscure voglie che di realtà e

energie vive. E allora tutto s'annebbia in me e continuo trasognato a sorridere

al mondo così com'è.

Che i bambini, non sappiano che cosa vogliono, è un fatto su cui sapienti

pedagoghi e maestri tutti sono concordi; ma che anche gli adulti, come i

bambini, brancolino su questa terra e come quelli non sappiano né da dove

vengono né dove vanno e che non agiscano per motivi veri e propri e vengano

parimenti governati con leccornie e vergate, nessuno lo vuole credere

volentieri, eppure a me sembra trattarsi di una verità lampante.

 

 

 Non ho mai

trovato un posticino così intimo e suggestivo, e lì mi faccio portare un

tavolino e una sedia dall'osteria, bevo il mio caffè e mi leggo Omero. Un bel

pomeriggio, la prima volta che per caso arrivai sotto i tigli, la piazzetta era

completamente deserta. Erano tutti nei campi; solo un ragazzino di circa quattro

anni se ne stava seduto per terra e teneva in braccio un bambino di circa sei

mesi, rannicchiato fra le sue gambe, e se lo stringeva al petto con entrambe le

braccia, fungendogli per così dire da sgabello e, malgrado la vivacità con cui

ruotava gli occhioni neri, il marmocchietto se ne stava seduto tutto bello

tranquillo. A quella vista mi rallegrai, mi sedetti sopra un aratro che si

trovava dirimpetto e mi misi a disegnare di slancio quella scenetta fraterna. Vi

aggiunsi la vicina siepe, il portone di un granaio e alcune ruote di carro

sfasciate, tutto così come stava, e dopo un'ora scoprii che avevo messo a punto

un disegno ben proporzionato e molto interessante, senza aggiungervi

assolutamente niente di mio. La cosa mi ha rinforzato nel mio proposito di

attenermi in futuro solo alla natura. Soltanto essa è infinitamente ricca ed

essa soltanto forma il grande artista. Si può dire molto in favore delle regole,

suppergiù quanto si può dire in lode della società borghese. Un uomo che vi si è

conformato, non produrrà mai qualcosa di insulso o di cattivo, così come chi si

lascia modellare dalle leggi e dalle convenzioni non potrà mai diventare un

vicino insopportabile o un'insigne canaglia; per contro, checché se ne dica,

tutte le regole finiranno per distruggere il vero sentimento della natura e

della sua espressione. Dirai che esagero, che la regola si limita a moderare,

pota i rami ridondanti eccetera. Caro amico, vuoi che ti faccia un paragone? È

la stessa cosa con l'amore. Un giovane cuore si appunta a quello di una ragazza,

trascorre tutte le ore della giornata accanto a lei, profonde tutte le sue

energie, tutto il suo patrimonio per poterle esprimere attimo dopo attimo tutta

la sua dedizione. Ed ecco che arriva un filisteo, uno che riveste una carica

pubblica, e gli dice: «Caro il mio giovanotto! amare è umano, a patto che si ami

umanamente! Suddividi le tue ore: tante al lavoro, e quelle per lo svago

dedicale pure alla tua ragazza. Calcola bene il tuo patrimonio e quello che ti

rimane una volta fatto fronte al necessario, io non ti proibisco affatto di

farle un regalo, sempre che non diventi un'abitudine, al suo compleanno, per

esempio, o al suo onomastico eccetera eccetera.» Se il giovanotto è ubbidiente,

ecco che abbiamo un uomo utile, e io stesso sarei il primo a consigliare a ogni

principe di metterlo in qualche commissione; solo che possiamo mettere una

pietra sopra il suo amore e, se si tratta di un artista, sopra la sua arte.

Amici miei! perché mai la corrente del genio erompe così raramente, così

raramente straripa sì da scuotere le vostre anime attonite? Cari amici, è là che

abitano i pacifici signori, sulle due sponde, e le loro villette e aiuole di

tulipani e orticelli verrebbero devastati, ecco perché provvedono a tempo con

dighe e canali per deviare il pericolo che li minaccia.

 

 Caro Guglielmo, ho fatto ogni genere di riflessioni sulla bramosia dell'uomo di

espandersi, di fare nuove scoperte, di vagare per il mondo; e poi sul recondito

impulso a limitarsi volontariamente, a procedere nel solco dell'abitudine senza

preoccuparsi di guardare né a destra né a sinistra.

È curioso il fatto che io sia arrivato qui e dalla collina abbia scorto la bella

vallata, abbia sentito da ogni dove una specie di richiamo... Ecco laggiù il

boschetto! Ah, potersi immergere nella sua ombra! e laggiù ancora la cima della

montagna! Ah, poter contemplare da là la vasta regione! la catena delle colline

e le nostre valli! Oh, se potessi sperdermi in esse! Poi sono corso laggiù e

sono tornato senza aver trovato ciò che speravo. Oh, la distanza per me è come

il futuro. Un tutto nebuloso giace davanti all'anima, la nostra sensibilità vi

si smarrisce, i nostri sensi non bastano più e noi, ahimè, aneliamo a lasciarci

andare con tutto il nostro essere per lasciarci colmare dalla voluttà di un

unico, grande, splendido sentimento... Ahimè, e quando vi accorriamo, quando il

«là» diventa «qui», tutto è come prima, ci ritroviamo nella nostra miseria di

sempre, nella nostra limitatezza, e la nostra anima riprende a struggersi per

quella promessa rinviata.

Per questo il vagabondo più inquieto alla fine sospira per la sua patria e trova

nella sua capanna, accanto alla sua sposa, nella cerchia dei suoi figli, nello

strapazzo per mantenerli, quella voluttà che ha cercato invano nella vastità del

mondo.

 

L'altro ieri il medico è venuto dalla città a visitare l'intendente e mi ha

trovato steso a terra fra i bambini di Lotte che mi saltavano addosso, che mi

prendevano in giro, io che gli facevo il solletico e loro che facevano un gran

baccano. Il dottore, che è una marionetta tutta mossa da dogmi e che quando

parla continua a pizzicarsi le pieghette dei polsini e a lisciarsi una cravatta

sterminata, trovò che ciò è indegno di un uomo dabbene, me ne sono reso conto

dalle smorfie del suo naso. Il che non mi ha fatto né caldo né freddo, l'ho

lasciato continuare nelle sue pedanti tiritere e ho ricostruito ai bambini le

case di carte che avevano buttato giù. Inoltre è andato in giro a lamentarsi che

i figli dell'intendente sono già abbastanza maleducati per conto loro, ci

mancava solo quel Werther là per rovinarli del tutto.

Eh sì, caro Guglielmo, per me i bambini sono la cosa più preziosa del mondo.

Quando li sto a guardare e vedo in quei piccoli esseri il germe di tutte le

qualità, di tutte le energie che un giorno gli saranno tanto necessarie...

quando scorgo nell'ostinazione la futura perseveranza e la fermezza di

carattere, e nella loro petulanza il buon umore e la leggerezza per sgusciare

fuori dai pericoli del mondo, e tutto in modo così schietto, integro, ripeto

sempre, sempre le auree parole del Maestro degli uomini: «Se non diverrete come

uno di loro...» E invece, mio caro, loro, i nostri simili, che dovremmo prendere

a esempio, noi li trattiamo come dei sudditi. Non devono avere una loro volontà!

Ma noi non ne abbiamo una, forse? E dove sarebbe il privilegio? Nell'essere più

vecchi e più abili? O buon Dio del cielo, tu non vedi che bambini vecchi e

bambini giovani e nient'altro; e di quali ti compiaci di più, l'ha già espresso

tuo figlio tanto tempo fa. Però essi professano fede in lui senza ascoltarlo -

vecchia solfa anche questa! - e crescono i loro figli prendendo a modello se

stessi - adieu, Guglielmo! basta con questi vaneggiamenti.

 

dopodiché il giovane prese di nuovo la

parola: «Lei ha definito vizio il cattivo umore, mi sembra che sia esagerato.»

«Niente affatto,» risposi, «esso merita questo nome quando nuoce a noi stessi e

agli altri. Non è già abbastanza non riuscire a renderci felici, gli uni con gli

altri, dobbiamo anche derubarci del piacere che ognuno di noi talvolta riesce a

procurarsi? E mi dica chi è quell'individuo che ha la luna di traverso e che è

malgrado tutto capace di nasconderla, di tenersela per sé, cioè, senza turbare

ogni gioia attorno. O piuttosto non si tratta di un rancore represso per la

nostra inferiorità, della consapevolezza della nostra pochezza sempre legata

alla gelosia e aizzata da una sciocca vanità? Vediamo persone felici e non siamo

noi a farle felici, e questo ci è insopportabile.» Lotte mi sorrise vedendo con

quanto impeto parlavo, e una lacrima negli occhi di Federica mi spronò a

proseguire. «Guai a coloro,» dissi, «che si servono del potere che hanno su

qualcuno per derubarlo delle semplici gioie che spontaneamente vi germogliano.

Tutti i regali, tutti i favori del mondo non potranno mai sostituire un attimo

di gioia che ci è stato amareggiato dall'invidiosa inquietudine del nostro

tiranno.»

 

Eh, caro mio, quando si dice che la prudenza non

è mai troppa! Non si sa mai dov'è il pericolo! Cioè...» ora tu sai che

quell'uomo mi è molto caro in tutto tranne che per i suoi cioè, dato che va da

sé che ogni principio ammette delle eccezioni. Com'è pignolo quell'uomo! Quando

pensa di aver detto qualcosa di troppo affrettato, di generico, approssimativo,

ecco che poi non la smette più di riassestare, di modificare aggiungendo,

togliendo, fino a che di una cosa non resta più niente. E in questa occasione

esagerò la dose, io non lo stavo più nemmeno a sentire, fui preso dai miei

soliti ghiribizzi e, con un gesto inconsulto, mi premetti la canna della pistola

contro l'occhio destro. «Ehi,» disse Alberto tirandomi giù la pistola, «che ti

piglia?» «Tanto non è carica,» dissi io. «E con ciò? che ti piglia?» replicò

spazientito. «Non riesco a capire come un uomo possa essere così scemo da

spararsi, solo a pensarci vado in bestia.»

«Ma è mai possibile,» esclamai io, «che voi uomini, per poter parlare di una

cosa, dobbiate sempre dire: questo è stupido, questo è ragionevole, questo va

bene, questo va male? Che significa tutto ciò? Avete forse individuato una volta

per tutte i rapporti interdipendenti di un'azione? Sapete dunque dipanare con

chiarezza le cause che l'hanno provocata, per le quali doveva accadere? Se fosse

così, non sareste così sbrigativi con i vostri verdetti.»

«Mi concederai,» disse Alberto, «che certe azioni rimangono riprovevoli

qualunque sia il motivo che le ha messe in moto.»

Feci spallucce e gli detti ragione. «Però, caro mio,» continuai, «anche qui

esistono delle eccezioni. È vero che rubare è un peccato, ma l'individuo che va

a rubare per salvare sé e i suoi da un'imminente morte per fame, si merita pietà

o castigo? Chi oserà mai scagliare la prima pietra contro un marito che, in un

accesso di legittima ira, sacrifichi la sua donna adultera e il suo ignobile

seduttore? contro la ragazza che in un momento di smarrimento passionale si

perda negli incontenibili piaceri dell'amore? Persino le nostre stesse leggi,

così insensibili e pedanti, si commuovono e perdonano.»

«Ma questa è una cosa completamente diversa,» replicò Alberto, «perché un uomo

trascinato dalle sue passioni perde ogni controllo e deve essere considerato

come un ubriaco, un pazzo.»

«Ah, voi, gente così ragionevole!» gridai ridendo. «Passione! Alcolismo! Pazzia!

Come ve ne state comodamente rilassati, voi, così senza essere coinvolti, voi

uomini morali! Strapazzate l'ubriacone, disprezzate colui che ha perduto la

ragione, passate via come il prete e come il fariseo, ringraziate Dio che non vi

ha fatto come uno di loro. Io mi sono ubriacato più di una volta, le mie

passioni non sono state molto lontane dalla pazzia e non me ne rincresce, perché

nel mio piccolo sono riuscito a capire che tutti gli uomini straordinari, che

hanno fatto qualcosa di grande, qualcosa che apparentemente sembrava

impossibile, sono stati da sempre tacciati da ubriachi e da pazzi.

«E anche nella vita di tutti i giorni non se ne può più di sentir gridare dietro

a qualcuno che abbia fatto anche solo qualcosa di appena libero, nobile,

inatteso: quello è ubriaco, è matto! Vergognatevi, voi sobri! Vergognatevi, voi

sapienti!»

«Ecco che ci risiamo con i tuoi soliti grilli,» disse Alberto, «tu la fai sempre

più grossa di quel che è, e in questo almeno hai torto marcio, nel paragonare il

suicidio, che è questo di cui si sta parlando ora, a grandi imprese. Non si può

considerare nient'altro che una debolezza, ecco. È certo più facile morire che

sopportare con fermezza una vita tormentosa.»

Stavo per troncare la discussione, perché non c'è niente che riesca a mandarmi

fuori dai gangheri come quando uno arriva lì e ti spiattella un insignificante

luogo comune quando io invece sto parlando con il cuore in mano. Tuttavia sono

riuscito a contenermi, perché quell'argomento l'avevo sentito spesso di già e

ancor più spesso me ne ero indignato, e ho ribattuto con una certa animosità: «E

tu la chiami debolezza? Ti prego, non lasciarti ingannare dalle appare

 

 

Spesso invidio Alberto, che vedo immerso fino alle

orecchie nelle sue pratiche e mi immagino che al suo posto starei bene! Più di

una volta mi è venuta l'idea di scrivere a te e al ministro per chiedere quel

posto all'ambasciata che, come tu mi assicuri, non mi sarebbe negato. Lo credo

anch'io. Il ministro mi vuole bene da molto tempo e da altrettanto mi esorta a

dedicarmi a una qualche attività; e mi sembra anche che per un po' lo farei

volentieri. Però, a ripensarci, mi viene in mente la storia del cavallo che,

insofferente della sua libertà, si lascia mettere sella e morso e viene

cavalcato sino a esserne sfiancato

 

 

 

L'ambasciatore è proprio seccante, come avevo previsto. È lo scemo più pedante

che si possa immaginare: tutto ordinatino e pignolino come una comare; un uomo

mai contento con sé e che perciò è incontentabile. A me piace sbrigare il lavoro

alla svelta, senza tanti gingilli, mentre lui è capace di restituirmi una

relazione e di dirmi: «Va bene, ma controlli ancora una volta, si trova sempre

una parola migliore, una particella più appropriata.» Mi sento sprofondare sino

all'inferno dalla rabbia. Guai se mi resta nella penna una e, una congiunzione

piccola piccola, ed è nemico giurato di tutte le inversioni che a volte mi

scappano; se non gli si sgranano giù i periodi nella solita tiritera

tradizionale, lui non ci capisce niente. Che strazio aver a che fare con un uomo

simile

 

Siete voi i colpevoli, voi che a forza di ciarle mi avete messo sotto il giogo

decantandomi tanto l'essere attivi. Attivi! Se chi pianta patate e poi va con la

carretta a vendere il suo grano non è più utile di me, sono disposto a rompermi

la schiena altri dieci anni su questa galera dove oramai sono incatenato.

E questa dorata miseria, la noia di questa gentaglia in perpetua mostra di sé!

L'ossessione della precedenza fra di loro, come stanno sempre lì all'erta per

poter scattare di un passettino più avanti, le passioni più meschine e

miserabili messe in mostra nude e crude, senza straccetti di sorta. C'è una

donna per esempio che parla a tutti del suo lignaggio e dei suoi possedimenti,

tanto che ogni forestiero deve pensare che sia una matta alla quale abbia dato

di volta il cervello per quel po' di nobiltà e per la fama di questi suoi

possedimenti... ma c'è ancor di peggio: questa disgraziata è di qui, è figlia di

uno scribacchino... Vedi, non riesco a capire come mai la gente abbia così poco

cervello da prostituirsi così scopertamente.

E a ogni giorno che passa, mio caro, noto quanto sia da stolti riportare gli

altri a noi stessi. E poiché sono così occupato con me stesso e il mio cuore è

così burrascoso... ah, lascio volentieri che ognuno vada per la sua strada, a

patto che lascino andare anche me per la mia.

Quel che maggiormente mi irrita, sono queste imbarazzanti convenzioni borghesi.

Certo so benissimo come chiunque altro quanto siano necessarie le distinzioni di

classe e quanti vantaggi ne ricavi io stesso, ma che non vengano a sbarrarmi il

passo quando potrei godermi un po' di piacere, un balenio di felicità su questa

terra

 

 

 ti sto davanti con l'anima completamente aperta; altrimenti

preferirei non aver detto niente, di solito non mi piace perdere parole su cose

di cui sia io che gli altri sappiamo così poco. Cos'altro è il destino degli

uomini se non quello di portare il proprio fardello e bere il proprio calice

sino all'ultima goccia? e se questo calice fu troppo amaro per le labbra terrene

del Dio del cielo, perché mai dovrei posare e fingere di trovarlo dolce io? e

perché mai dovrei vergognarmi in quel terribile istante in cui tutto il mio

essere trema fra essere e non essere, quando il passato brilla come un lampo sul

tenebroso abisso del futuro e tutt'intorno a me e insieme a me il mondo

sprofonda?... non si tratta forse della voce della creatura avviluppata su se

stessa, privata a se stessa e irrefrenabilmente lanciata verso il fondo che, dal

lavorio inane delle sue energie che si ribellano senza poter risalire, grida:

«Dio mio! Dio mio! perché mi hai abbandonato?» E perché dovrei vergognarmi di

questa espressione, perché dovrei aver paura di quell'istante al quale non poté

sottrarsi Colui che avvolge i cieli come un sudario?

 

 Tutto ciò è fugace; ma nessuna eternità potrà spegnere il soffio ardente che

ieri inspirai dalle tue labbra, che ho sentito entrare in me! Tu mi ami! questo

braccio ti ha stretta, queste labbra hanno tremato sulle tue labbra, questa

bocca ha balbettato sulla tua. Tu sei mia! sì, Lotte, per l'eternità!

E che importa se Alberto è tuo marito? Marito! E dunque per questo mondo sarebbe

peccato che io ti ami, che io voglia strapparti dalle sue braccia per averti fra

le mie? Peccato? Bene, e allora io mi punisco; io l'ho goduto in tutta la sua

celestiale voluttà questo peccato, ho succhiato elisir di vita e forza nel mio

cuore. Da questo istante tu sei mia! mia, o Lotte! Ti precedo! vado da mio

Padre, da tuo Padre. Sfogherò con lui i miei dolori e lui mi consolerà sino a

che non arrivi tu, e io ti volerò incontro e ti stringerò e rimarrò con te al

cospetto dell'Infinito in un abbraccio eterno.

 

Ecco, Lotte! Non tremo impugnando il freddo, orribile calice, dal quale berrò la

vertigine della morte! Tu me l'hai porto e io non esito. Tutto! Tutto! Così

vengono esauditi tutti i desideri e le speranze della mia vita! per battere,

così freddo, così rigido, alla porta di bronzo della morte.

Avessi avuto la fortuna di morire per te! Lotte, di immolarmi per te! Morirei a

testa alta, morirei lieto se potessi ridarti la serenità, la gioia di vivere. Ma

ahimè! fu concesso solo a pochi eletti di versare il proprio sangue per i loro

cari e di centuplicare con la propria morte la fiamma di una vita nuova per i

loro amici.

Voglio essere sepolto con questi abiti, Lotte. Tu li hai sfiorati, consacrati;

anche di questo ho pregato tuo padre. La mia anima aleggia sopra la bara. Non

frugate nelle mie tasche. Questo fiocco rosso pallido lo portavi sul petto la

prima volta che ti vidi fra i tuoi bambini... Oh, baciali mille volte e

raccontagli il destino del loro infelice amico. Cari! ecco che mi fanno ressa

intorno. Ah, come mi sono legato a te! dal primo istante non sono più riuscito a

fare a meno di te!... Questo fiocco deve essere sepolto con me. Me lo regalasti

tu il giorno del mio compleanno! Come ho divorato tutto!... Ah, non immaginavo

che la mia strada mi avrebbe portato qui!... Sii calma, ti prego, sii calma!...

Sono cariche... Battono le dodici! E così sia!... Lotte! Lotte! Addio! Addio!

Un vicino vide la fiammata della polvere e udì lo sparo; ma, poiché tutto rimase

tranquillo, non ci pensò più.

 

Il vecchio intendente, alla notizia, accorse al galoppo, baciò il morente

piangendo lacrime cocenti. I suoi figli più grandi arrivarono a piedi subito

dopo di lui, caddero in ginocchio accanto al letto in preda al dolore più

irrefrenabile, gli baciarono le mani e la bocca, e il maggiore, che egli aveva

amato più di tutti, si attaccò alle sue labbra finché non emise l'ultimo

respiro, e si dovette portarlo via a viva forza. Morì verso mezzogiorno. La

presenza dell'intendente e le sue disposizioni impedirono che si formasse un

assembramento. Verso le undici di sera lo fece seppellire nel posto da lui

prescelto. Il vecchio seguì la salma, e i figli; Alberto non ne ebbe la forza.

Si temeva per la vita di Lotte. Lo portarono a spalla degli artigiani. Nessun

prete lo accompagnò.

 

Doveri dell'uomo di mazzini

 

Or perché lo avrebbero fatto? Non era il benessere lo scopo supremo della vita? Non erano i beni materiali le cose desiderabili innanzi a tutte? Perché diminuirsene il godimento a vantaggio altrui? S'aiuti adunque chi può. Quando la società assicura ad ognuno che possa lo esercizio libero dei diritti spettanti alla umana natura, fa quanto è richiesto di fare. Se v'è chi, per fatalità della propria condizione, non può esercitarne alcuno, si rassegni e non incolpi nessuno. Era naturale che così dicessero infatti. E questo pensiero delle classi privilegiate di fortuna, riguardo alle classi povere, diventò rapidamente pensiero di ogni individuo verso ogni individuo. Ciascun uomo prese cura dei propri diritti e del miglioramento della propria condizione, senza cercare di provvedere all'altrui; e quando i proprii diritti si trovarono in urto con quelli degli altri, fu guerra: guerra non di sangue, ma d'oro e di insidie: guerra meno virile dell'altra, ma egualmente rovinosa: guerra accanita, nella quale i forti per mezzi schiacciano inesorabilmente i deboli o gli inesperti. In questa guerra continua, gli uomini si educarono all'egoismo e alla avidità dei beni materiali esclusivamente. La libertà di credenza ruppe ogni comunione di fede. La libertà di educazione generò l'anarchia morale. Gli uomini senza vincolo comune, senza unità di credenza religiosa e di scopo, chiamati a godere e non altro, tentarono ognuno la propria via, non badando se camminando su quella non calpestassero le teste dei loro fratelli, fratelli di nome ma nemici nel fatto. A questo siamo oggi, grazie alla teoria dei diritti.

Certo esistono diritti; ma dove i diritti di un individuo vengono a contrasto con quelli di un altro, come sperare di conciliarli, di metterli in armonia, senza ricorrere a qualche cosa superiore a tutti i diritti. E dove i diritti di un individuo, di molti individui, vengono a contrasto coi diritti del paese, a che tribunale ricorrere? Se il diritto al benessere, al più gran benessere possibile, spetta a tutti i viventi, chi scioglierà la questione tra l'operaio e il capo manifatturiere? Se il diritto alla esistenza è il primo inviolabile diritto di ogni uomo, chi può comandare il sacrificio dell'esistenza pel miglioramento d'altri uomini? Lo comanderete in nome della Patria, della Società, della moltitudine dei vostri fratelli! Cos'è la Patria, per l'opinione della quale io parlo, se non quel luogo in cui i nostri diritti individuali sono più sicuri? Cos'è la Società, se non un convegno d'uomini i quali hanno pattuito di mettere la forza di molti in appoggio dei diritti di ciascuno? E voi, dopo avere insegnato per cinquanta anni all'individuo che la Società è costituita per assicurargli l'esercizio dei suoi diritti, vorrete dimandargli di sacrificarli tutti alla Società, di sottomettersi, occorrendo, a continue fatiche, alla prigione, all'esilio, per migliorarla? Dopo avergli predicato per tutte le vie che lo scopo della vita è il benessere, vorrete a un tratto ordinargli di perder il benessere e la vita stessa per liberare il proprio paese dallo straniero, o per procacciare condizioni migliori a una classe che non è la sua? Dopo avergli parlato per anni in nome degli interessi materiali, pretendere che egli, trovando davanti a sé ricchezza e potenza, non stenda la mano ad afferrarle, anche a scapito dei suoi fratelli?

Operai italiani, questa non è opinione venuta senza appoggio di fatti nella nostra mente; è storia, storia dei nostri tempi, storia le cui pagine grondano sangue del popolo. Interrogate tutti gli uomini che cangiarono la rivoluzione del 1830([1]) in una sostituzione di persone ad altre persone, e, a modo d'esempio, fecero dei cadaveri dei vostri compagni di Francia, morti combattendo nelle tre giornate, uno sgabello alla propria potenza: tutte le loro dottrine, prima del 1830, erano fondate sulla vecchia idea dei diritti([2]) non sulla credenza nei doveri dell'uomo. Voi li chiamate in oggi traditori ed apostati, e non furono che conseguenti alla loro dottrina. Combattevano con sincerità il governo di Carlo X, perché quel governo era direttamente nemico alla classe d'onde essi uscivano, e violava e tendeva a sopprimere i loro diritti. Combattevano in nome di quel benessere, ch'essi non possedevano quanto pareva loro di meritare.

Alcuni erano perseguitati nella libertà del pensiero; altri, ingegni potenti, si vedevano negletti, allontanati dagli impieghi, che occupavano uomini di capacità inferiore alla loro. Allora anche i mali del popolo li irritavano. Allora scrivevano arditamente e di buona fede intorno ai diritti che appartengono a ogni uomo. Poi, quando i loro diritti politici e intellettuali si trovarono assicurati, quando la via agli impieghi fu loro aperta, quando ebbero conquistato il benessere che cercavano, dimenticarono il popolo, dimenticarono che i milioni, inferiori ad essi per educazione e per desideri, cercavano l'esercizio d'altri diritti e la conquista di un'altro benessere, posero l'animo in pace e non si curarono d'altro che di sé stessi. Perché li chiamate traditori? Perché non chiamate invece traditrice la loro dottrina?

 

 

A forza d'esagerare un principio contenuto nel Protestantesimo, e che oggi il Protestantesimo, pur sente il bisogno di abbandonare ‑ a forza di dedurre tutte le vostre idee unicamente dall'indipendenza dell'individuo ‑ voi siete giunti, a che? all'anarchia, cioè all'oppressione del debole, che non ha mezzi, né tempo, né istruzione per esercitare i propri diritti, nell'ordinamento politico; all'egoismo, cioè all'isolamento e alla rovina del debole che non può aiutarsi da sé nella morale. Ma noi vogliamo Associazione: come ottenerla sicura se non da fratelli che credono negli stessi principii regolatori, che s'uniscono nella stessa fede, che giurino nell'istesso nome? Vogliamo educazione: come darla o riceverla, se non in virtù d'un principio che contenga l'espressione delle nostre credenze sull'origine, sul fine, sulla legge di vita dell'uomo su questa terra? Vogliamo educazione comune: come darla o riceverla, senza una fede comune? Vogliamo formare Nazione: come riescirvi, se non credendo in uno scopo comune, in un dovere comune? E donde possiamo noi dedurre un dovere comune? se non dall'idea che ci formiamo di Dio e della sua relazione con noi? Certo: il suffragio universale è cosa eccellente; è il solo mezzo legale col quale un paese possa, senza crisi violente ogni tanto, governarsi; ma il suffragio universale in un paese dominato da una fede darà l'espressione della tendenza, della volontà nazionale; in un paese privo di credenze comuni, cosa mai potrà esprimere se non l'interesse numericamente più forte e l'oppressione di tutti gli altri? Tutte le riforme politiche in ogni paese irreligioso, o non curante di religione, dureranno quanto il capriccio o l'interesse degli individui vorranno e non più.

 

Or Dio non punisce chi la pensa così? Non degrada egli lo schiavo? Non sommerge egli negli appetiti sensuali, negli istinti ciechi di quella che voi chiamate materia, metà dell'anima del povero giornaliero costretto a consumare, senza lume d'educazione, in una serie d'atti fisici, la vita divina? Trovate fede religiosa più viva nel servo Russo che non nel Polacco combattente le battaglie della patria e della Libertà? Trovate amore più fervente di Dio nel suddito avvilito d'un Papa e d'un Re tiranno, che non nel repubblicano Lombardo del dodicesimo secolo e nel repubblicano Fiorentino del decimoquarto? Dov'è lo spirito di Dio ivi è la libertà, ha detto uno dei più potenti Apostoli che noi conosciamo; e la religione ch'ei predicava decretò l'abolizione della schiavitù; chi può intendere e adorare convenientemente Dio strisciandosi ai piedi della sua creatura? La vostra non è religione, è setta d'uomini che hanno dimenticato la loro origine, le battaglie che i loro padri sostennero contro una società incadaverita, e le vittorie che riportarono trasformando quel mondo terrestre ch'oggi voi, o contemplatori, sprezzate. Qualunque forte credenza sorga fra le rovine delle vecchie esaurite, trasformerà l'ordinamento sociale esistente, perché ogni forte credenza cerca applicarsi a tutti i rami dell'attività umana

 

 

Dio lo vuole, Dio lo vuole! È grido di popolo, o fratelli; è grido del vostro popolo, grido nazionale Italiano. Non vi lasciate ingannare, o voi che lavorate con sincerità d'amore per la vostra Nazione, da chi vi dirà forse che la tendenza Italiana non è che tentazione politica, e che lo spirito religioso s'è dipartito da essa. Lo spirito religioso non si dipartì mai dall'Italia finché l'Italia, comunque divisa, fu grande ed attiva; si dipartì, quando nel secolo decimosesto, caduta Firenze, caduta sotto le armi straniere di Carlo V, e sotto i raggiri dei Papi ogni libertà di vita Italiana, noi cominciammo a perdere tendenze nazionali e a vivere spagnuoli, tedeschi e francesi. Allora i nostri letterati incominciarono a far da buffoni ai principi e ad accarezzare la svogliatezza dei padroni, ridendo di tutti e di tutto. Allora i nostri preti, vedendo impossibile ogni applicazione di verità religiosa, incominciarono a far bottega del culto, e a pensare a se stessi, non al popolo ch'essi dovevano illuminare e proteggere. E allora il popolo, sprezzato dai letterati, tradito e spolpato dai preti, esiliato da ogni influenza nelle cose pubbliche, cominciò a vendicarsi ridendo dei letterati, diffidando dei preti, ribellandosi a tutte le credenze, poi che vedeva corrotta l'antica e non poteva presentire più in là. Da quel tempo in poi, noi ci trasciniamo tra le superstizioni comandate dall'abitudine o dai governi e la incredulità, abietti e impotenti. Ma noi vogliamo risorgere grandi ed onorati. E ricorderemo la tradizione Nazionale. Ricorderemo che col nome di Dio sulla bocca e colle insegne della loro fede nel centro della battaglia, i nostri fratelli lombardi vincevano, nel dodicesimo secolo, gl'invasori tedeschi, e riconquistavano le loro libertà manomesse. Ricorderemo che i repubblicani delle città toscane si radunavano al parlamento nei templi. Ricorderemo gli Artigiani Fiorentini che, respingendo il partito di sottomettere all'impero della famiglia Medici la loro libertà democratica, elessero, per voto solenne, Cristo capo della Repubblica ‑ e il frate Savonarola predicante a un tempo il dogma di Dio e quello del popolo ‑ e i Genovesi del 1746 liberatori, a furia di sassate, e del nome di Maria protettrice, della loro città dall'esercito tedesco che la occupava, e una catena d'altri fatti simili a questi, ne' quali il pensiero religioso protesse e fecondò il pensiero popolare Italiano.

 

 

L'individuo è troppo debole e l'Umanità troppo vasta. Mio Dio, ‑ prega, salpando il marinaio della Bretagna ‑ proteggetemi: il mio battello è sì piccolo e il nostro Oceano così grande! E quella preghiera riassume la condizione di ciascun di voi, se non si trova un mezzo di moltiplicare indefinitivamente le vostre forze, la vostra potenza d'azione: Questo mezzo Dio lo trovava per voi, quando vi dava una Patria, quando, come un saggio direttore di lavori distribuisce le parti diverse a seconda delle capacità, ripartiva in gruppi, in nuclei distinti l'Umanità sulla faccia del nostro globo e cacciava il germe delle nazioni. I tristi governi hanno guastato il disegno di Dio che voi potete vedere segnato chiaramente, per quello almeno che riguarda la nostra Europa, dai corsi dei grandi fiumi, dalle curve degli alti monti e dalle altre condizioni geografiche: l'hanno guastato colla conquista, coll'avidità, colla gelosia dell'altrui giusta potenza; guastato di tanto che oggi, dall'Inghilterra e dalla Francia in fuori, non v'è forse Nazione i cui confini corrispondano a quel disegno. Essi non conoscevano e non conoscono Patria, fuorché la loro famiglia, la dinastia, l'egoismo di casta. Ma il disegno divino si compirà senza fallo. Le divisioni naturali, le innate spontanee tendenze dei popoli, si sostituiranno alle divisioni arbitrarie sancite dai tristi governi. La Carta d'Europa sarà rifatta. La Patria del Popolo risorgerà delimita dal voto dei liberi, sulle rovine della Patria dei re, delle caste privilegiate. Tra quelle patrie sarà armonia, affratellamento. E allora, il lavoro dell'umanità verso il miglioramento comune, verso la scoperta e l'applicazione della propria legge di vita, ripartito a seconda delle capacità locali e associato, potrà compirsi per via di sviluppo progressivo, pacifico: allora, ciascuno di voi, forte degli effetti e dei mezzi di molti milioni d'uomini parlanti la stessa lingua, dotati di tendenze uniformi, educati dalla stessa tradizione storica, potrà sperare di giovare coll'opera propria a tutta quanta l'Umanità.

 

Oggi, l'egoismo regna spesso pur troppo e forzatamente nella Famiglia. Le tristi istituzioni sociali lo generano. In una società fondata su spie, birri, prigioni e patiboli, la povera madre, tremante ad ogni nobile aspirazione del figlio, è sospinta ad insegnargli la diffidenza, a dirgli: bada! l'uomo che ti parla di Patria di Libertà d'Avvenire, e che tu vorresti stringerti al petto non è forse che un traditore! In una società nella quale il merito è pericoloso, e la ricchezza è la sola base della potenza, della sicurezza, della difesa contro la persecuzione e il sopruso, il padre è trascinato dall'affetto a dire al giovane anelante la Verità: bada! la ricchezza è la tua tutela: la Verità sola non può esserti scudo contro l'altrui forza, contro l'altrui corruttela. Ma io vi parlo d'un tempo in cui, col vostro sudore e col vostro sangue, avrete fondato ai figli una Patria di liberi, costituita sul merito, sul bene che ciascuno di voi avrà fatto ai suoi fratelli. Fino a quel tempo, voi pur troppo non avete innanzi che una sola via di miglioramento, un solo supremo dovere da compiere: ordinarvi, prepararvi, scegliere l'ora opportuna e combattere a conquistarvi coll'insurrezione la vostra Italia. Allora soltanto potrete soddisfare senza gravi e continui ostacoli agli altri vostri doveri. E allora, mentr'io sarò probabilmente sotterra, rileggete queste mie pagine: i pochi consigli fraterni ch'esse contengono vengono da un core che v'ama e sono scritti colla coscienza del vero.

 

Senza libertà voi non potete compiere alcuno dei vostri doveri. Voi dunque avete diritto alla Libertà, e Dovere di conquistarla ad ogni modo contro qualunque Potere la neghi.

Senza libertà non esiste Morale, perché non esistendo libera scelta tra il bene ed il male, tra la devozione al progresso comune e lo spirito d'egoismo, non esiste società vera, perché tra liberi e schiavi non può esistere associazione; ma solamente dominio degli uni sugli altri. La libertà è sacra come l'individuo, del quale essa rappresenta la vita. Dove non è libertà, la vita è ridotta ad una pura funzione organica. Lasciando che la sua libertà sia violata, l'uomo tradisce la propria natura e si ribella contro i decreti di Dio.

Non v'è libertà dove una casta, una famiglia, un uomo s'assuma dominio sugli altri in virtù d'un preteso diritto divino, in virtù d'un privilegio derivato dalla nascita, o in virtù di ricchezza. La libertà dev'essere per tutti e davanti a tutti

 

Ma vi son cose che costituiscono il vostro individuo e sono essenziali alla vita umana. E su queste neppure il popolo ha signoria. Nessuna maggioranza, nessuna forza collettiva può rapirvi ciò che vi fa essere uomini. Nessuna maggioranza può decretar la tirannide e spegnere o alienare la propria libertà. Contro il popolo suicida che ciò facesse, voi non potete usar la forza, ma vive e vivrà eterno in ciascun di voi il diritto di protesta nei modi che le circostanze vi suggeriranno.

Voi dovete avere libertà in tutto ciò ch'è indispensabile ad alimentare, moralmente e materialmente, la vita.

Libertà personale: libertà di locomozione: libertà di credenza religiosa: libertà d'opinione su tutte le cose: libertà d'esprimere colla stampa o in ogni altro modo pacifico il vostro pensiero: libertà di associazione per poterlo fecondare col contatto nel pensiero altrui: libertà di traffico pei suoi prodotti son tutte cose che nessuno può togliervi, salvo alcune rare eccezioni, ch'or non importa il dire, senza grave ingiustizia, senza che sorga in voi il dovere di protestare.

 

 

Leopardi, zibaldone

 

Cercava Longino (nel fine del trattato del Sublime) perchè al suo tempo ci fosse tanta scarsezza di anime grandi e portava per ragione parte la fine delle repubbliche e della libertà, parte l'avarizia, la lussuria e l'ignavia. Ora queste non sono madri ma sorelle di quell'effetto di cui parliamo. E questo e quelle derivano dai progressi della ragione e della civiltà, e dalla mancanza o indebolimento delle illusioni, senza le quali non ci sarà quasi mai grandezza di pensieri nè forza e impeto e ardore d'animo, nè grandi azioni che per lo più sono pazzie. Quando ognuno è bene illuminato in vece dei diletti e dei beni vani come sono la gloria l'amor della patria la libertà ec. ec. cerca i solidi cioè i piaceri carnali osceni [22]ec. in somma terrestri, cerca l'utile suo proprio sia consistente nel danaro o altro, diventa egoista necessariamente, nè si vuol sacrificare per sostanze immaginarie nè comprometter se per gli altri nè mettere a ripentaglio un bene maggiore come la vita le sostanze ec. per un minore, come la lode ec. (lasciamo stare che la civiltà fa gli uomini tutti simili gli uni agli altri, togliendo e perseguitando la singolarità, e distribuendo i lumi e le qualità buone non accresce la massa, ma la sparte, sì che ridotta in piccole porzioni fa piccoli effetti.) Quindi l'avarizia, la lussuria e l'ignavia, e da queste la barbarie che vien dopo l'eccesso dell'incivilimento. E però non c'è dubbio che i progressi della ragione e lo spegnimento delle illusioni producono la barbarie, e un popolo oltremodo illuminato non diventa mica civilissimo, come sognano i filosofi del nostro tempo, la Staël ec. ma barbaro; al che noi c'incamminiamo a gran passi e quasi siamo arrivati. La più gran nemica della barbarie non è la ragione ma la natura: (seguìta però a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile, e certo nessuno chiamerà barbari i Romani combattenti i Cartaginesi, nè i Greci alle Termopile, quantunque quel tempo fosse pieno di ardentissime illusioni, e pochissimo filosofico presso ambedue i popoli. Le illusioni sono in natura, inerenti al sistema del mondo, tolte via affatto o quasi affatto, l'uomo è snaturato; ogni popolo snaturato è barbaro, non potendo più correre le cose come vuole il sistema del mondo.

 

L'incivilimento ha posto in uso le fatiche fine ec. che consumano e logorano ed estinguono le facoltà umane, come la memoria, la vista, le forze in genere ec. le quali non erano richieste dalla natura, e tolte quelle che le conservano e le accrescono, come quelle dell'agricoltore del cacciatore ec. e della vita primitiva, le quali erano volute dalla natura e rese necessarie alla detta vita.

 

 

 

III. Idealismo e neoidealismo

 

Con “idealismo” ci si riferisce alla filosofia della prima metà del XIX secolo e soprattutto a Georg Wilhelm Fiederich Hegel (1770-1831), il quale, se da una parte si era formato pienamente nella cultura del Romanticismo, dall'altra di esso fece un forte critica: accettava di esso il rifiuto della ragione illuministica (il cosiddetto “intelletto astratto”), ma non in nome del “sentimento”, bensì invece di una Ragione più profonda e comprensiva, avendo come modello di metodo conoscitivo la Storia e non le Scienze. Con “neoidealismo” ci si riferisce a una corrente filosofica della prima metà del XX secolo diffusasi nel mondo anglosassone  (Bernard Bosanquet, F.H. Bradley, J.E. McTaggart, Josiah Royce, Robin E. Collingwood) e in Italia (Benedetto Croce e Giovanni Gentile): tutti questi filosofi si richiamarono esplicitamente a Hegel e furono chiamati anche “neohegeliani”: come Hegel aveva combattuto su due fronti ( il Romanticismo e l'Illuminismo), così questi filosofi di un secolo dopo combatterono su due fronti, contro il Decadentismo e  contro il Positivismo. Ma anche su un terzo fronte, e cioè Hegel stesso, che essi criticarono in vari punti importanti.

 

 

G. W. F. Hegel

 


  • Virtù: “tutto ciò che è reale è razionale; tutto ciò che è razionale è reale” (fiducia nella realtà)
  • Virtù: il pensiero deve essere sistematico (onestà intellettuale)
  • Virtù: la verità non è iperuranica ma è storica ( umiltà e vivacità dell'attenzione, il senso risiede nel  viaggio e non nella “meta”)
  • Virtù: la sintesi tra l'esterno e l'interno (interpersonalità della morale) 

 

  • Vizio: legalismo/sentimentalismo
  • Vizio: la polemica invece della sintesi
  • Vizio: il nazionalismo tradizionalista
  • Vizio: la religiosità trascendente cioè spiritualistica

 

 

 


 

 

Benedetto Croce

 


Virtù: la “democraticità” dello spirito

Virtù: liberalismo ed elogio dell'imperfezione

Virtù: la mentalità storica

Virtù: il “lavoro” e la “opera” come senso della vita o felicità

Virtù: la religione senza al di là

Virtù: la interpersonalità fuori dalle idealizzazioni

 

 

Vizio: il disinteresse per la politica

Vizio: il desiderio di fusione

Vizio: l'irrazionalismo

Vizio:il narcisismo materiale

Vizio: il narcisismo morale

Vizio: il dualismo

Vizio: l'indistinzione tra teoria e pratica


 

 

Bibliografia

 

  • G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830), Laterza, 1983
  • Benedetto Croce, Logica come scienza del concetto puro, (1905), Laterza, 1981
  • Benedetto Croce, La Filosofia della Pratica (1907), Laterza 1923
  • Benedetto Croce, Etica e politica (1931), Laterza, 1981
  • Benedetto Croce, La storia come pensiero e come azione (1938), Laterza, 1965

·               Franco Manni, La critica di Benedetto Croce al sistema romantico, in “Humanitas”, n.1 1990, pp. 33.58

 

 

 

IV – Marxismo

 

Con “marxismo” si intende una corrente di pensiero filosofico che deriva da Karl Marx (1818-1883) e che ha avuto molti seguaci nella seconda metà del XIX secolo e nella prima del XX : Engels, Kautsky, Bernstein, Lenin, Trotsky, Lukacs, Gramsci, Stalin. È notevole osservare che la maggior parte di tali seguaci intellettuali furono anche uomini politici influenti; il marxismo è stata anche “filosofia ufficiale” per i Partiti politici socialisti e comunisti del XIX e XX secolo e per gli Stati comunisti del XX.

 

 

 

Karl Marx (Treviri 1818 – London 1883)

 


  • Virtù: demistificazione
  • Virtù: materialismo
  • Virtù: eguaglianza
  • Virtù: eguagliamento
  • Virtù: lotta
  • Virtù: solidarietà
  • Virtù: scientificità
  • Virtù: utopia

 

 

 

 

  • Vizio: idealismo
  • Vizio: pluralismo
  • Vizio: gerarchia
  • Vizio: personalismo
  • Vizio: tradizionalismo
  • Vizio: moderazione

 

 

 


Bibliografia

 

Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto

Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel

Marx, Ideologia tedesca

Marx, Tesi su Feuerbach

Marx, Manoscritti economico-filosofici

Marx, Il Capitale

Marx e Engels, Manifesto del partito comunista

Friederich Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra

 

 

 

 

V – Marxismo-leninismo

 

Valdimir Ilich Ulianov soprannonimato Lenin ( 1870-1924)

 


  • Virtù: materialismo
  • Virtù: polemica
  • Virtù: successo
  • Virtù: aristocraticismo
  • Virtù: estremismo e rivoluzione
  • Virtù: propaganda

 

 

  • Vizio: idealismo
  • Vizio: pluralismo
  • Vizio: tradizionalismo
  • Vizio: moderazione

 


 

 

 

Bibliografia

 

  • Lenin,Che fare? (1902)
  • Lenin, Stato e rivoluzione (1917)
  • Lenin, Marxismo e Empiriocriticismo (1908)
  • FranÇois Furet, Il passato di un'illusione, Mondadori, 1986

 

 

 


VI – Marx sulla divisione del lavoro

 

La divisione del lavoro, che abbiamo già visto come una delle forze principali della storia finora trascorsa, si manifesta anche nella classe dominante come divisione del lavoro intellettuale e manuale; cosicché all'interno di questa classe una parte si presenta costituita dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali dell'elaborazione dell'illusione di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere principale), mentre gli altri, nei confronti di queste idee e di queste illusioni, hanno un atteggiamento piú passivo e piú ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi.

(K. Marx, L'ideologia tedesca)

 

 

KARL MARX - FRIEDRICH ENGELS

Manoscritti economico-filosofici del '44

In Marx il tema della divisione del lavoro inizia ad essere svolto con i "Manoscritti del '44". Nel primo manoscritto vengono messi in luce i rapporti tra accumulazione del capitale, divisione del lavoro e condizione della classe operaia.

"L'accumulazione del capitale aumenta la divisione del lavoro, la divisione del lavoro aumenta il numero degli operai, e reciprocamente, il numero degli operai aumenta l'accumulazione dei capitali Con questa divisione del lavoro da un lato e con l'accumulazione dei capitali dall'altro, l'operaio dipende in modo sempre più netto dal lavoro, e da un lavoro determinato, molto unilaterale e meccanico. E quindi, come egli viene abbassato spiritualmente e fisicamente al livello della macchina e trasformato da un uomo in una attività astratta e in un ventre, così si trova in condizioni di sempre maggior dipendenza da tutte le oscillazioni del prezzo del mercato, dell'impiego dei capitali e del capriccio dei ricchi".
"Questa situazione dell'operaio tocca il suo punto culminante nell'industria". [1844, Karl Marx]

Ulteriori problemi sorgono per il lavoratore dalla introduzione delle macchine.

"La divisione del lavoro rende l'operaio sempre più unilaterale, così come introduce la concorrenza, non solo degli uomini ma anche delle macchine. Essendo l'operaio degradato a macchina, la macchina può presentarglisi innanzi come una concorrente". [1844, Karl Marx]

L'introduzione delle macchine, contribuendo alla creazione di una quantità maggiore di prodotti, genera una situazione di eccedenza di produzione

"e ciò va a finire o nel licenziamento di una gran parte degli operai oppure nella riduzione del loro salario al minimo più miserabile".
"Ecco le conseguenze di una situazione sociale che è la più favorevole possibile all'operaio, cioè della situazione di ricchezza crescente, in progresso". [1844, Karl Marx]

Inoltre

"ad onta del risparmio di tempo dovuto al perfezionamento delle macchine la durata del lavoro degli schiavi delle fabbriche non ha fatto che aumentare per un gran numero di individui" [Schulz in, 1844, Karl Marx]

Appaiono quindi chiare alcune irrazionalità della società industriale alla metà dell'ottocento: una produzione crescente porta, all'interno della classe operaia, ad una crescente disoccupazione per alcuni ed ad un crescente sfruttamento per altri; questo perché vengono soppresse tutte le potenzialità liberatrici insite nella introduzione delle macchine.
Infatti

"Un popolo, per educarsi in forma spiritualmente più libera, non può più restare schiavo dei propri bisogni materiali, non può più essere il servo del proprio corpo. Gli deve quindi rimanere anzi tutto del tempo per poter anche produrre e godere spiritualmente. I progressi dell'organizzazione del lavoro creano questa possibilità di tempo libero". [Schulz in, 1844, Karl Marx]

"Si è calcolato in Francia che nell'attuale fase della produzione una durata di lavoro media di cinque ore al giorno da parte di ogni uomo capace di lavoro basterebbe a soddisfare tutti gli interessi materiali della società" [Schulz in, 1844, Karl Marx]

Si può dunque dire che

"mentre la divisione del lavoro aumenta la forza produttiva del lavoro, la ricchezza e il raffinamento della società, impoverisce l'operaio sino a ridurlo ad una macchina. Mentre il lavoro provoca l'accumulazione dei capitali e con esso il benessere crescente della società, rende l'operaio sempre più dipendente dal capitalista, lo espone ad una concorrenze maggiore, lo spinge nella caccia senza quartiere della superproduzione a cui segue un rilassamento altrettanto grande". [1844, Karl Marx]

"Certamente il lavoro produce per i ricchi cose meravigliose; ma per gli operai produce soltanto privazioni. Produce palazzi ma per l'operaio spelonche. Produce bellezza ma per l'operaio deformità. Sostituisce il lavoro con macchine, ma ricaccia una parte degli operai in un lavoro barbarico e trasforma l'altra parte in macchine. Produce cose dello spirito, ma per l'operaio idiotaggine e cretinismo". [1844, Karl Marx]

 

L'ideologia tedesca

L'ideologia tedesca segna un punto di passaggio molto importante nell'analisi sulla divisione del lavoro. Marx ed Engels passano in rassegna le diverse forme storiche in cui si è presentata la proprietà, in quanto a queste forme sono correlati i diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro.

 

 

 

"Durante il fiorire del feudalesimo la divisione del lavoro era assai limitata. Ogni paese portava in sé l'antagonismo di città e campagna; l'organizzazione in ordini era fortemente marcata ma al di fuori della separazione fra principi, nobiltà, clero e contadini nelle campagne, e fra maestri, garzoni e apprendisti e ben presto anche plebei a giornata nelle città, non esisteva alcuna divisione di rilievo. Nell'agricoltura vi si opponeva la coltivazione parcellare, accanto alla quale sorgeva l'industria domestica degli stessi contadini; nell'industria il lavoro non era affatto diviso all'interno dei singoli mestieri, pochissimo diviso tra un mestiere e l'altro. La divisione fra industria e commercio preesisteva nelle città più antiche, mentre nelle nuove si sviluppava lentamente quando fra esse si stabilivano rapporti". [1845, Karl Marx - Friedrich Engels]

 

"La divisione del lavoro diventa una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro intellettuale. Da questo momento in poi la coscienza può realmente figurarsi di essere qualche cosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa, senza concepire alcunché di reale". [1845, Karl Marx - Friedrich Engels]

 

"D'altronde è del tutto indifferente quel che la coscienza si mette a fare per conto suo; da tutta questa porcheria ricaviamo, come unico risultato, che questi tre momenti, la forza produttiva, la situazione sociale e la coscienza, possono e debbono entrare in contraddizione fra loro perché con la divisione del lavoro si da la possibilità anzi la realtà, che l'attività spirituale e attività materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo, tocchino a individui diversi, e la possibilità, che essi non entrino in contraddizione sta solo nel tornare ad abolire la divisione del lavoro". [1845, Karl Marx - Friedrich Engels]

"La divisione del lavoro, che implica tutte queste contraddizioni e che a sua volta è fondata sulla divisione naturale del lavoro nella famiglia e sulla separazione della società in singole famiglie opposte l'una all'altra, implica in pari tempo anche la ripartizione, e precisamente la ripartizione ineguale, sia per quantità che per qualità, del lavoro e dei suoi prodotti, e quindi la proprietà che ha già il suo germe, la sua prima forma, nella famiglia dove la donna e i figli sono gli schiavi dell'uomo". [1845, Karl Marx - Friedrich Engels]

Emerge man mano l'importanza della divisione del lavoro quale base su cui si reggono la proprietà privata, l'alienazione, la contrapposizione fra interessi personali, in una parola, diseguali rapporti di potere.
Per quanto riguarda il rapporto tra divisione del lavoro e proprietà privata, per Marx ed Engels esse

"sono espressioni identiche: con la prima si esprime in riferimento all'attività esattamente ciò che con l'altra si esprime in riferimento al prodotto dell'attività". [1845, Karl Marx - Friedrich Engels]

Inoltre

"con la divisione del lavoro è data immediatamente la contraddizione fra l'interesse del singolo individuo o della singola famiglia e l'interesse collettivo di tutti gli individui che hanno rapporti reciproci; e questo interesse collettivo non esiste puramente nell'immaginazione come universale ma esiste innanzi tutto nella realtà come dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è diviso". [1845, Karl Marx - Friedrich Engels]

Per cui,

"appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore o pastore o critico critico [allusione alla critica pura di Bruno Bauer] e tale deve restare se non vuole perdere i mezzi per vivere". [1845, Karl Marx - Friedrich Engels]

E con un volo dell'immaginazione, Marx ed Engels concepiscono la società comunista come quella società in cui

"ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere",

e in cui

"la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia, senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico".

Come si ricava da quest'ultima affermazione, la divisione del lavoro è il prius che determina anche la differenziazione in classi. Tra queste

"la classe che dispone dei mezzi della produzione materiale, dispone con ciò in pari tempo dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale". [1845, Karl Marx - Friedrich Engels]

Allora, per uscire da una situazione di subordinazione è necessario che tutti gli individui si approprino delle conoscenze materiali e intellettuali.

"Gli individui devono appropriarsi la totalità delle forze produttive esistenti".
"L'appropriazione di queste forze non è altro essa stessa che lo sviluppo delle facoltà individuali corrispondenti agli strumenti materiali di produzione. Per questo solo fatto l'appropriazione di una totalità di strumenti di produzione è lo sviluppo di una totalità di facoltà negli individui stessi". [1845, Karl Marx - Friedrich Engels]

 

 

Miseria della filosofia

Nella critica a Proudhon, che è il motivo immediato per la stesura della "Miseria della filosofia", emergono alcuni aspetti interessanti sul tema della divisione del lavoro. Al di là della affermazione consueta che

"la caratteristica peculiare della divisione del lavoro all'interno della società moderna sta nel fatto di generare le specializzazioni, i tipi e, con esse, l'idiotismo del mestiere", [1847, Karl Marx]

 

Il Capitale

 

"La manifattura in senso proprio non solo assoggetta l'operaio, prima indipendente, al comando e alla disciplina del capitale, ma crea inoltre una graduazione gerarchica fra gli operai stessi. Mentre la cooperazione semplice lascia inalterato nel complesso il modo di lavorare del singolo, la manifattura rivoluziona questo modo di lavorare da cima a fondo, e prende alla radice la forza-lavoro individuale. Storpia l'operaio e ne fa una mostruosità favorendone, come in una serra, la abilità di dettaglio, mediante la, soppressione di un mondo intero di impulsi e di disposizioni produttive".
"Non solo i particolari lavori parziali vengono suddivisi fra diversi individui, ma l'individuo stesso viene diviso, viene trasformato in motore automatico d'un lavoro parziale".
[1867, Karl Marx]

"Le cognizioni, l'intelligenza e la volontà che il contadino indipendente o il maestro artigiano sviluppano anche se su piccola scala ... ormai sono richieste soltanto per il complesso dell'officina. Le potenze intellettuali della produzione allargano la loro scala da una parte perché scompaiono da molte parti. Quel che gli operai parziali perdono si concentra nel capitale di contro a loro. Questa contrapposizione delle potenze intellettuali del processo materiale di produzione agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero.

 

"Il lavoro alla macchina intacca in misura estrema il sistema nervoso, sopprime l'azione molteplice dei muscoli e confisca ogni libera attività fisica e mentale. La stessa facilità del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacché la macchina non libera dal lavoro l'operaio, ma toglie il contenuto al suo lavoro. È fenomeno comune a tutta la produzione capitalistica ... che non è l'operaio ad operare le condizioni del lavoro ma, viceversa, la condizione del lavoro ad operare l'operaio; ma questo capovolgimento viene ad avere soltanto con le macchine una realtà teoricamente evidente". [1867, Karl Marx]

Antidühring

Nell' "Antidühring" di Engels si ripresentano tutti i temi sulla divisione del lavoro precedentemente posti in luce:

 

"La società, impadronendosi di tutti i mezzi di produzione per usarli socialmente e secondo un piano, distrugge il precedente asservimento degli uomini ai loro propri mezzi di produzione. Evidentemente la società non si può emancipare senza che ogni singolo sia emancipato. Il vecchio modo di produzione deve quindi essere rivoluzionato fin dalle fondamenta e specialmente deve sparire la vecchia divisione del lavoro. Al suo posto deve subentrare una organizzazione della produzione in cui da una parte nessun singolo può scaricare sulle spalle degli altri la propria partecipazione al lavoro produttivo, fondamento naturale dell'umana esistenza, in cui dall'altra il lavoro produttivo, anziché mezzo per l'asservimento, diventa mezzo per l'emancipazione degli uomini, poiché fornisce ad ogni singolo l'occasione di sviluppare e di mettere in azione tutte quante le sue facoltà sia fisiche che spirituali in tutte le direzioni: in cui così il lavoro, da peso diverrà gioia". [1878, Friedrich Engels]

 

 

 

 

VII – Marxisti sulla divisione del lavoro

Divisione del lavoro

 (La concezione materialistica della storia, per Marx ed , il  su basi

Paul Mattick 1971)


In un primo generico significato indica «la coesistenza di differenti modi di lavoro» (
Lavoro) osservabili concretamente nelle caratteristiche diverse delle merci. In questo senso la divisione del lavoro è molto antica; pur restando nell'ambito della produzione separata dallo scambio essa data dalla comparsa dei primi mercanti e dei primi artigiani, cioè di persone che all'interno della comunità svolgevano non occasionalmente attività specifiche.

«In senso capitalistico» la divisione del lavoro indica la coscienza «... del lavoro particolare che produce una determinata
merce, in una somma di semplici operazioni, combinate e ripartite fra operai differenti»; una caratteristica fondamentale di questa nuova situazione è che essa «presuppone la divisione del lavoro entro la società, al di fuori dell'officina, come divisione delle professioni». Da un punto di vista storico ciò si manifesta al tempo delle manifatture al cui interno non solo il lavoro è organizzato in modo che a ciascun operaio tocchino solo poche e semplici operazioni, ma, ben presto, anche in modo gerarchico (capisquadra, capireparto, tecnici, ecc.) allo scopo di sorvegliare e dirigere il lavoro.

Così in una manifattura di carrozze del XVII e XVIII secolo vi sono gli operai che costruiscono soltanto le razze delle ruote, altri il cerchio, altri ancora provvedono al loro montaggio e altri a verniciarle. Analogamente per ogni altra parte e gruppo di parti che costituiscono la carrozza finita. Il risultato è che nessun operaio saprebbe costruire una carrozza e nemmeno passare agevolmente da un'operazione all'altra.

Man mano che le operazioni diventano più particolareggiate la divisione del lavoro si accentua in mansioni sempre meno collegabili da parte del singolo operaio al prodotto finito; egli diventa un ripetitore di gesti destinati a produrre oggetti che gli sono estranei e finisce col saper fare sempre meglio e soltanto quelli. Si perpetuano così i mestieri via via più specializzati e quindi limitati, la cui esistenza è altrettanto rilevabile fuori della fabbrica, nella società dove servono a indicare, perfino nei documenti personali di identità, una precisa collocazione sociale.

D'altra parte, osserva Marx, questo fatto
«presuppone, per svilupparsi ordinatamente, una certa densità di popolazione, e ancor più la presuppone lo sviluppo della divisione del lavoro nell'officina. Quest'ultima divisione, fino a un certo grado presupposto dello sviluppo della prima, a sua volta l'aumenta per una azione reciproca. Poiché separa operazioni prima appartenenti alla stessa categoria in altre indipendenti l'una dall'altra, accresce e differenzia i lavori preparatori indirettamente richiesti da esse, e infine, con l'accrescimento della produzione, della popolazione, la messa in libertà di capitale e di lavoro, crea nuovi bisogni e nuove maniere di soddisfarli ...» (Marx, Storia delle teorie economiche, III, p. 291).

Il modo di produzione capitalistico, in altri termini, reca in sé la necessità della divisione sociale del lavoro accanto alla necessità di altre divisioni: del lavoro produttivo dai mezzi di produzione, dell'uomo-cittadino dall'uomo-operaio, del lavoro intellettuale da quello manuale, ecc.

Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx definiva la divisione del lavoro come «l'espressione economica della socialità del lavoro nell'alienazione umana»; più tardi, nella sua maturità, accentuando l'analisi dei meccanismi che producevano l'alienazione piuttosto che descrivere le sue forme, scrisse:

«La divisione del lavoro sviluppa la forza produttiva sociale del lavoro o la forza produttiva del lavoro sociale, ma a spese della capacità produttiva generale dell'operaio. E quell'aumento della forza produttiva sociale gli si contrappone quindi come aumentata forza produttiva non del suo lavoro, ma della potenza che lo domina, del capitale» (ivi, p. 91).

La soppressione del modo capitalistico di produzione porta dunque con sé la fine del lavoro diviso e perciò alienato, vissuto da chi lo compie come monotonia, costrizione insensata, ripetizione, soffocamento delle inclinazioni naturali, mancanza di sviluppo aperto della propria personalità. Insieme cadranno anche la divisione tra il pur necessario lavoro manuale e il lavoro intellettuale, creativo, artistico che sarà liberato a sua volta dalla servitù materiale e dal carattere di privilegio di classe; anche la divisione del lavoro su scala mondiale, prodotto tipico dell'età dell'imperialismo, potrà allora essere eliminata venendo meno il potere che assegna in nome del profitto a certi paesi alcuni tipi di produzione piuttosto che altri.

La divisione del lavoro è dunque un fenomeno che si manifesta su piani diversi ma tra loro connessi; non solo nel luogo del lavoro ma nella società, non solo in ragione della specificità del lavoro svolto ma del «grado» occupato nell'organizzazione del lavoro in fabbrica. Divenuta reale con la separazione del lavoro intellettuale da quello materiale, la divisione «sociale» del lavoro è un evento parallelo a quello della
proprietà privata. Meglio, secondo Marx, le due espressioni indicano la stessa cosa: la divisione del lavoro «in riferimento all'attività », la proprietà privata «in riferimento al prodotto dell'attività ».

Quindi la realtà strutturale condiziona inevitabilmente la : , , ,  ecc... La divisione del lavoro tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, secondo Marx, ha senz'altro contribuito a sviluppare una fittizia autonomia della sovrastruttura, cioè l'ideologia. L'ideologia non indica più, come per gli , lo studio delle sensazioni e l'origine delle , essa per Marx indica la funzione che religione, filosofia e produzioni culturali in genere possono avere nel giustificare la situazione esistente. Per comprendere il processo storico, non serve prestare attenzione alle idee, alla cultura ma serve prestare attenzione ai modi in cui si produce la vita materiale. (Il ragionamento ricorda quello compiuto sulla religione: eliminare la religione è inutile, si deve agire sulle cause materiali che la rendono possibile).  invece rifiuterà ogni interpretazione deterministica del rapporto struttura-sovrastruttura ritenendo il fattore economico importante per l'analisi storica ma non l'unico attraverso cui leggere la realtà.

 

 

 

Divisione del lavoro e coscienza di classe

 

1. Lavoro produttivo e lavoro improduttivo

Recentemente il problema della coscienza di classe ha ricevuto una nuova formulazione in rapporto ai concetti marxiani di lavoro produttivo e di lavoro improduttivo, e rimesso così in discussione[1]. Benché Marx abbia trattato ampiamente tale problema[2], sollevato dai fisiocratici e dagli economisti classici, si può facilmente sintetizzare il suo pensiero in proposito. Al fine di distinguere il primo dal secondo, Marx rivolge la sua attenzione al modo di produzione capitalistico. "Nella sua cecità", egli afferma, "il borghese attribuisce un carattere assoluto al modo di produzione capitalistico, considerandolo come la forma eterna della produzione. Egli confonde il problema del lavoro produttivo, quale viene posto dal punto di vista del capitale, con il problema generale riguardante l'essenza e la qualità del lavoro produttivo. A tale proposito egli si limita a fare lo spiritoso rispondendo che ogni lavoro che produce qualche cosa e che mette capo a un risultato qualsiasi è per ciò stesso un lavoro produttivo"[3].

Secondo Marx è produttivo solo il lavoro che produce capitale, mentre è improduttivo il lavoro che viene scambiato direttamente con un profitto o un salario. "Il risultato del processo di produzione capitalistico", egli sostiene, "non è quindi né un semplice prodotto (valore d'uso) né una merce, cioè un valore d'uso avente un valore di scambio determinato. Risultato e prodotto di esso è la creazione di plusvalore per il capitale e quindi l'effettiva conversione di denaro o di merci in capitale, cosa elle anteriormente al processo di produzione essi non erano se non a livello di intenzione di destinazione.

Il processo di produzione assorbe più lavoro di quanto sia pagato e tale assorbimento, questa appropriazione del lavoro non pagato che avviene nel processo di produzione capitalistica ne costituisce lo scopo immediato. Infatti ciò che il capitale (e quindi il capitalista in quanto tale) vuole produrre, non è nè un valore d'uso immediato ai fini di autoconsumo, ne una merce destinata a essere trasformata prima in denaro e poi in valore d'uso. Esso ha come scopo l'arricchimento, la valorizzazione del capitale, il suo accrescimento, e quindi la conservazione dell'antico valore e la creazione del plusvalore. E questo prodotto specifico del processo di produzione capitalistico viene ottenuto proprio grazie allo scambio con il lavoro che, per questa ragione, è detto produttivo"[4].

Infatti all'interno del sistema capitalistico, processo di produzione e processo di circolazione costituiscono una totalità. Bisogna quindi distinguere la creazione del plusvalore dalla sua distribuzione, poiché la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo è attenuata dal fatto che sia nella sfera della produzione sia in quella della circolazione sono pagati dei salari e realizzati dei profitti. La divisione del lavoro, considerata come un prodotto storico dello sviluppo capitalistico e soggetta come tale a continui mutamenti, fa sì che il capitale si suddivida tra i diversi settori dell'economia di mercato e, quindi, che i capitali impiegati improduttivamente ricevano una parte dal plusvalore sociale globale. Analogamente al capitale creatore di plusvalore, il capitale improduttivo assume la forma d'imprese che forniscono un profitto medio al capitale che vi e investito. L'unità dei due tipi di lavoro si può cogliere anche al di fuori del processo capitalistico di produzione considerato nel suo insieme. Se si analizzano le imprese che generano plusvalore, si assiste ugualmente a una divisione del lavoro, in funzione della quale una parte della manodopera crea direttamente del plusvalore, mentre l'altra lo crea indirettamente.

Secondo Marx, ''il modo di produzione capitalistico ha come suo tratto distintivo quello di separare i diversi tipi di lavoro - e quindi anche il lavoro intellettuale dal lavoro manuale - o i lavori appartenenti all'una o all'altra di queste categorie, e di suddividerlo tra persone differenti. Tuttavia, ciò non toglie che il risultato materiale sia un prodotto collettivo di queste persone o che il loro prodotto collettivo si oggettivi nella ricchezza materiale, il che, a sua volta, non esclude o non cambia assolutamente niente al fatto che il rapporto di ciascuna di queste persone con il capitale rimanga quello di lavoratori salariati e, in questo senso principalissimo, quello, di lavoratori produttivi. Tutte queste persone sono non solo adibite immediatamente per produrre una ricchezza materiale, ma per soprappiù esse scambiano immediatamente il loro lavoro con denaro in quanto capitale e riproducono così immediatamente, oltre al loro salario, un plusvalore per i capitalisti"[5].

Oltre alle occupazioni legate alla produzione di merci e alla loro circolazione, esistono molte professioni che, senza partecipare all'una o all'altra di queste sfere, producono servizi e non merci. I loro membri attingono il loro salario dai lavoratori o dai capitalisti, oppure da entrambi. Dal punto di vista capitalistico il loro lavoro, per quanto utile o necessario possa essere, è da considerarsi improduttivo; sia che i loro servizi siano comprati in quanto merci o remunerati con il denaro proveniente dalle imposte, tutto ciò che essi percepiscono proviene dal reddito dei capitalisti o dal salario dei lavoratori. A questo punto sembra insorgere una difficoltà. Infatti, tra queste professioni, ce ne sono molte i cui membri (insegnanti, medici, ricercatori scientifici, attori, artisti e altri), pur producendo soltanto dei servizi, non sono nè più nè meno che dei dipendenti e portano un profitto all'imprenditore che dà loro lavoro. Questo è il motivo per cui quest'ultimo considera produttivo il lavoro che egli ha pagato e che gli ha permesso di realizzare un profitto, di valorizzare il suo capitale. Per la società invece, questo lavoro è improduttivo poiché il capitale così valorizzato costituisce una parte del valore e del plusvalore creato nella produzione. Lo stesso si può dire sia per il capitale commerciale e il capitale bancario che per gli impiegati di questi due settori; anche in questo caso viene prodotto pluslavoro e valorizzato del capitale, anche se i salari e i profitti riguardanti questi settori sono di necessità prelevati dal valore e dal plusvalore creati nella produzione. Inoltre, esistono tuttora degli artigiani e dei contadini indipendenti che non occupano operai e che non producono quindi in qualità di capitalisti. "Essi si presentano unicamente come venditori di merci, non come venditori di lavoro; questo lavoro quindi non ha niente a che vedere con lo scambio del capitale e del lavoro, né tantomeno con la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, che poggia sul fatto che il lavoro è scambiato con denaro sia in quanto tale sia in quanto capitale. Pur essendo produttori di merci, essi non appartengono nè alla categoria dei lavoratori produttivi nè a quella dei lavoratori improduttivi. Ma la loro produzione non è subordinata al modo di produzione capitalistico"[6].

Note

1. Cfr. la serie di articoli su "Lavoro produttivo e lavoro improduttivo nel sistema capitalistico" in Sozialislische Polititik (Berlino) n.6-7 e 8, giugno e settembre 1970, con i contributi di Joachtm Birchoff, Iictner Gansmann, Gudrun Kiimmel, Gerhard Lóhtetn; Christoph Iliibner, Ingrid Pitch, Lothar Riehn; Elmar Altvater, Frecrk lluisken.

2. Cfr. Theorien, pp. 368-369 [Questo frammento non figura nella traduzione di Molitor, poichè mancava nella prima versione dell'opera; se ne troverà una traduzione in Karl Marx, Oeuures Econontiques, ed. Rubel, Il, Partgi 1968, p. 388. (N.d.T.)].

3. Cfr. Theorien, pp. 368-369 [Questo frammento non figura nella traduzione di Molitor, poichè mancava nella prima versione dell'opera; se ne troverà una traduzione in Karl Marx, Oeuures Econontiques, ed. Rubel, Il, Partgi 1968, p. 388. (N.d.T.)].

4. Cfr. Theorien, p. 387.

5. Cfr. Theorien, p. 387.

6. Cfr. Theorien, p. 382 (Cfr, anche K. Marx, Ocuvres Il, op. cif., p. 401).

 

 

Lavoro manuale e lavoro intellettuale
di Mirko Roberti

La divisione del lavoro e le classi sociali

Il problema della divisione del lavoro, nei suoi innumerevoli aspetti e conseguenze, è da qualche tempo oggetto di interesse all'interno dell'universo marxista e progressista, dall'economia alla sociologia, dalla psicologia alla pedagogia, dalla storia all'antropologia.
Possiamo citare, per esempio, la linea "marxista libertaria" di "Socialisme ou Barbarie" che interpreta l'esperienza dei Consigli Operai come tentativo di superare "la contraddizione fondamentale di ogni sistema di sfruttamento: la divisione fra dirigenti ed esecutori" (1).
Con una prospettiva più marxista e meno libertaria Salvati e Beccalli pubblicarono, anni orsono, uno studio sullo stesso tema nella rivista "Quaderni Piacentini" (2). Pochi mesi dopo anche "il Manifesto" nelle sue tesi "per il comunismo" riprese il discorso (3). Ultimamente "Fabbrica e stato" dedicò il numero 7/8 del luglio-agosto 1973 a questo problema. Sotto il profilo pedagogico è uscito recentemente un libro edito dalla Nuova Italia (4) interamente dedicato alla divisione del lavoro.
In tutti questi lavori ed in molti altri ancora è presente una tesi comune, pur nella diversità delle posizioni: La divisione del lavoro è vista come divisione capitalistica del lavoro. In altri termini la divisione del lavoro è una conseguenza dell'organizzazione capitalistica. Forse a causa di questa impostazione, o forse per ignoranza o malafede, le analisi anarchiche sulla radice strutturale della divisione del lavoro sociale come causa della disuguaglianza e quindi dello sfruttamento, non sono minimamente riprese e citate. Diviene possibile in questo modo la riscoperta della dimensione "utopistica e libertaria" del marxismo.
Per gli anarchici, al contrario, non occorre nessuna "scoperta" o "riscoperta" dal momento che la divisione del lavoro occupa un posto centrale nell'elaborazione teorica del pensiero libertario e riprenderne il filo è per noi utile e stimolante e doveroso.
Un tale discorso coinvolge molteplici problemi e aspetti, riguardanti, da una parte, le cause del suo costituirsi in sistema sociale di sfruttamento, dall'altra, le alternative libertarie inerenti al progetto anarchico di distruzione dell'autorità, configuratasi storicamente nella formazione delle classi e dello stato.
Con questo approccio, infatti, intendiamo risalire alla struttura che sta alla base del meccanicismo autoritario, descrivendone e identificandone le componenti costanti e le forme caratteristiche, gli elementi cioè che, per la loro natura strutturale, si ripresentano e si concretizzano nelle differenti società storiche, assumendo di volta in volta le forme socio-economiche ad esse inerenti e parallelamente l'apparato politico che le vivifica e le giustifica.
La comprensione teorica di un problema così vasto e complesso, vero nodo cruciale della tematica anarchica, richiede l'uso di una pluralità di conoscenze che come abbiamo già detto, vanno dall'economia alla sociologia, dalla psicologia alla pedagogia, dalla storia all'antropologia, ecc.
L'accostamento a tale problema, se da una parte risulta variamente diversificato, a seconda del punto di vista in cui viene affrontato, dall'altra deve essere riconducibile ad un'unica prospettiva operativa, che ci è data dai fini dell'anarchismo e dal suo sapere teorico e pratico.
Crediamo pertanto che iniziare un simile discorso comporti innanzitutto il concorso di specifici contributi teorici. In questo primo articolo ci limiteremo a mettere in evidenza la correlazione tra la divisione del lavoro e classi sociali così come è stata sviluppata nel pensiero di tre autori "classici" dell'anarchismo: Proudhon, Bakunin, Kropotkin.
L'anarchismo ha definito, da una parte, le cause costanti presenti nella divisione del lavoro, dall'altra, i rapporti organici che permettono un'interazione tra queste cause e la costituzione delle classi o dello stato. L'analisi dell'autorità si presenta nel duplice aspetto di un'analisi storica-dinamica e nella definizione e individuazione delle radici strutturali di essa: in altri termini una spiegazione che risale dal suo aspetto variabile a quello costante e viceversa.
L'analisi delle classi sociali, nel pensiero anarchico, se da una parte si specifica attraverso la comprensione storica e variabile della società borghese, dall'altra, individuando la correlazione con la divisione del lavoro, sviluppa una metodo di comprensione per ogni società autoritaria.
a) nella concezione teorica proudhoniana l'analisi delle classi si traduce in termini di divisione delle funzioni sociali. Si tratta di "seguire il movimento evolutivo di queste funzioni", riconoscerne il carattere e le tendenze per "formularne le leggi" in modo da costituire la comprensione teorica della società attraverso la spiegazione "dell'organizzazione del lavoro" (5). Quest'ultima si configura in una struttura di "tipo piramidale" dove "al vertice siede il principe, mentre la base posa sul proletariato". La correlazione funzioni-classi sociali è data da Proudhon nella misura in cui il lavoro umano, "anzi intelligente dell'uomo materia", viene ripartito ed assegnato secondo un ordine crescente di importanza. Essa è data dal grado di dominio dell'uomo rispetto al mondo che da naturale si fa, attraverso il lavoro collettivo, sociale.
Il lavoro, però, "è un'idea complessa, che, scomposta in ciascuno dei suoi elementi, e poi ricomposta sotto tutti i suoi punti di vista, costituisce la scienza". Le funzioni sociali o classi si collocano attraverso una scala gerarchica analoga alla "scomposizione della scienza" secondo gli elementi dai più semplici ai più complessi, dai particolari ai generali. La equazione lavoro-scienza diviene un metodo di comprensione e di analisi: "Ora, in misura che la funzione guadagna in generalità rappresentativa, vale a dire in misura che essa ne riassume un maggior numero d'altre, essa perde in specialità effettiva, in materia industriale e in applicazione scientifica. Così il capo di officina produce materialmente meno dell'operaio, ma di più dell'imprenditore; così il padrone, il prefetto, il ministro, il consigliere di stato, il re non esercitano né arte, né scienza, né mestiere; il loro ruolo è di raggruppare le funzioni inferiori, di centralizzare e di riunificarne i rapporti. Il lavoro, in questa regione elevata, suppone, come sempre, una attitudine, una educazione, e delle condizioni di eleggibilità speciale; ma, in sé, esso non è né più né meno difficile di altri: se oggi sembra aver luogo il contrario, ciò deriva unicamente dalla nostra organizzazione imperfetta, e dal semplicismo dei principi che ci governano"... Quindi "l'ineguaglianza dell'intelligenza tra gli uomini è un'anomalia, quella delle funzioni, un'ingiustizia" (6).
La divisione del lavoro tra intellettuale e manuale si generalizza in divisione sociale. Questo divorzio tra scienza e lavoro costituisce la matrice della costituzione delle classi"... il lavoro non si divide più nelle sue parti integranti, come nelle operazioni parcellari; ma nei suoi elementi costituenti, l'intelligenza e la forza" (7).
Quest'ultima, nella società borghese si traduce in forza lavoro, in merce, in virtù dello scarso valore (per il mercato capitalista) presente nella funzione sociale svolta. Questa forma storica assunta dalla diseguaglianza, si presenta nella divisione generale tra classe capitalista e classe proletaria: la società borghese costituisce con le sue strutture economiche e politiche, l'aspetto storico e quindi variabile di essa.
b) Nel passaggio dal mutualismo proudhoniano al collettivismo bakuninista si dispiega tutta l'esperienza della Prima Internazionale; nelle sue componenti teoriche e ideologiche si trova dibattuto il problema della divisione del lavoro (8). La riflessione teorica bakuniniana porta ad un livello più elevato e chiaro il rapporto tra questa divisione e le classi, tra le classi e lo stato.
Questo rapporto è analizzato sotto l'aspetto storico presente nella società borghese; quest'ultima portatrice della rivoluzione politica dell'89 (la eguaglianza giuridica dei "cittadini") ha lasciato inalterato il rapporto strutturale dello sfruttamento: l'organizzazione gerarchica del lavoro.
Scrive Bakunin: "Dato che l'origine, prima di questo asservimento, quella, per meglio precisare, del dogma dell'ineguaglianza politica degli uomini, è stata soppressa dalla grande rivoluzione, si deve attribuire l'attuale disprezzo per il lavoro alla seconda che altro non è che quella separazione che s'è andata creando, e ancor oggi permane in tutta la sua forza, tra il lavoro intellettuale e il lavoro manuale, e che riproducendo in una forma nuova la vecchia disuguaglianza divide ancora il mondo sociale in due campi: la minoranza privilegiata ormai non per la forza della legge, ma per quella del capitale e la maggioranza dei lavoratori forzati non più nell'iniquo diritto del privilegio legale ma dalla fame" (9).
Per comprendere il doppio aspetto, strutturale e storico, della formazione delle classi, l'analisi bakuniniana riprende il metodo proudhoniano dell'equazione scienza-lavoro. I gradi gerarchici di questo divorzio costituiscono la trama del tessuto sociale ed economico, che nella società storica capitalistico borghese, si traducono ancora una volta in capitale e forza-lavoro, in proletariato e borghesia: "Però, poiché il lavoro umano considerato nella sua totalità si divide in due parti, l'una interamente intellettuale, e dichiarata esclusivamente nobile, che comprende le scienze, le arti, e nell'industria l'applicazione delle scienze e delle arti, l'idea, la concezione, l'invenzione, il calcolo il governo e la direzione generale o gerarchica delle forze operaie; e l'altra solo manuale, ridotta ad una azione puramente meccanica, senza intelligenza, senza idee; approfittando di questa legge economica e sociale della divisione del lavoro i privilegiati del capitale, compresi quelli che per la pochezza delle loro capacità individuali ne sarebbero i meno autorizzati, si impadroniscono della prima lasciando al popolo la seconda" (10).
Il linguaggio bakuniniano si fa, rispetto alla definizione delle classi, estremamente generale: esse non sono definite in base al loro aspetto storico-sociale, ma in base al rapporto che intercorre fra esse. Un rapporto che va sempre dal basso all'alto, dalla base al vertice: la definizione bakuniniana è la definizione del rapporto autoritario fra le classi, è la definizione anarchica della disuguaglianza. Questi rapporti dominazione-dipendenza si sviluppano sulla rete dell'organizzazione gerarchica del lavoro, sul cui disegno geometrico piramidale, secondo il linguaggio di Proudhon, vivono ed interagiscono le funzioni sociali, dalle più semplici alle più complesse, e, ancora una volta, collocate secondo un ordine crescente di importanza e funzionalità, date dalla società storica del momento.
Si comprende ora, nel pensiero di Bakunin, come si configura l'emancipazione degli sfruttati: essa non è più data dall'eguaglianza di tutti di fronte alla proprietà, che si risolve già nella concezione pratica-teorica del suo collettivismo, ma nell'eguaglianza di fronte al lavoro, di fronte alla radice che ne sta alla base: la scienza. "Per giudicare sui progressi delle masse operaie dal punto di vista della loro emancipazione politica e sociale non si deve assolutamente confrontare il loro livello intellettuale in questo secolo con il loro livello intellettuale nei secoli passati. Bisogna invece considerare se, a partire da un'epoca data e dopo aver constatata la differenza allora esistente fra di esse e le classi privilegiate, le masse operaie hanno progredito nella stessa misura di quelle. Perché se i progressi rispettivi sono stati uguali, la distanza intellettuale che le separa oggi dal ceto privilegiato sarà la stessa" (11).
Il programma emancipatore egualitario della Prima Internazionale sfocia, nel pensiero bakuninista, in una grande magistrale consapevolezza teorica. "Abbiamo dimostrato che fino a quando vi saranno due o più gradi di istruzione per i vari strati della società, ci saranno necessariamente delle classi, vale a dire dei privilegi economici e politici per un piccolo numero di fortunati e la schiavitù e la miseria per il più gran numero. Membri dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori noi vogliamo l'uguaglianza e poiché la vogliamo, noi dobbiamo volere anche l'istruzione integrale, uguale per tutti" (12).
c) Per comprendere a questo punto il passaggio dell'analisi di Bakunin, dobbiamo tenere presente due fattori. Il primo è che essa si inserisce nella fase di transizione teorica dal collettivismo al comunismo, il secondo è che tale analisi si fa interamente sociologica. Per questo secondo aspetto l'analisi acquista una capacità comprensiva più ampia: la divisione del lavoro non investe più solo le classi, ma anche il tessuto geografico-sociale. Vi è una sorta di analogia che lega i rapporti tra divisione del lavoro e classi sociali, tra queste e i rapporti tra città e campagna, tra centro e periferia.
"divisione del lavoro, tale fu la parola d'ordine di questa evoluzione. E la divisione, e la suddivisione - la permanente suddivisione delle funzioni è stata spinta così oltre da dividere l'umanità in caste si fermamente stabilite quanto quelle dell'India Antica. Noi abbiamo, dapprima, la grande divisione tra produttori e consumatori: produttori poco consumanti da un lato, consumatori poco producenti dall'altro. Quindi, ammessa la precedente, una serie di suddivisioni susseguenti: il lavoro manuale e il lavoro intellettuale, rigorosamente separati a detrimento di entrambi; i lavoratori agricoli e quelli della manifattura. E infine, ammesso l'insieme di queste ultime, altre suddivisioni innumerevoli" (13).
La divisione sociale del lavoro le "suddivisioni" ad essa inerenti, costituiscono la struttura intera della disuguaglianza. Il lavoro, nella visione teorica kropotkiniana, si riconduce alla sua integrità non solo risolvendolo nell'equazione prassi-conoscenza, ma anche riconfermandolo nel suo significato sociale. Questa considerazione porta Kropotkin ad inserire, nella logica del suo federalismo decentralizzatore, il primo fattore cui accennavamo poc'anzi, e che costituisce l'aspetto fondamentale della sua dottrina: il comunismo.

Socializzazione dei beni e socializzazione del sapere si trovano indissolubilmente unite nel processo rivoluzionario dell'abolizione delle classi. Queste ritornano ancora una volta sotto il segno delle funzioni sociali e delle divisioni e "suddivisioni" interne ad esse: "Così minute, realmente, che l'ideale moderno di un lavoratore sembra di essere un uomo o una donna, od anche un fanciullo o una ragazza, prive delle conoscenze proprie a qualsiasi artigiano; senza nessuna concezione riguardo all'industria in cui sono impiegati; capaci unicamente di produrre durante tutto il giorno e per tutta la vita la stessa infinitesima parte di qualche cosa: di spingere, dall'età di tredici a quella di sessant'anni, il carro del carbone ad un posto nella mina, o fabbricare la molla di un temperino, o "la diciottesima parte di una spilla". Semplici servi di qualche macchina d'un dato modello; semplici parti di carname di un immenso meccanismo, senza idea alcuna del come e del perché quel meccanismo compie i suoi ritmici movimenti" (14).
Lo scambio dei beni, dei servizi e delle informazioni in una tale struttura si sviluppa necessariamente in modo diseguale: l'organizzazione gerarchica del lavoro sociale si ridistribuisce nell'intera rete produttiva, amministrativa, culturale, ecc. Questa gerarchia delle funzioni produttive, amministrative, culturali, ecc. costituisce il modello tipo di ogni società autoritaria e non solo dell'organizzazione capitalistica del lavoro, presente nella società borghese.
La distruzione dell'autorità, l'abolizione delle divisione sociale del lavoro e quindi delle classi, si ridefinisce, nel pensiero anarchico, attraverso l'integrazione del lavoro e la istruzione integrale. Vedremo in un prossimo articolo come tale risposta si è legata alla sua strategia rivoluzionaria, attraverso, anche, il suo operare storico concreto.

Mirko Roberti

1) Dalla presentazione di "Socialisme ou Barbarie", Guanda, 1969.

2) M. Salvati e B. Beccalli, Divisione del lavoro. Capitalismo, Socialismo, Utopia, in "Quaderni Piacentini" n.40, Aprile 1970.

3) "Il Manifesto", Anno II, Settembre 1970, pag.24.

4) AA.VV. Educazione e divisione del lavoro, La Nuova Italia, 1873.

5) Proudhon, De la Création de l'Ordre dans l'humanitè, Marcel Revière, Paris, 1927, pag.289 e sgg.

6) Proudhon, op. cit.

7) Proudhon, op. cit.

8) Documento approvato al congresso di Bruxelles del 1868. Si trova in, Tullio Martello, Storia dell'Internazionale, Padova 1873.

9) Bakunin, Società rivoluzionaria internazionale o Fratellanza internazionale, 1866. Cfr. Stato e Anarchia e altri scritti, Feltrinelli, 1968, pag.324.

10) Bakunin, L'istruzione integrale, 1869, Cfr. op. cit. 267 e sgg.

11) Bakunin, op. cit.

12) Bakunin, op. cit.

13) P. Kropotkin, Fields, Factories and Workshops, 1898. Le industrie nazionali, 1910, New York, pag. 19 e sgg.

14) Kropotkin, op. cit.

LA QUESTIONE DEL LAVORO

La divisione del lavoro nell'Ideologia tedesca (1845-46)

Nell'Ideologia tedesca (qui citata come La concezione materialistica della storia, Editori Riuniti, Roma 1974) Marx (ed Engels) afferma che la "coscienza tribale" porta alla divisione del lavoro non in seguito a una rottura sociale ma spontaneamente: in virtù dell'accresciuta produttività, dell'aumento dei bisogni e della popolazione (p. 50). Da notare che per Marx la "coscienza tribale" implica la "proprietà tribale" e quindi già una società divisa in classi, che non ha nulla a che fare col comunismo primitivo né con le società preschiavistiche: infatti nella società tribale è prevista la presenza degli schiavi. Nell'Ideologia tedesca ancora non ci s'immagina l'esistenza di un comunismo primitivo, o comunque questo non è oggetto d'interesse.

Marx sostiene che esistono due forme di divisione del lavoro: una spontanea, naturale, istintiva e qui Marx dice che la prima divisione è quella "nell'atto sessuale", in quanto la donna è preposta in maniera più esplicita, diretta, alla riproduzione della specie.

L'altra divisione del lavoro è basata sulla forza fisica, il bisogno, il caso (p. 51), ed è per così dire "relativa", non costituendo un vero problema sociale. Infatti, "la divisione del lavoro diventa una divisione reale solo nel momento in cui interviene una divisione tra il lavoro manuale e il lavoro mentale"(ib.): cosa che non si verifica nella società tribale, dove essa non è che "un prolungamento della divisione del lavoro nella famiglia"(p. 38), e la schiavitù si sviluppa "con l'aumento della popolazione e dei bisogni, e con l'allargarsi delle relazioni esterne, così della guerra come del baratto"(ib.).

Ora facciamo attenzione. Lasciamo perdere il fatto che Marx non spieghi il passaggio dal comunismo primitivo alla società tribale e che dia per scontata la presenza dello schiavismo in quest'ultima o comunque che supponga uno sviluppo spontaneo dello schiavismo nel tribalismo (cosa, in realtà, tutt'altro che assodata). Ciò che ci preme sottolineare è che la vera divisione del lavoro che produce qualcosa di inedito, in senso negativo, è quella che separa il lavoro manuale da quello intellettuale.

Infatti, "da questo momento in poi -dice Marx- la coscienza può realmente figurarsi di essere qualche cosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunché di reale: da questo momento la coscienza è in grado di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la 'pura' teoria, teologia, filosofia, morale, ecc."(p. 51).

Per Marx questo non costituisce "problema" ma anzi il "senso della storia", poiché indica la differenza tra uomo pensante e animale o uomo non pensante, istintivo, tribale. Marx infatti parla di "coscienza da montone o tribale"(p. 50).

La stranezza di questo modo di ragionare, dovuto probabilmente al fatto che le conoscenze storiche erano ancora approssimative, si riflette laddove Marx è poi costretto ad affermare che contestualmente a questa divisione del lavoro, da manuale a intellettuale, che pur dà origine alla coscienza, si forma la pratica dello sfruttamento del lavoro altrui, cioè si forma lo schiavismo vero e proprio.

Qui evidentemente mancano dei passaggi logici, poiché non ha senso che da un lato la divisione del lavoro favorisca la nascita della coscienza e dall'altro questa stessa divisione porti l'uomo pensante a vivere contraddizioni insostenibili, anzi così intollerabili che ad un certo punto Marx si sente indotto a chiedere la fine della stessa divisione del lavoro. La possibilità che gli individui non entrino in contraddizione "sta solo nel tornare ad abolire la divisione del lavoro"(p. 51).

Infatti è proprio un difetto di questa divisione l'assegnare a individui differenti ciò di cui ognuno avrebbe bisogno e diritto: "l'attività spirituale e l'attività materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo"(ib.). In forza di questa divisione si crea una "coscienza idealistica", che altro non è se non una rappresentazione astratta di individui isolati, l'espressione mistificata di conflitti sociali, di "ceppi e barriere molto empirici"(p. 52).

Marx ed Engels arrivano persino ad affermare con grande sicurezza che "divisione del lavoro e proprietà privata sono espressioni identiche"(ib.), in quanto una è la forma del contenuto dell'altra. Infatti, "la divisione del lavoro... fondata sulla divisione naturale [nel senso di spontanea] del lavoro nella famiglia e sulla separazione della società in singole famiglie opposte l'una all'altra, implica in pari tempo... la ripartizione ineguale, sia per quantità che per qualità, del lavoro e dei suoi prodotti, e quindi la proprietà, che ha già la sua prima forma nella famiglia, dove la donna e i figli sono gli schiavi dell'uomo"(ib.). In una parola, "i diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse della proprietà"(p. 37).

Il difetto di questa tesi sta proprio nell'aver estrapolato la prima, rudimentale, forma di schiavitù presente nella famiglia dal contesto sociale in cui essa s'è formata. Storicamente infatti non si è passati da una schiavitù limitata nell'ambito familiare a quella più estesa nell'ambito della società, tra persone non consanguinee, non imparentate.

Il potere di vita e di morte che il "pater familias" aveva sulla propria donna e sui figli era una conseguenza della società divisa in classi, e quindi un effetto dell'affermazione già sociale del principio della proprietà privata. In tal senso la prima forma di divisione del lavoro non si verifica tanto nell'ambito della famiglia, tanto in quello della stessa comunità, tra uomo libero e schiavo, e non può essere considerata come frutto di semplici determinazioni quantitative e progressive. L'introduzione di una differenza di così grande valore, basata sul rapporto di forza, determinerà la discriminazione tra uomo e donna.

Resta comunque interessante che il giovane Marx avesse nei confronti del precapitalismo maggiori forme di attenzione che non nel suo periodo inglese (vedi tuttavia il  e le Formen), ma non è da escludere che questa parte sia stata scritta da Engels, che poi riprenderà, ampliandola, nella Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato.

Quel che è certo è che Marx considerava o comunque accettava l'idea che la divisione del lavoro è un'attività in contraddizione con "l'interesse collettivo di tutti gli individui che hanno rapporti reciproci... [interesse] che esiste anzitutto nella realtà come dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è diviso"(p. 52). Questa idea non traeva forse la sua ispirazione dalle formazioni sociali precapitalistiche?

Anche quando Marx parla esplicitamente del capitalismo, non c'è apprezzamento, nell'Ideologia tedesca come invece negli studi inglesi, per la divisione del lavoro, poiché essa determina "la separazione del lavoro industriale e commerciale dal lavoro agricolo e con ciò la separazione fra città e campagna e il contrasto dei loro interessi. Il suo ulteriore sviluppo porta alla separazione del lavoro commerciale da quello industriale"(p. 37).

Marx inoltre qui anticipa un argomento che svilupperà a Londra: "fintantoché gli uomini si trovano nella società naturale [istintiva, non consapevole]... l'azione propria dell'uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga, invece di essere da lui dominata. Cioè appena il lavoro comincia a essere diviso, ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire..."(p. 53). Negli studi inglesi Marx arriverà a dire che questa potenza estranea è la stessa organizzazione di produzione e riproduzione del capitale.

Ma ciò che più lascia perplessi sono le conclusioni operative su questo discorso. Per realizzare il socialismo Marx ed Engels non pensano affatto a recuperare le dimensioni sociali del precapitalismo, ma anzi sperano ch'esse vengano definitivamente distrutte dal capitalismo, in modo che la stragrande maggioranza della gente sia priva di proprietà. Così la reazione al capitalismo sarà non solo su basi del tutto nuove, ma anche inevitabile. Di qui l'apprezzamento del fatto che la produzione capitalistica permette agli uomini di realizzare delle "relazioni internazionali"(p. 57), in opposizione al localismo della produzione feudale.

Il proletariato, per farsi valere come classe, in opposizione non solo alla borghesia, ma anche ai contadini proprietari della terra, deve conquistarsi il potere politico, "per rappresentare a sua volta il suo interesse come l'universale..."(p. 54). Il grande sviluppo delle forze produttive capitalistiche porterà, a motivo della proprietà privata dei mezzi produttivi, a negare tale proprietà alla massa della popolazione; porterà anche a una ricchezza mal distribuita. Se i lavoratori vedranno da un lato la loro miseria generale e dall'altro la ricchezza particolare di pochi capitalisti, si ribelleranno inevitabilmente.

Riflessioni sulla divisione del lavoro

In una società produttiva -aveva ragione Marx nelle sue opere giovanili- non dovrebbe mai essere troppo marcata la divisione del lavoro, e comunque non dovrebbe essere oggetto di costrizione, perché un lavoratore non può essere costretto, direttamente dalla politica o indirettamente dall'economia, a fare sempre le stesse cose.

Posta la socializzazione dei fondamentali mezzi produttivi, la divisione del lavoro dovrebbe riguardare solo un aspetto del lavoro collettivo, una sua particolare attività: nel senso che l'uomo può accettare, liberamente, di specializzarsi in un dato ramo produttivo o anche semplicemente in un'attività utile o apprezzata dalla collettività, senza che questo vada a detrimento della sua esigenza di completezza e di globalità.

Un lavoratore si sente realizzato quando anzitutto può provvedere ai propri bisogni essenziali, cioè quando è in grado di gestire autonomamente la risposta a un bisogno. Una divisione del lavoro avrebbe senso o per le necessità non essenziali (p.es. le comodità, il surplus, fino alle espressioni artistiche), oppure, se per le necessità essenziali, per quelle al cui soddisfacimento chiunque possa in qualche modo contribuire.

Un contadino può aver bisogno dell'idraulico per fare l'impianto di casa propria, ma non può averne bisogno in maniera assoluta, cioè come se la realizzazione di quell'impianto dipendesse unicamente dalla capacità dell'idraulico. Se un lavoratore dipende in toto da un altro lavoratore, esisterà sempre la possibilità che l'uno si arricchisca a spese dell'altro. La dipendenza, al massimo, può avere un senso se è relativa e, possibilmente, reciproca.

In generale vanno evitate tutte quelle forme di lavoro che possono essere utilizzate per ricattare economicamente o anche solo moralmente chi non svolge la medesima attività. La sottomissione alle competenze altrui dovrebbe essere vissuta come scelta spontanea, senza alcuna forma di costrizione.

Cioè l'uomo potrebbe concedersi alla divisione del lavoro se potesse rinunciarvi in qualsiasi momento. Questo ovviamente significa che le condizioni concrete dell'attività lavorativa vanno tenute costantemente sotto controllo. Non fa problema la specializzazione in sé, la professionalità, ma il fatto ch'essa sia il frutto di un'espropriazione della possibilità di rispondere ad esigenze vitali.

Un lavoratore è completo quando sa provvedere per gran parte alla totalità dei suoi bisogni, o quando sa che la dipendenza dagli altri lavoratori rappresenta non una minaccia alla propria autonomia, ma una fonte di sicurezza.

Riflessioni sul lavoro astratto

L'idea di voler considerare "sociale" la produzione capitalistica e "individuale" quella pre-capitalistica fu un errore che Marx si trascinò sino agli ultimi anni della sua vita, allorquando il contatto col populismo russo (non dimentichiamo che, nel momento in cui venne pubblicato, il Capitale ebbe più successo in Russia che in Europa occidentale) gli fece aprire gli occhi sul valore delle risorse umane e sociali di un'esperienza rurale come quella dell'obscina.

In effetti, l'aver basato la socialità della produzione capitalistica sul "lavoro astratto" fu un'operazione più filosofica che non storiografica.

La socializzazione dei produttori, inerente al fatto che si trovano insieme a lavorare in fabbrica, è solo una maschera strumentale alla realizzazione di un profitto privato, e se vogliamo considerare "sociale" il fatto che i produttori vengono trasformati in ingranaggi che devono far funzionare la macchina che fa accumulare capitali, allora bisogna dire che i sistemi schiavistici dell'età pre-cristiana erano non meno "socializzanti" dell'attuale capitalismo.

La cosiddetta "cooperazione dei produttori" è contingente alla loro specifica mansione, tant'è che in occasione delle crisi periodiche di sovrapproduzione il loro licenziamento tronca di netto ogni forma di socializzazione produttiva. Il capitalismo, seguendo in questo la dottrina calvinista, ha posto il lavoro al di sopra dell'uomo perché ha posto il profitto al di sopra del lavoro.

E i lavoratori occidentali riescono a sopportare questa situazione disumana solo perché, mentre pensano di non avere alternative, il capitale riesce a dare loro, per sopravvivere, quello che riesce a togliere ai lavoratori del Terzo Mondo.

Marx aveva ben capito che dietro la merce - che gli economisti borghesi volevano far passare come un prodotto neutro, frutto di una libera contrattazione - c'era un rapporto sociale basato sullo sfruttamento e che tale sfruttamento trovava degli addentellati nell'alienazione religiosa. Tuttavia, il pregiudizio che nutriva nei confronti della religione lo indusse a scorgere come unica vera forma di socializzazione, nelle economie pre-capitalistiche, quella della fase dello scambio dei prodotti, che inevitabilmente era ben poca cosa rispetto a quella borghese vera e propria, in quanto basata sulle eccedenze o comunque sull'acquisto di beni particolari, che non potevano essere autoprodotti dalla comune agro-artigianale.

In sostanza egli guardava il pre-capitalismo non come realtà a sé, coi suoi pregi e difetti, ma come una realtà del tutto inferiore a una che in virtù della conoscenza scientifica e del progresso tecnologico era riuscita a trasformare completamente lo stile di vita a milioni di persone.

Quando Marx diceva che se nel capitalismo la socializzazione è un a-priori della merce, nel pre-capitalismo è invece un a-posteriori, non si rendeva conto di attribuire al concetto di "socializzazione" una valenza meramente economico-produttiva, tralasciando di considerare gli aspetti socio-culturali.

Nel mondo rurale del feudalesimo ci si sentiva socializzati anche quando si svolgevano mansioni isolate o di poche persone. Non era tanto (o solo) il lavoro che teneva uniti, quanto il valore che si attribuiva allo "stare insieme": era la vita che dava un significato al lavoro. E questo nonostante la tristissima esperienza del servaggio e l'insopportabile peso del clericalismo.

Marx non ha compiuto una vera rivoluzione culturale, in quanto si è servito della falsa rappresentazione capitalistica della socializzazione per screditare non solo l'esperienza religiosa pre-borghese (il che si può capire), ma anche l'esperienza sociale sottesa a quella religiosità.

Eppure proprio quell'esperienza ci fa capire che un lavoro non acquista il carattere della "socialità" nel momento stesso in cui si diventa "macchine umane" a fianco di altre "macchine fisiche" o nel momento in cui il bene prodotto viene scambiato.

Un lavoro è "sociale" se lo è l'esistenza in cui esso si manifesta. E' la pratica del valore sociale delle cose che dà al lavoro un carattere di socialità, a prescindere dall'effettivo scambio dei prodotti e dal fatto stesso di lavorare più o meno insieme.

Infatti, se in una società è assente il concetto di proprietà privata (che comunque nel Medioevo esisteva, ma in forme molto più sopportabili di quelle odierne, in quanto la capitalizzazione delle derrate era vincolata al consumo che se ne poteva fare e l'accumulo di terre aveva più che altro lo scopo di soddisfare ambizioni di potere politico o di prestigio personale), ogni bene prodotto è prodotto per tutti, è "sociale" per definizione, come un aspetto immanente alle cose.

Viceversa, nel capitalismo un bene diventa sociale solo quando si trasforma in merce, cioè quando viene scambiato contro denaro sul mercato. Se, per un qualunque motivo (p.es. la sovrapproduzione o la concorrenza di un prodotto analogo), non potesse esserci lo scambio, il bene resterebbe invenduto e, benché frutto di un collettivo di produttori aziendali, esso non avrebbe alcun carattere di socialità; il che dimostra, in maniera evidente, come lo scambio serva per realizzare un'attività antisociale per antonomasia: l'accumulo privato di capitali.

E' stata proprio la trasformazione del concetto di valore da etico a economico (p.es. ha valore solo ciò che ha un prezzo o che permette di realizzare profitti) che ha distrutto ogni forma di socializzazione. Se Marx avesse analizzato senza pregiudizi ideologici le formazioni pre-capitalistiche si sarebbe accorto che la misura del valore delle cose non sta tanto (o solo) nel tempo socialmente necessario per produrle, quanto piuttosto nell'importanza etica, culturale che la comunità attribuisce loro. Una cosa può avere molto valore anche se per produrla è occorso un tempo relativamente breve, non viene venduta sul mercato e i mezzi impiegati per produrla non sono di gran pregio: è il caso del vino per i contadini romagnoli, simbolo principale di un intero stile di vita.

Il tempo di lavoro socialmente necessario è una definizione astratta se applicata al sistema capitalistico, in quanto la determinazione dei prezzi delle merci tiene conto solo in minima parte di quella definizione. Non essendoci un valore "etico" delle cose l'instabilità, inclusa quella economica, è la regola sotto il capitale (lo dimostrano continuamente la sfrenata concorrenza, l'inflazione, i licenziamenti in caso di sovrapproduzione, il ricorso all'avventurismo bellico ecc.)

Oggi non è più così pacifico che una libertà formale sia sempre meglio di una servitù reale.

Differenza tra schiavismo e lavoro salariato

Il lavoro salariato è uno sfruttamento più sofisticato, più speculativo, dello schiavismo, in quanto, da un lato, garantisce la libertà formale (giuridica), dall'altro nega ogni libertà sociale, se non di dispone di proprietà adeguata.

Il lavoro salariato presuppone che l'imprenditore si ponga come unico scopo dell'esistenza l'accumulazione di capitali, cioè il possedere per possedere.

Mentre gli schiavi servivano per lavorare la terra, per edificare palazzi e monumenti, per le faccende domestiche, ecc., il lavoro salariato invece serve per accumulare quattrini, che in buona parte non vengono neppure reinvestiti per allargare la produzione.

Si determina così la netta prevalenza degli aspetti finanziari su quelli produttivi e il capitalismo assume sempre di più le caratteristiche delineate da Lenin nel suo libro sull'Imperialismo.

 

 

 

VIII - Conclusioni

 

·         felicità, ragione, interpersonalità. Per secoli – soprattutto nell'Età Moderna (XVI-XVIII secolo) - sia le filosofie sia il senso comune hanno tenuto separati i discorsi su felicità, ragione, interpersonalità. In tal modo si sono prodotte: a) visioni della felicità emotivistiche, edonistiche e mistiche: cioè senza connessione con la ragione o senza connessione col rapporto interpersonale. b) visioni della ragione intellettualistiche o matematizzanti: cioè senza connessione col rapporto interpersonale e senza connessione con la felicità. c)  visioni dell’amore sentimentalistiche (come nel romanticismo) e ascetiche (come in Kant): cioè senza connessione con la ragione o senza connessione con la felicità. Dal XIX secolo  in poi, però, l’intrecciarsi delle cause più varie , alcune categorie di pensatori sono arrivate a convergere in una visione diversa, in cui i tre elementi costituiscono le parti di un discorso unico. In  tale sviluppo il pensiero contemporaneo  ha visto che per la soluzione del problema antropologico («Cosa è l’uomo?») e del problema etico («Come l’uomo può essere felice?»), l’attenzione alla «salute» ossia alla felicità come realizzazione della natura umana, l’attenzione alla razionalità, e l’attenzione al rapporto interpersonale devono convergere, non devono separarsi né tanto meno contrapporsi.

  • Ora, nel nostro – incompleto! - percorso abbiamo visto un'etica sentimentalistica  (quella del Romanticismo) che mostra sia un sospetto per la ragione (gli aridi e calcolatori “filistei”!) sia una sfiducia verso l'interpersonalità (il “mondo crudele”)
  • ma abbiamo visto anche un'etica come quella marxista che unisce felicità (sommo bene dell'uomo e suo ultimo fine) con la ragione (la “scientificità”) e l'interpersonalità (la “lotta di classe”, il “proletariato”)... io credo che tale unione sia una causa profonda del forte e ampio fascino esercitato a lungo dal marxismo
  • anche il neoidealismo di Benedetto Croce ( che scriveva  - nel Contributo alla critica di me stesso - di esser stato “svegliato” alla filosofia proprio dal marxismo) unisce felicità, ragione e interpersonalità e la sua etica non è né ascetica, né sentimentalistica, né individualista. Però egli scriveva anche che questo avvenne quando non era più giovane e non si sentiva oramai di aderire con fede cieca a qualcosa o qualcuno, e che subito – dato il suo abito di studioso serio – si mise a analizzare direttamente i testi di Marx stesso e i suoi precedenti (gli economisti inglesi) non curandosi di divulgatori e promotori politici del marxismo. E ciò produsse un atteggiamento di ammirazione ma anche di critica variegata e radicale. Del “materialismo storico” di Marx accettò la sensibilità per la storia e rifiutò il materialismo. Del “comunismo” di Marx accettò l'anelito morale verso la solidarietà e la giustizia, e rifiutò le “ineluttabili” profezie di carattere utopico. Del “socialismo scientifico” di Marx accettò la valorizzazione della scienza economica, ma rifiutò l'assolutizzazione di tale “scientificità” che Marx pretendeva esser l'unica forma di conoscenza. Della “filosofia della prassi” di Marx accettò il vitale legame tra pensiero e azione, ma rifiutò la confusione tra teoria e pratica e la subordinazione a questa di quella, e non pensò che i filosofi debbano smettere di studiare e “interpretare” il Mondo per mettersi – di mestiere - a “trasformarlo”.
  • Ma la filosofia di Croce rimase – quasi per causa genetica, essendo nata in una persona che per indole preferiva di gran lunga gli “studi seri” all'azione politica – una filosofia elusiva, sfuggente e in un certo senso “aristocratica”, cioè non adatta alle semplificazioni e al gradimento di persone che non abbiano un'intima e specifica vocazione intellettuale (molte persone si dedicano all'attività intellettuale per una serie eterogenea di altri motivi, interni ed esterni). E rimane una filosofia per pochi.
  • ritengo però che nel XX secolo vi siamo almeno due altre filosofie che uniscano i sunnominati tre nodi dell'Etica (felicità, ragione, interpersonalità) e che assai più del neoidealismo crociano abbiano potuto influenzare – anche se per due vie diverse – sia un numero maggiore di persone sia una grande varietà di esse (e non solo i pochi intellettuali). E si tratta della psicanalisi freudiana e della “nuova” teologia cristiana (che in ambito cattolico esitò nel Concilio Vaticano II). Vie assai diverse! Una attraverso la richiesta di aiuto delle persone di fronte ai gravi problemi della propria esistenza individuale, l'altra attraverso la catechesi comunitaria di antiche e potenti istituzioni quali le Chiese.

·                Di queste due altre filosofie intenderei parlare nel prossimo corso. Grazie per la vostra attenzione e arrivederci!



[1]          () Le tre giornate del 29 al 31 luglio 1830 segnarono il decadimento in Francia della Monarchia assoluta di Carlo X e l'avvento al trono di Luigi Filippo d'Orleans.

[2]          () Infatti, quelle dottrine erano diffuse dalla Società che s'intitolava appunto dei “Diritti dell'uomo.”

 

 

 

Franco Manni indice degli scritti

 

 

Maurilio Lovatti home page

Maurilio Lovatti main list of online papers