ALTIERO SPINELLI

POLITICA MARXISTA E POLITICA FEDERALISTA.

Note critiche a cura di Roberto Favero.



Questo terzo e ultimo saggio contro il Comunismo lo dedico a chi più di tutti ha contribuito a stroncare il Nazifascismo e a garantire un futuro per l’Umanità stessa.

Un ringraziamento speciale è per il mio amico Alessando Gorni che mi ha aiutato nel lavoro pratico-organizzativo di questo ultimo scritto.




15 Dicembre 2016.



Anche in questo terzo e ultimo saggio (come già per il secondo), che è stato scritto interamente da Altiero Spinelli tra il 1942 e il 1943 sempre al confino fascista di Ventotene, la stragrande maggioranza delle note critiche scritte non sono mie: sono annotazioni dello stesso Spinelli.

Motivo questo per cui ho deciso di inserire in corsivo solo le poche note critiche al testo fatte da me.

In Politica marxista e politica federalista si può osservare come l’autore sia giunto a una maturità e a un’indipendenza di pensiero tale per cui la frattura con le idee comuniste della gioventù è ormai una realtà ben consolidata.



Roberto Favero.

Osservazioni critiche di Franco Manni.


Dicembre 2016.


Caro Roberto,

Ho letto il terzo e ultimo saggio, anche se ho sorvolato su alcuni passaggi.

In effetti è una profonda critica al Marxismo e alla politica pratica di alcuni partiti socialisti.

Che dire?

È molto lungo e di questi tempi ci si potrebbe domandare chi avrebbe la pazienza di leggerlo.

Leggendo mi viene da pensare come l’Unione Europea abbia incarnato proprio le cose nuove e buone, mentre quelli che la stanno combattendo riprendono le cose vecchie dello Stato Nazionale, del sezionalismo, del radicalismo marxista e dell’assolutismo imperialista.
Come se i 50 milioni di morti della Seconda Guerra Mondiale (1939-45) abbiano permesso questa cosa così nuova e “magica” (dal punto di vista del cinismo machiavellico storico sia dei marxisti sia dei reazionari) dell’Unione Europea e ora, dopo 71 anni dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale, questo mare di sangue si sia esaurito nella sua forza propulsiva e invece di andare forwards si va backwards.

Bisognerà che questo tuo progetto abbia fortuna anche se non so come si potrebbe fare.

Comunque hai fatto bene ad impegnarti.

Franco Manni.



I - IL DOGMA MARXISTA.

La dottrina marxista si è presentata al suo sorgere con la pretesa di essere una dottrina scientifica.
Dopo lunghi dibattiti dopo la fine del secolo scorso (l’Ottocento), durante la cosiddetta «crisi del marxismo», questa sua pretesa è stata completamente demolita, e si è riconosciuto che, quantunque possedesse frammenti di conoscenze scientifiche, come teoria non riusciva in alcun modo a sostenersi.

Ciononostante è rimasta in piedi come dottrina pratica, come orientamento nell'azione politica.
In questa forma ha avuto ed ha tuttora, molta presa sugli animi; e tutte le tendenze progressiste moderne, anche se non vi si richiamano direttamente, difficilmente riescono tuttavia ad impostare le loro azioni e le loro prospettive indipendentemente dal marxismo.

Abbandonando la pretesa di essere scienza, questo si è irrigidito in un grande, duro dogma religioso, che ha i suoi sacerdoti interessati, i suoi ossequiatori increduli ma ipocriti, e disposti ad ammirare tutto quel che è accettato dal volgo e che si presenta come credenza mistica e rozza, abbandonandovisi per una specie di masochismo intellettuale.

Non sarebbe difficile indicare caso per caso a quale categoria appartenga ciascun movimento o individuo che gli fa riverenza.
Il dogma marxista si può compendiare così:

Nella società odierna, il contrasto fondamentale che influisce direttamente o indirettamente su tutti gli altri fenomeni sociali, e ne determina nelle linee generali lo sviluppo, è la lotta di classe tra proletariato e borghesia.

L’interesse fondamentale della borghesia consiste nel mantenimento della proprietà dei mezzi di produzione, mentre l’interesse fondamentale del proletariato sta nell’abolizione di questa proprietà e nella collettivizzazione di tutti i mezzi materiali di produzione.

La vittoria dell’una o dell’altra parte implica perciò il mantenimento della proprietà privata (regime capitalistico) o la sua abolizione (regime comunistico).
Ma lo sviluppo del capitalismo accresce sempre di più la forza numerica del proletariato e la sua coscienza di classe, mentre d’altra parte conduce alla concentrazione sempre maggiore della produzione in poche mani, in modo da rendere ad ogni nuova crisi più probabile la vittoria del proletariato e la conseguente instaurazione del comunismo.

La società collettivista, benché prodotto necessario di uno sviluppo storico e non di una espressa volontà di fare un tipo di società migliore del precedente, abolisce tuttavia tutti i mali attualmente esistenti e crea le condizioni di una più alta e libera vita umana.

Ciò che rende così difficile indurre i credenti in questo dogma a sottoporlo ad una critica, è l’idea che esista una forza superiore la quale porti gli uomini alla loro salvezza definitiva, quantunque non ne siano né meritevoli né capaci.


E’ questo il modo con cui gli uomini, quando non hanno ancora raggiunto la piena coscienza che il loro futuro dipende essenzialmente dalla loro operosità, quando sono ancora malsicuri di sé stessi e dei valori da loro affermati, cercano di infondersi forza e coraggio, persuadendosi di lavorare per qualcosa di più divino; di servire un piano provvidenziale superiore.

Si Deus pro nobis quis contra nos?

La forza propagandistica di tali formulazioni sulle menti semplici è enorme; ed è questa veste mistica che ha assai contribuito alla popolarità del marxismo.

In realtà tuttavia, quando si dice di lavorare al servizio di una forza superiore, si dice semplicemente, in un modo più enfatico ed incoraggiante, che si intende di lavorare in un certo senso.
Se si spoglia questo dogma del suo velo mistico e lo si esamina per quello che esso è veramente, cioè per una decisione di marciare verso un dato obbiettivo adoperando certi mezzi, lo si può riesporre nel seguente modo più comprensibile.

Il marxismo è una particolare tendenza socialista che:

1) ha creduto di individuare il male della società moderna, a cui tutti gli altri tenderebbero a ridursi, nella istituzione della proprietà capitalistica.

2) Ha accolto dai cosiddetti socialisti utopisti la formula che il tipo di società che eliminerebbe quei mali è la società collettivista.

3) Ha creduto di individuare nella lotta di classe il campo in cui si deciderà la vittoria del socialismo, e nel proletariato la forza che sarà capace di sostenere e di portare alla vittoria i socialisti.
Ed ha fuso questa analisi, questa meta e questo mezzo in una formula mistica dai suggestivi effetti propagandistici.

Ma se risultasse che il proletariato non ha questa capacità? Che il collettivismo non porta alla emancipazione dei lavoratori? Che i mali fondamentali della società non si compendiano nel regime capitalistico?
Queste domande non sono semplici scrupoli di coscienza, ma si impongono ad ogni socialista serio, che mediti sulle esperienze della nostra generazione.

Il valore di qualsiasi orientamento pratico sta nei suoi frutti; e da quando, con la Prima Guerra Mondiale (1914-18), si è aperta l’epoca rivoluzionaria tuttora in corso, i movimenti orientati secondo l’ideologia marxista sono passati attraverso una inesorabile serie di sconfitte e di fallimenti. Senza eccezione.
In alcuni Paesi, lotte di carattere non economico hanno fatto passare in seconda e terza fila quelle economiche di classe.

In altri, queste lotte economiche non si sono affatto disposte secondo gli schemi postulati dal marxismo, e l’intromissione di altre classi nella sedicente lotta fondamentale ha scombussolato tutto.

In altri Paesi, il proletariato è stato il più forte ma non ha mostrato nessuna intenzione di voler seriamente realizzare il collettivismo.

In un Paese al collettivismo si è giunti*,

* L’Unione Sovietica.

ma esso non ha mostrato alcuno di quei caratteri di superiore vita umana che avrebbe dovuto avere.

Se le cose stanno così per il marxismo - e stanno effettivamente così - ci dovremmo prospettare i socialisti divisi in due parti ben distinte.

Da una parte ci sono i socialisti tradizionalisti, i quali, con mirabile assenza di fantasia, non riescono nemmeno a concepire che si possa procedere in modo differente, fanno coincidere l’orientamento socialista col dogma marxista, e, benché battuti, umiliati e dispersi, tornano a riordinare sempre con gli stessi criteri le loro file, sperano che le occasioni perdute si ripresenteranno, e si preparano a compiere di nuovo quel che hanno fatto in passato.

Negano i fatti più evidenti, vogliono mantenere la loro fede ed adoperano la loro ragione non per meditare ma per escogitare motivi avvocateschi che possano persuaderli a restare sulla stessa strada.

Il lettore può ben capire che questi fedelissimi saranno ottimi struzzi, ma rendono al socialismo un ben cattivo servizio.

Nella misura in cui avessero domani un’influenza politica notevole, il risultato della loro azione sarebbe un ennesimo fallimento.

D’altra parte ci sono i socialisti spregiudicati, i quali si rendono conto che socialismo e marxismo non coincidono.

Essi sanno che essere socialista significa riconoscere che nella società attuale le forze economiche operano in modo da creare privilegi
fondati sulla ricchezza, e da escludere gran parte delle classi lavoratrici dalla partecipazione all’opera ed ai frutti della civiltà moderna, e significa proporsi seriamente di cambiare questo stato di cose*.

* Ciò che è vivo del socialismo.

Intendono che lo strumento che deve servire a soddisfare i bisogni collettivi cioè lo stato, venga adoperato in modo tale che le forze economiche non dominino gli uomini ma, come avviene per le forze naturali, siano da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime.

Collettivismo e lotta di classe non sono dei fini a cui bisogni tendere per loro intrinseco valore; sono rispettivamente semplici istituzioni giuridiche e semplici forze sociali, che hanno il puro valore di mezzi per raggiungere quel fine.
Se sono mezzi inadeguati, bisogna modificarli o cercarne dei diversi.

I socialisti tradizionalisti accuseranno naturalmente i socialisti spregiudicati di non essere più socialisti, di essere dei traditori, ecc.; ed avranno in un certo senso ragione, poiché la spregiudicatezza è sempre un tradimento del torpido*

* Ottuso, fiacco, lento.

tradizionalismo.

Noi intendiamo stare dalla parte dei socialisti spregiudicati, e sottoporre ad un esame critico i problemi della rivoluzione socialista, allo scopo di essere meglio pronti alle probabili eventualità, e più consapevoli di quel che si vuol raggiungere e del modo con cui raggiungerlo.

Va notato che nessuno si rifiuta per principio di compiere una tale indagine; però, non appena la si inizia, ci si accorge che negli ascoltatori si manifestano sensi di irritazione ed una resistenza cocciuta a procedere oltre.

Si accumulano pretesti, parole vuote, sragionamenti.

Si insulta in ogni maniera l’espositore, nella segreta speranza che cessi di disturbare la dolce quiete dello spirito.

Il fatto è che dal nostro ascoltatore esigiamo alcune cose piuttosto difficili.

Esigiamo che non supponga senz ’altro che una via sia buona e feconda, solo perché molti la sostengono, perché è stata insegnata come buona, perché coloro che ci sono più vicini l’affermano; che non riduca il compito della ragione a quello di andare accattando argomenti sofistici di dubbio valore, per dare a credere a sé e agli altri che una soluzione vada bene, quando invece va male; che sappia far tacere i propri pregiudizi e non se ne rintroni continuamente il cervello; che sia pronto a valutare le forze politiche e gli uomini per quel che valgono effettivamente e non per quel che vorremmo che valessero; che sia disposto a confrontare i sogni con la realtà e, in caso di contrasto. a negare quelli e non questa.

Tali atteggiamenti spirituali è molto più facile esigerli da altri, che averli e farne uso.

Tuttavia, sforzandoci per nostro conto di essere spregiudicati e realisti, ci permettiamo di chiedere ai nostri lettori di esserlo quanto più sia loro possibile. E’ pretendere troppo?


II – I MALI DELLA SOCIETÀ ATTUALE

Secondo il marxismo, i mali della società attuale tendono a compendiarsi in uno fondamentale: lo sfruttamento della classe operaia da parte dei capitalisti.

Marx sapeva bene che esistevano molti altri mali, ma credeva di poter dimostrare che il capitalismo tende a divenire l’unica forma di vita economica, e a far perciò svanire tutti gli altri mali, sopravvivenze di epoche passate, trasformandoli tutti in questi termini: gli operai producono più di quel che ottengono come salario, e questo soprappiù va nelle mani dei capitalisti, i quali concentrano la ricchezza in un numero di persone sempre minore.

A ciò si può rimediare in modo radicale solo trasferendo i capitali alla collettività, in modo che anche quel soprappiù resti nelle mani della collettività e sia usato a suo vantaggio.

Un più attento esame ha però mostrato che questa analisi del problema della ricchezza era inesatta, e che esistevano altri mali che non si riducevano affatto a questo.

Esaminiamo separatamente questi due punti.

E’ vero che la società capitalista è così fatta che il sovrappiù rispetto ai beni consumati dai lavoratori in un dato periodo resta nel suo complesso nelle mani dei capitalisti; ma è da aggiungere che questo sovrappiù si divide in due parti: una parte che è consumata dai capitalisti stessi ed un’altra che è semplicemente accumulata e reinvestita nella produzione.

Il male non consiste nell’attribuzione di questa seconda parte.

Con essa infatti i capitalisti non sottraggono nulla, poiché restituiscono nella produzione quel che hanno trattenuto.

Si può immaginare una forma di società in cui la funzione del risparmio non sia affidata ai singoli individui, ma allo stato.

Anche la società socialista dovrebbe però sottrarre al consumo degli operai una parte dei beni prodotti per reinvestirla*;
* Ciò è stato notato anche da Marx, il quale nella Critica al programma di Gotha ha respinto come assurda la formula del socialismo come assegnazione a ciascuno dell’intero prodotto del suo lavoro.

resterebbe solo da vedere se sia più conveniente affidare questa funzione a privati o allo stato. E’ un problema tecnico che non cambia nulla alla sostanza delle cose.

Il male non è dunque qui. E’ nella parte che i capitalisti consumano per soddisfare i loro bisogni voluttuari, mentre le classi lavoratrici riescono a stento a soddisfare i bisogni che, date le esigenze della nostra civiltà, sono più urgenti.

Se facciamo bene attenzione, vediamo che il male non sta nel fatto che ci sono capitalisti e proletari, possessori di strumenti di produzione e venditori di forza-lavoro.
Il male consiste nel fatto che ci sono ricchi (siano essi o no capitalisti) e poveri (siano essi o no operai salariati).

Nella società capitalistica, fondata sul mercato, non si soddisfano i bisogni sentiti come più urgenti, né quelli che un dato criterio di civiltà impone come più urgenti.

Si soddisfano i bisogni che possono essere meglio pagati.

Tutta la produzione si dispone in modo da soddisfare innanzitutto i bisogni che possono essere meglio pagati. Tutta la produzione si dispone in modo da soddisfare innanzitutto i bisogni dei più ricchi, e in secondo luogo, e in modo sempre più incompleto, i bisogni dei più poveri.

D’altra parte, i ricchi, solo perché tali, si trovano avvantaggiati nell’ottenere una migliore educazione e nell’occupare posti più elevati.

I poveri hanno una molto più ristretta cerchia di opportunità, qualunque siano le loro capacità, solo perché poveri.

Questo stato di cose è un male per chiunque voglia che agli uomini sia reso il più eguale possibile il campo delle libere scelte per consentire il massimo possibile sviluppo della loro personalità.
I poveri, cioè in generale i lavoratori (operai o non operai) e le loro famiglie, hanno nell’ordinamento attuale della società molto meno di quel che spetterebbe loro in base alle esigenze dei nostri ideali di civiltà.

In ciò consiste, ove lo si formuli nettamente, il problema dello sfruttamento.

Marx accetterebbe probabilmente questa formulazione, ma aggiungerebbe che tutto lo sviluppo storico porta a far sì che la società si divide solo in proletari e capitalisti, e che perciò il contrasto tra ricchi e poveri tende praticamente a coincidere col contrasto fra borghesia e proletariato.

Quest’affermazione è però gratuita. Una tale ineluttabile legge di semplificazione non esiste.

Non spenderemo nemmeno una parola per dimostrarne la falsità, poiché, per chi è capace di osservare i fatti e seguire i ragionamenti, la cosa è ormai chiarissima, e per chi fa atti di fede, ragionamenti ed osservazioni sono perfettamente inutili.
Diremo solo che i più intelligenti tra i marxisti, cioè i comunisti, pur continuando a predicare il dogma marxista, hanno da un pezzo compreso che il termine lavoratori poveri non coincide col termine proletari, e non si sognano più, per esempio, di confondere le esigenze dei contadini con quelle degli operai.

Così stando le cose su questo punto, fissiamo chiaramente che compito dei socialisti non può essere di provvedere alla soluzione del problema operaio, fidandosi che allora si risolverà automaticamente anche quello degli altri lavoratori; ma il provvedere alla soluzione del problema della miseria in tutte le sue svariate
forme, di cui quello della miseria operaia è solo un aspetto, per quanto di notevole importanza.

Il problema della miseria delle classi lavoratrici sorge in quanto la nostra società ha sviluppato forze produttive immense, tali da permettere un generale miglioramento delle condizioni di vita delle grandi masse; in quanto i nostri criteri di civiltà esigono che queste possibilità di miglioramento diventino realtà, ed in quanto l’ordinamento sociale esistente ostacola la realizzazione di queste esigenze.

Ma nella società odierna esiste anche un altro complesso di mali che si manifestano in gigantesche contraddizioni, le quali di tanto in tanto esplodono arrestando il processo di produzione delle ricchezze, distruggendo ricchezze accumulate, sprecano risorse per scopi improduttivi, paralizzando in modo sempre più grave tutta la vita sociale.

Sono il marasma economico e le guerre.

Un ordinamento in preda a tali convulsioni, si impoverisce e minaccia continuamente rovina*.

* Tutti diventano più poveri con la guerra, non solo le classi lavoratrici povere.. anche i ricchi!

Questi mali distruggono la premessa stessa del problema precedente*,

* Ossia il problema della miseria delle classi lavoratrici povere.

poiché è chiaro che si può risolvere il problema della miseria, solo a patto di mantenere un elevato livello di produzione di ricchezze.

Se si scivola verso il marasma e l’impoverimento generale, qualsiasi soluzione diventa illusoria.

I marxisti si sono molto occupati di questi mali, ma non sono riusciti a farne un’analisi esatta, ed in conseguenza non sono nemmeno mai riusciti a formulare rimedi adeguati.

Marasma economico ed imperialismo sono considerati come semplici conseguenze dell’ordinamento capitalistico.

Il capitalismo provoca, a causa della «anarchia della produzione», periodiche e sempre più violente crisi economiche.

Inoltre, è per sua natura indotto sempre più ad operare gli Stati per far loro condurre una politica imperialistica, onde conseguire i più alti profitti.

I marxisti non sono però mai riusciti a dimostrare questo nesso necessario fra un sistema in cui esiste la proprietà privata da una parte, ed il marasma economico e l’imperialismo*

* Ossia le guerre armate.

dall’altra.

Il capitalismo ha si periodiche fluttuazioni dovute a rotture di equilibri; ma non è possibile in alcun modo dimostrare che esse debbano diventare sempre più rovinose fino a paralizzare completamente tutto l’organismo produttivo.
Rosa Luxemburg ha tentato di dimostrarlo.

Ma il tentativo è fallito ed è stato respinto dalla gran maggioranza dei socialisti, anche marxisti, i quali, se continuano ad adoperare tali tesi nella loro propaganda spicciola, è solo perché di fatto questo marasma crescente è una delle caratteristiche della nostra epoca, e vogliono utilizzare i risentimenti che esso provoca a vantaggio della loro lotta per l'instaurazione del collettivismo.

Le crisi del capitalismo sono semplici crisi di raggiustamento di equilibri; ed anche in una società collettivista ci sarebbero, ogni volta che si facessero piani sbagliati o si sbagliasse nella loro esecuzione, o sopravvenissero circostanze che erano imprevedibili nel momento della formazione dei piani.

Queste crisi però non hanno a che fare col marasma economico che colpisce la nostra società.

Egualmente fallito deve considerarsi il tentativo di mostrare che l’imperialismo è una conseguenza diretta del capitalismo*.
* Vedi una critica esauriente delle teorie marxiste dell’imperialismo in: Lionel Robbins, Le cause economiche della guerra.

Eppure marasma economico ed imperialismo sono fenomeni così disastrosi, che i socialisti debbono sforzarsi di individuarne con precisione le cause, sotto pena di veder frustrato irremissibilmente il loro scopo fondamentale.

In Marx non si trova uno studio di questi fenomeni.

Egli viveva in un’epoca in cui si credeva generalmente che essi fossero residui degli anciens régimes ed in via di sparizione.

Marx si occupa solo dei mali caratteristici del capitalismo nel suo complesso, e non di quelli dovuti agli interessi sezionali*.

* Interessi sezionali è sinonimo di interessi particolari. Quando cioè interessi economici particolari sovrastano quelli generali.


Questo concetto generico di «capitalismo» come causa di tutti i mali, ha poi enormemente danneggiato i marxisti, i quali avevano in quel
concetto uno strumento di indagine inadeguato per comprendere il fenomeno del sezionalismo.

Ben lungi dallo scomparire, il sezionalismo è invece divenuto la caratteristica predominante della nostra epoca.

Il sezionalismo sorge dal fatto che non esiste un’armonia automatica e spontanea fra gli interessi particolari e le esigenze generali di un certo tipo di civiltà.

Perché queste esigenze generali possano farsi valere, occorre sempre stabilire delle regole generali che fissino i limiti entro cui gli interessi particolari possano esplicarsi, e che siano accompagnate da una forza sufficiente per essere rispettate.

Se le forze particolaristiche di individui o gruppi riescono a spezzare queste regole generali e ad imporne di fatto altre, in cui si tenga esclusivamente conto dei particolari interessi di quegli individui o gruppi, sopraffacendo il resto della società, danneggiandolo e svuotando così la forma di civiltà, si ha il fenomeno del «sezionalismo*».

* Sezionalismo: Fenomeno per cui gli interessi economici particolaristici e secondari predominano su quelli generali e principali.

I due campi in cui si manifesta nel modo più vigoroso nella nostra epoca sono quello economico nell’interno di ogni stato, e quello politico internazionale.

Nel campo economico si trovano infatti una quantità di interessi che possono essere più vantaggiosamente soddisfatti se con una azione concordata riescono ad abolire la concorrenza*.

* Come nel caso del monopolio economico, dei trusts, dovuti a una cattiva politica economica statale interventista e dannosa.

Ci sono merci che naturalmente si prestano ad essere monopolizzate, come ad esempio certi prodotti minerari concentrati in pochissime zone, le ferrovie, le centrali idroelettriche, ecc.

Ci sono casi in cui i produttori di certe merci riescono ad accordarsi per vendere a prezzi più elevati eliminando la concorrenza mediante la forza - specialmente mediante la forza dello stato.
Quando lo stato mette un dazio protettivo, o proibisce l’importazione di una merce, o proibisce l’immigrazione di mano d'opera straniera, o favorisce la formazione di un consorzio monopolistico, ostacolando la concorrenza con espedienti giuridici (brevetti industriali, privilegi bancari, ecc.) o proibendo addirittura l’accesso sul mercato dei «selvaggi» - in tutti questi casi esso crea o favorisce la creazione di posizioni privilegiate di sfruttamento monopolistico.

L’enorme maggioranza dei moderni trusts, cartelli e sindacati, ha questa origine.

Non provengono dal fatto che la produzione si sia accentrata naturalmente in poche mani, per la possibilità di riduzione di costi dipendenti dell’ampliamento dell’impresa, o per l’esistenza di condizioni naturali che con una data tecnica impediscono la concorrenza.

Provengono invece dal fatto che si è accentrata la produzione e che si è abolita la concorrenza con provvedimenti di forza*.

* Provvedimenti normativi, formali, giuridici, legali dello Stato.

Il sindacato - per adoperare il termine più generale che abbracci tutti questi monopoli o quasi monopoli artificiali - è un organismo che per funzionare deve poter imporre ai suoi membri di non tradire vendendo a prezzi troppo bassi, e deve poter impedire che si presentino dal di fuori altri concorrenti.

Per ottenere ciò, è necessario che disponga di una forza e di una influenza tali che può conseguire solo adoperando l’autorità dello stato a proprio servizio.

Marx aveva visto nello stato il rappresentante e l’esecutore degli interessi collettivi della borghesia.

Ciò poteva forse sostenersi con un’apparenza di ragione un secolo fa (l’Ottocento).

Ma da un pezzo lo stato ha cessato di essere questo comitato esecutivo, sia pur solo della borghesia, ma comunque dei suoi interessi generali.

Questi interessi generali consisterebbero nella garanzia di un mercato quanto più libero, quanto più ampio e quanto più esente da situazioni monopolistiche fosse possibile*.
* Necessità del libero mercato, del Liberismo Economico (da non confondere con il Liberalismo Politico).

Lo stato moderno è divenuto invece sempre più il rappresentante e l’esecutore di quei determinati interessi sezionali che sono abbastanza forti o abbastanza insidiosi da costringerlo a piegarsi alla loro volontà e mettere al loro servigio particolare il suo potere.


E questi interessi possono essere tanto di particolari gruppi borghesi (cosa che si vede ad esempio quando viene deliberatamente svalutata la moneta) o di particolari gruppi operai (politica contro l’immigrazione) o di gruppi borghesi alleati a gruppi operai (per esempio l’adozione di una politica protezionista).

Nel campo internazionale, la politica sezionale si manifesta sotto forma di imperialismo*.

* Ossia sotto forma di guerre, di conflitti armati.

Nei casi precedenti abbiamo incontrato interessi sezionali che avrebbero dovuto essere giuridicamente sottoposti all’autorità dello stato nell’interesse collettivo, mentre effettivamente sono
riusciti ad imporre allo stato la loro particolare volontà.

I protagonisti della politica internazionale - gli stati sovrani - non sono nemmeno giuridicamente sottoposti ad una sovranità superiore.

Il compito supremo dello stato, è quello di conquistare e di conservare le posizioni*

* Posizioni politiche.

più vantaggiose per sé, senza alcun riguardo per gli interessi degli altri.

Gli interessi*

* Interessi politico-territoriali.

che esso sostiene possono essere gli interessi di alcuni particolari gruppi che prevalgono nel suo territorio o interessi particolari dell’intero gruppo geografico.

Per il problema che ora consideriamo non ha però importanza se si tratti dell’un caso o dell’altro, poiché, comunque, lo stato, li difende contro lo straniero come suoi interessi particolari.
Anche per condurre una tale politica è necessario l’uso della forza; ma non si tratta qui di accaparrare al proprio servizio una forza superiore.

Non c’è che da armarsi, per imporre colla guerra la regola che stabilisca il proprio privilegio, assoggettando politicamente un altro Paese, rendendolo tributario, riservandosi mercati coloniali, riducendo interi popoli allo stato di schiavitù, ecc.

L’imperialismo non è che la più grandiosa manifestazione della politica sezionale.

Quali sono gli sviluppi e le conseguenze del sezionalismo?

Quando un gruppo riesce a stabilire in uno dei modi accennati un privilegio monopolistico, il risultato è che esso modifica a suo favore i termini di scambio, cioè riesce a far fluire a proprio vantaggio una parte del reddito complessivo della collettività, maggiore di quanto altrimenti potrebbe.

Il cartello che alza i prezzi, gli operai che chiudono l’accesso al proprio mestiere, l’immigrazione nel loro Paese, l’industria protetta, il Paese che si accaparra una colonia e la sfrutta, finiscono per trovarsi meglio, a danno della restante parte della collettività.

Il senso di giustizia, se c’è*,

* Può non esserci. Si può pensare che la tale industria o la tale classe o il tale Paese o la tale razza abbiano dei diritti superiori, ed allora l'anima è in pace con sé stessa.

può sentirsi offeso, ma tutto il meccanismo della vita economica non si arresta per questo: continua a marciare.

Quando però un gruppo qualsiasi riesce ad imporre a proprio vantaggio una tale situazione, spinge altri gruppi a correggere il danno subito seguendo la stessa politica.

E una volta avviato questo processo, è sempre più difficile da arrestare sul piano inclinato che poi porta a dividere la società in una quantità di baronie in lotta tra loro.

Il rapporto in cui avvengono gli scambi non è più automaticamente determinato dal gioco della libera concorrenza, ma diventa determinabile mediante la
forza di cui tale complesso dispone di fronte a tale altro.

La produzione diminuisce. Il costo dei rischi aumenta enormemente, poiché gli sbocchi si aprono o si chiudono improvvisamente.

Le crisi diventano catastrofiche e sempre più prolungate.

La vita economica cessa di essere una occupazione pacifica. Diventa il campo di continue sopraffazioni di questa o quella parte.

La via d’uscita più facile da questo marasma, è la via dell’intervento di una autorità superiore che stabilisce con un regime totalitario i rapporti fra i vari gruppi, consolidando i privilegi acquisiti.

Il sezionalismo nella vita economica dei singoli Paesi, ostacolando i traffici, rende molto più gravi gli attriti fra Paese e Paese, e spinge con energia verso una politica di militarismo e di imperialismo gli stati sovrani, i quali già per loro natura sono portati a non occuparsi altro che dei propri interessi particolari nazionali.
La soluzione totalitaria porta al culmine questa tendenza, poiché sottoponendo tutta la vita economica al potere statale, da una parte affida ad esso tutto intero il compito di ottenere con la forza, rispetto ad altri Paesi, posizioni di privilegio, e dall’altro lo rende tanto più capace di prepararsi ad una guerra totale.

E se dal marasma della vita internazionale si può intravedere una soluzione, questa sembra consistere solo nello stabilimento dell’impero dello stato più forte sugli altri resi suoi vassalli.

Il lettore si sarà accorto che in questa breve esposizione dei mali del sezionalismo stiamo scrivendo non sviluppi possibili del futuro che si potrebbero sempre considerare problematici, ma la situazione odierna della nostra civiltà.

Si continua a parlare della società moderna come della società capitalistica.

Ma se si intende bene cosa sia una società capitalistica - e basta rinviare, se non altro, alla definizione di Marx - se con questa parola non si vuole intendere il principio manicheo del male, applicandola perciò ovunque si incontrino dei mali, bisogna dire che oggi (1942-43) viviamo in una società che ha uno sfondo capitalistico il quale retrocede sempre più, ma che è essenzialmente una società sindacalista*.

* In cui cioè l’economia è sempre più pianificata dallo stato, che a sua volta diviene sempre più collettivista.

Che questo sindacalismo*

* Sistema di monopoli dovuti all’intervento dello stato in materia economica.

sia in gran parte geografico (sistema degli stati sovrani) e padronale, e non tutto proletario, non ha importanza rispetto al marasma sociale*;

* Cioè non ha importanza rispetto al problema del caos internazionale.

il quale nasce dal cozzo fra gruppi contrastanti, preoccupati solo di interessi sezionali, e non del modo come si ripartiscono i guadagni nell’interno dei gruppi stessi.

Se dunque ricapitoliamo i mali della società odierna, dobbiamo dire che si possono riassumere:

1) Nel male del privilegio della ricchezza che è peculiare del capitalismo, nel quale le opportunità di foggiarsi una vita secondo le proprie inclinazioni sono correlative alla ricchezza posseduta.

2) Nel male dei sezionalismi peculiari del regime sindacalista, nel quale è assente, o viene meno una legge che imponga le direttive generali della civiltà, e singoli gruppi conquistano e mantengono privilegi con la forza, causando il marasma e l’impoverimento generale, caratteristici di tutte le epoche feudali.


Il secondo male si potrebbe curare lasciando intatto il primo*.

* Il primo male, ossia quello delle grandi disuguaglianze economiche.

Basta pensare a come vennero curati alcuni suoi aspetti*

* Aspetti del sezionalismo.

in Europa (abolizione dei privilegi delle corporazioni, delle «città libere», della nobiltà, ecc.) e in America (abolizione del sezionalismo dei tredici stati nella federazione americana del nord) tra la fine del Settecento e il primo Ottocento - quando si lasciò assolutamente intatta la questione del privilegio della ricchezza.

Il male della povertà invece non si può in alcun modo risolvere se non si risolve quello del sezionalismo*.
* Quindi tra i due mali quello più dannoso è sicuramente quello della politica sezionale, dovuto ad un erroneo interventismo dello Stato in materia economica finalizzato a creare monopoli e baronie, che si realizza in forme di vita collettivistiche.

Quest’ultimo è infatti il più grave. I suoi danni sono infinitamente superiori a quelli provocati dal primo.

Basti pensare che disastri del genere della crisi economica del 1929 risalgono direttamente al sezionalismo, e che i fattori economici che più hanno contribuito alla maturazione delle due guerre mondiali, sono fattori di politica economica sezionale.
Non si possono migliorare le condizioni delle classi lavoratrici se resta in piedi o si ricostituisce, o magari si rafforza il marasma del sezionalismo.

Particolari gruppi di operai possono ottenere in un Paese buoni salari; ma ciò a scapito di altri gruppi operai; e il vantaggio verrà in parte o totalmente vanificato dai protezionismi che a loro volta otterranno gli industriali.

I contadini possono ottenere la terra, ma ne trarranno poco giovamento in conseguenza dei prezzi elevati che le industrie imporranno per i loro prodotti.

Si potranno aumentare le provvidenze sociali a vantaggio dei lavoratori, ma ogni beneficio sarà annullato dalle necessità della guerra.
C’è di più. Una lotta contro la povertà, la quale non affronti in pieno anche il sezionalismo nei suoi aspetti più deleteri, ma gli giri intorno sperando che si risolva automaticamente, prenderà essa stessa inevitabilmente la forma di una lotta sezionale, aggravando questo male e frustrando in ultima istanza i propri stessi scopi.

Una classe oppressa che lotti per i propri esclusivi interessi di classe, può ottenere transitori vantaggi, ma non marcia verso la propria emancipazione.

Marcia verso un regime sindacalista, in cui tutti, essa stessa compresa, si troveranno peggio.

Quest’analisi della situazione odierna è quella che i socialisti, i quali vogliono essere non dei fantastici dottrinari, ma uomini consapevoli della situazione esistente, debbono tener presente, per sapere quel che debbono fare per individuare quali siano i punti su cui per prima cosa conviene battere.


III – LA SOLUZIONE MARXISTA.

La soluzione che i socialisti tradizionalmente offrono dei mali della società presente, è la collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione, o per lo meno, in via preliminare, della maggior parte di essi.

Il marxismo intima di non occuparsi di come saranno fatte le «marmites de l’avenir», ed i socialisti suoi seguaci obbediscono a tale tabù.
Effettivamente ciò non significa che essi si siano mantenuti una libertà di giudizio e d’azione rispetto alle misure da prendere.

Significa che hanno accettato ad occhi chiusi la soluzione conforme o meno al loro scopo di liberazione delle classi lavoratrici.


Secondo questo ideale di collettivizzazione si è proceduto in Russia; secondo questo ideale procederebbero domani i socialisti tradizionalisti, se riuscissero a vincere.
E l’obbiezione principale che rivolgono a qualsiasi altra soluzione, è che essa non realizza in pieno l’abolizione del capitalismo: il collettivismo.

Qualunque siano stati i motivi che hanno indotto Marx a distogliere l’attenzione da un esame dell’adeguatezza della soluzione collettivista; è però chiaro che oggi non è più possibile conservare questo atteggiamento.


Oggi, dopo un quarto di secolo di collettivismo in Russia, ed alla vigilia di situazioni decisive per l’indirizzo da dare alla nostra civiltà, occorre sapere in modo chiaro se questa soluzione collettivista abolisca o no i mali indicati nel capitolo precedente.

Qui non c’importa esaminare se ci sia o meno una qualche tendenza ineluttabile che porti all’avvento di questa società.

Anche ammesso che sia così, quel che ci interessa ora sapere è se tale tendenza risolva quei problemi.

Se fosse ineluttabile, e risultasse tuttavia deleteria per i nostri ideali, la collettivizzazione si potrebbe forse ancora accettare con la umile rassegnazione con cui il buon cristiano accetta gli imperscrutabili disegni di Dio.

Ma non si potrebbe per questo dirla adeguata ai fini a cui si mira.

Il collettivismo è definito in generale in due modi.

Per alcuni va realizzato sotto la forma del sindacalismo operaio; per altri sotto la forma del comunismo.
I primi sostengono che i mezzi di produzione debbono essere proprietà collettiva dei gruppi dei produttori stessi, cioè degli operai delle singole categorie, affinché gli operai provvedano alla loro gestione; i secondi dicono che vanno dati in proprietà dello stato, il quale li amministrerà per il bene comune di tutti.

Per la soluzione sindacalista*

* Per un esame dettagliato e rigoroso delle assurdità logiche del sindacalismo v. N. N., Sindacalismo = caos.

basterà dire che, comunque si ridistribuisca nell’interno dei sindacati il reddito, essa non fa altro che esasperare tutti i contrasti sezionali della società odierna, la quale è già in buona parte sindacalista.
Il sindacalismo è una mezza idea, che dal punto di vista nazionale val meno che nulla.

Essa sorge ed incontra favore per due motivi diversi, che però indicano entrambi la fiacchezza mentale di chi la propone.

Sindacalisti sono anzitutto molti, i quali vedono che la società attuale è già tutta irta di baronie sindacaliste, e si lasciano trascinare dalla corrente, sperando misticamente che, quando si fosse giunti alle estreme conseguenze, si approderebbe ad una situazione idilliaca.

Questo sindacalismo è messo avanti specialmente da coloro che cercano di esaltare la combattività delle forze già impegnate in lotte di carattere sezionale.

I capi che lo coltivano fanno semplice opera di demagogia.
Il sindacalismo non è una soluzione, è un processo di disintegrazione sociale, ruzzolando lungo il quale si giunge infine alla statizzazione di tutta la vita economica.

L’equilibrio è l’armonizzazione fra i vari sindacati, e deve alla fine essere imposta dallo stato, il quale assume dispoticamente tutta la gestione dell’economia, lasciando agli organismi sindacali semplici funzioni tecniche, o sopprimendoli senz’altro come superflui.

Se l’intervento dello stato come ordinatore autocratico avviene fra i sindacati, (padronali ed operai) quali sono oggi, consolidando i privilegi che ciascuno era riuscito ad accaparrarsi e salvando le classi benestanti, si ha il tipo di stato totalitario*.

* Ossia il Nazifascismo, un totalitarismo di destra.

Se lo stato mette ordine autocraticamente fra i vari sindacati di lavoratori dopo che essi sono giunti alla espropriazione delle classi ricche, si ha il tipo di stato comunista*.

* Ossia un totalitarismo di sinistra.


La collettivizzazione sindacalista non è che un semplice ponte di passaggio per arrivare alla economia totalitaria o alla collettivizzazione comunista.

Ma nei tempi più recenti sono comparsi altri tipi di soluzioni sindacaliste, dettate non da motivi di demagogia sindacale.

Molti socialisti e comunisti, spaventati di fronte agli sviluppi del regime russo, hanno cercato di escogitare soluzioni di compromesso, che mantengono il principio della collettivizzazione generale, ma la contemperano con un decentramento nella gestione economica, la quale dovrebbe impedire il dispotismo burocratico dal centro.

I loro progetti si riconducono tutti a soluzioni sindacaliste, benché questi socialisti cerchino di mascherare la cosa perché forse la loro cattiva coscienza dice loro che si tratta di soluzioni putride.

Ma questo sindacalismo costruito a tavolino ha gli identici difetti dell’altro, senza avere neppure il pregio di essere un qualcosa di realmente, anche se maleficamente operante.

La collettivizzazione generale dei mezzi di produzione, se vuol essere realizzata in modo coerente, non può esserlo in realtà che sotto la forma di società comunista: di uno stato che possiede tutti i mezzi materiali di produzione, e li gestisce secondo un suo piano*.

* Per l’analisi della società collettivista vedi Hayek, Pianificazione economica collettivista e Brutzkus, La pianificazione economica nella Russia sovietica.

Ma la statizzazione generale dell’economia, una volta realizzata in pieno, non porta allo scopo segnato, bensì alla costituzione di un regime in cui la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocratici gestori dell’economia.

In regime comunista, può infatti essere abolita quella forma di potenza e di prepotenza che si fonda sulla ricchezza, e che mediante la ricchezza si accaparra posizioni di privilegio. Ma è una illusione credere che la ricchezza sia l’unico modo in cui si possono cristallizzare le disuguaglianze, le oppressioni e gli sfruttamenti che la nostra coscienza condanna.


Se ad un regime in cui domina la potenza della ricchezza se ne sostituisce uno in cui in mano ad alcuni è posto praticamente il potere di disporre illimitatamente di altri individui, di adoperarli come semplici mezzi per realizzare i propri scopi, - in tal caso non si è fatto un passo verso la realizzazione del nostro ideale; se ne è fatto uno che ce ne allontana decisamente.
Tale è il regime comunista.

Il semplice ragionamento, e l'esperienza venticinquennale della Russia, mostrano che con la statizzazione dell’economia è possibile creare una maggiore eguaglianza di ricchezze, ma si crea una disuguaglianza enormemente maggiore di potenza fra la classe governante e la classe governata dei lavoratori.


Quest’ultima diventa «corvéable à merci» da parte dei dominatori, come non lo fu mai nessun servo della gleba.


Si crea un apparato di gestione dell’economia, costosissimo e poco redditizio, poiché in esso vien meno quel delicato indicatore del miglior modo di distribuzione degli strumenti di produzione, che è costituito dal sistema dei prezzi di mercato, e non è possibile sostituirgliene alcun altro.
Tutto il meccanismo economico funziona solo a patto di standardizzare all’estremo prodotti e bisogni, privando gli uomini dell’opportunità di coltivare inclinazioni e gusti svariati e complessi: si rinunzia così a quella possibilità di potenziare la personalità umana, che si voleva estendere alle classi lavoratrici come uno dei pregi maggiori della nostra civiltà.

Si trasformano tutti i cittadini in servi dello stato, assegnando a ciascuno, dall’alto, il posto che deve occupare, e stabilendo quel che deve fare e come deve farlo: si distrugge così quella libertà di iniziativa e di movimenti che è un altro dei pregi che andavano non aboliti, ma estesi a chi ne godeva solo formalmente.


Per mantenere in piedi un meccanismo così gigantesco e tuttavia cosi imperfetto, si deve esigere da tutti i sudditi il massimo di obbedienza.

Le diverse parti sono tra loro così strettamente connesse, il tutto è talmente privo di elasticità, che qualsiasi critica un po’ seria minaccia di far saltare ogni cosa.


E’ perciò necessario standardizzare al massimo tutti i cervelli con un regime di strettissima ortodossia spirituale.
La cultura europea, che si voleva liberare dalla siepe che l’aveva tenuta riservata a strette aristocrazie, e a cui si volevano far accedere tutti coloro che fossero capaci di fecondarla ulteriormente, è invece completamente soffocata.

Ai cittadini, che dipendono tutti dal potere statale che può farli morire di fame con un semplice provvedimento di licenziamento dal lavoro, manca ogni seria possibilità di controllare i dirigenti, di far sentire i propri bisogni, di sostituirli quando ne riconoscano l’incapacità.
L’unico regime politico conciliabile con l’economia comunista è il dispotismo burocratico.


E’ questo quel che ci voleva? Evidentemente no.

Il principio della collettivizzazione non è stato che una affrettata ed erronea deduzione del principio veramente fondamentale del socialismo.
La collettivizzazione non serve a sfruttare e controllare le forze economiche a vantaggio di tutti gli appartenenti alla società; le concentra invece in un'unica immensa forza in mano a pochi uomini che possono con essa schiacciare tutti gli altri in modo infinitamente più grave di quanto sia mai avvenuto in passato.

Il collettivismo non porta al benessere delle classi lavoratrici, anche se molti operai si lasciano illudere dal suo mito.


Se teniamo conto che il collettivismo consiste nel massimo potenziamento della forza dello stato, dobbiamo dire che l’unica cosa a cui veramente esso serve è la preparazione e la conduzione della guerra totale.

Quando una comunità deve concentrare tutti gli sforzi e tutte le risorse per la guerra, quando deve rigorosamente disciplinare non solo l’esercito combattente ma anche tutto il Paese che gli è dietro, il collettivismo è certo la più coerente e radicale forma di tale organizzazione della vita sociale.

Ed infatti, tutti i Paesi Europei lo hanno introdotto in misura più o meno ampia, a questo scopo.

Una delle forze che con più energia ha spinto e spinge ad esso, è l’incubo della guerra totale.
Il collettivismo è la segreta tendenza dello stato moderno sovrano.

I socialisti che hanno creduto di ravvisare in esso un mezzo per la liberazione delle classi lavoratrici, sono in realtà soggiaciuti all’influsso proveniente dall’idolo dello stato imperialista.

E se la soluzione collettivista è uscita dalla sfera delle soluzioni dottrinarie ed è stata messa all’ordine del giorno, ciò è accaduto quando una guerra totale aveva già imposto fortissime bardature collettiviste.

I socialisti, affascinati dal gigantesco macchinario, si illudono di poterlo adoperare per i loro scopi.


Così pensò Lenin nel corso dell’altra guerra; così pensano, ad esempio, molti laburisti oggi in Inghilterra, i quali dicono che loro compito sarà
quello di mantenere in vita, indirizzandola a scopi socialisti, l’economia pianificata che la guerra*

* La Seconda Guerra Mondiale (1939-45).

sta imponendo al loro Paese.

Ma si tratta di illusioni.

Il comunismo, se ben si riflette, non può essere che comunismo di guerra; serve a vincere una guerra, non a far vivere civilmente gli uomini.




IV – LA SOLUZIONE FEDERALISTA.

Questa breve analisi delle soluzioni del marxismo, ci ha portati ad un risultato negativo.

Che fare allora?
Indichiamo nelle linee generali su quali premesse riteniamo debba fondarsi una soluzione meglio rispondente al nostro ideale di civiltà.


Abbiamo già visto che la soluzione del problema della miseria, che è il compito specifico del socialismo, ha come premessa fondamentale l’eliminazione dei deleteri sezionalismi che impoveriscono e disorganizzano tutta la società.

Il più rovinoso è quello che deriva dall’organizzazione politica internazionale in stati sovrani, e che si manifesta nell’imperialismo.

Finché sussista uno stato di cose che genera l’imperialismo, qualsiasi riforma indirizzata ad altri obbiettivi è impossibile e finisce per diventare un ulteriore strumento della politica imperialistica.
Non ci dilunghiamo qui a mostrare i vari aspetti di questo problema, l’insufficienza delle soluzioni tradizionali ed il modo in cui va affrontato.

Ciò è stato fatto negli scritti precedenti.

Ci limitiamo a ripetere che si tratta della condizione assolutamente preliminare.


Per questo riconoscimento della preminenza del problema della formazione di una Federazione degli attuali stati sovrani - almeno, in un primo tempo, in Europa, ove l’imperialismo ha raggiunto le sue più terribili manifestazioni - il nome con cui i partigiani di questa soluzione possono distinguersi dalle altri correnti è quello di federalisti.
Oltre il sezionalismo geografico, intrecciandosi variamente con esso, alimentandolo e alimentandosene, c’è quello dei grossi complessi industriali e finanziari, i quali dispongono di una tale forza nel mondo moderno, da poter fare una politica di sfruttamento monopolistico, e da riuscire ad esercitare una così grande influenza sugli organismi politici, da piegarli a sviluppare una legislazione ed una politica conforme ai loro interessi particolari.

Questi complessi non possono essere lasciati nelle mani dei privati. Debbono venire socializzati. E’ questa la corretta sfera di applicazione della soluzione collettivistica. Essa è il mezzo necessario per eliminare tutti i fortissimi interessi del capitalismo monopolistico*.

* Non concordo: sostituire un monopolio di Stato al monopolio dei privati non penso sia una soluzione realistica. Occorre invece che ci siano forti e consolidate norme legislative antimonopolistiche per
eliminare il rischio della formazione dei monopoli tutte le volte che questi si profilano all’orizzonte.

La socializzazione di per sé non significa però senz’altro l’elevazione delle classi lavoratrici.

Può essere estesissima, e mantenere tuttavia quest’ultima in uno stato di soggezione.

Per raggiungere questa emancipazione, le misure necessarie sono altre.

Occorre in primo luogo approfittare delle eventuali situazioni critiche per operare una redistribuzione della proprietà che non tenga conto degli interessi acquisiti dalle classi padronali, elimini le forme di proprietà parassitaria, e dia la proprietà dei mezzi di produzione ai lavoratori capaci di gestirli, che ne sono ora praticamente esclusi.

In queste misure rientrano il trasferimento della proprietà della terra a coloro che la coltivano ed un largo passaggio di titoli di proprietà delle grandi aziende industriali, concentrati nelle mani di possessori di azioni che contribuiscono alla produzione solo tagliando le cedole dei loro titoli, a quelle degli operai che lavorano nelle aziende stesse.

Queste drastiche misure creerebbero d'un colpo una situazione di molto maggiore eguaglianza economica, e renderebbero per conseguenza il libero mercato un meccanismo molto più atto alla distribuzione delle risorse in rapporto alla diversa
urgenza dei bisogni dei consumatori, di quanto sia nella attuale società.

Per il loro carattere straordinario, queste misure però, necessarie per creare le condizioni preliminari di una società fondata sull’uguaglianza, non sono sufficienti a mantenerla in vita.

Occorre creare tutta una serie di istituzioni che garantiscano questo risultato.

Onde la necessità di un sistema scolastico in cui si provveda all’educazione dei giovani più capaci e non dei più ricchi com'è invece il sistema scolastico attuale; la necessità di utilizzare le immense risorse che le capacità tecniche della nostra società mettono ormai a nostra disposizione per garantire a tutti i cittadini il soddisfacimento dei bisogni elementari della vita civile in qualsiasi situazione si trovino, in modo che i lavoratori non cadano in tali condizioni di miseria da dover accettare contratti di lavoro a condizioni iugulatorie; la necessità di
misure di assicurazione che, senza diminuire lo spirito di iniziativa ed il senso di responsabilità individuale, sollevino i gruppi particolari dai danni da cui vengono colpiti in conseguenza dei progressi tecnici e della dinamica economica di cui tutta la società si avvantaggia.

Ciò implica una quantità di provvedimenti i quali non possono essere presi che con la forza della legge.

L’educazione diffusa di uomini forniti di grandi capacità d’iniziativa e della possibilità di svolgerle, di uomini che si sentono impegnati a costruire per proprio conto la loro vita, ed abbiano quindi indipendenza dalla classe governante e senso di responsabilità molto sviluppato, questo deve essere il fine a cui mirare.

Il sistema della collettivizzazione generale è da respingere, essenzialmente perché porta al risultato opposto; all’educazione di uomini privi di iniziativa e di occasioni per farla valere, di servi che
dipendono per ogni più minuto aspetto della loro vita dal beneplacito della classe governante.

Una classe dirigente orientata nel senso socialista [spregiudicato] qui descritto, non si tira indietro dall’opera di costruzione necessaria per convogliare le energie individuali verso la realizzazione dei valori supremi della nostra civiltà*,

* Quali la libertà politica, la tolleranza, la democrazia e la prosperità economica.

e per tenerli saldi nelle menti e nelle abitudini dei singoli cittadini e gruppi, che di per sé facilmente li perderebbero di vista.

Ma sa che anche la classe dirigente politica meglio intenzionata tende a trasformarsi in gruppo chiuso che gestisce il potere con criteri sezionali, a proprio esclusivo vantaggio, se non si sviluppa nei cittadini una forza di resistenza capace di affermarsi contro di essa.

Perciò il suo lavoro è fatto nel senso di creare una società capace di produrre sempre meglio uomini indipendenti, e perciò in grado tanto di controllare quanto di alimentare e rinnovare [cambiare] la stessa classe dirigente*.

* Come del resto sostiene Karl R. Popper. Una democrazia sana si riconosce dal fatto che i governati possono cacciare i governanti in modo pacifico tramite voto politico libero effettuato ad intervalli regolari con le elezioni generali (Principio dell’Alternanza di Governo).

Queste sono, nelle linee generali, le direttive lungo le quali intendono lavorare i federalisti.

Ci sono alcune premesse fondamentali - Federazione Europea, socializzazione dei monopoli, ridistribuzione della proprietà - che non possono essere realizzati altro che in situazioni rivoluzionarie, durante le quali siano crollate tutte le resistenze conservatrici che ne impediscono la realizzazione.

Successivamente si apre un periodo di trasformazione che si estende per tutta un’epoca.


I socialisti tradizionalisti, persuasi che si possa, anzi che si debba creare un tipo di società definitivo il quale non permetta più ricadute in forme fondate sui privilegi, obbiettano che queste trasformazioni, per radicali che siano, lasciano aperta la vista a ritorni reazionari, alla ricostituzione della vecchia società capitalistica con i suoi malanni, le sue disuguaglianze, le sue contraddizioni.


Dicono perciò che una tale rivoluzione [federale, europeistica] non sarebbe ancora la rivoluzione sociale da loro auspicata.

Occorre riconoscere che è vero.
Questa rivoluzione apre la via ad uno sviluppo in senso progressista; non garantisce in via assoluta né ricadute né arresti.

Affida le cose ai nostri figli perché le portino innanzi se ne hanno voglia e capacità.

Non si può voler prestabilire tutte le misure necessarie per realizzare in modo totale e irreversibile un fine, che neppure si riesce a determinare in tutti i suoi lineamenti, poiché non si conosce né quali saranno gli ostacoli che via via si presenteranno, né come verranno sviluppandosi e modificandosi le aspirazioni, i gusti e i desideri degli uomini nell’avvenire.

La società socialistica non deve essere concepita come la conclusione definitiva della storia attuale, come il raggiungimento di un ordine senza più pericoli, senza più insidie, in cui tutti possano riposare come su un letto di piume.

Deve invece essere concepita come l’inizio di una operosità che potrà durare e svilupparsi solo finché gli uomini conservino una seria volontà di lavorare in quel senso.

Le situazioni di privilegio non si riformeranno; e qualora risorgessero, saranno eliminate se gli uomini nella società di domani saranno decisi a non farle tornare, e saranno, come noi, ansiosi di sviluppare sempre più questa nostra civiltà.
Quel che sopratutto importa, dunque, non è di creare istituzioni sedicentemente perfette; ma istituzioni in cui si formino uomini desiderosi ed interessati a svilupparle, come garanzia della loro libertà e come strumento per la loro ascesa a forme più alte di vita individuale e collettiva.

Con uomini siffatti, i pericoli di domani possono essere serenamente affrontati con la sicurezza che saranno superati.

Se invece il tipo umano prevalente dovesse essere quello dell’uomo-soldato ubbidiente, che attende tutto dall’alto, è chiaro che nessuna organizzazione sociale comunque perfettamente ideata, potrebbe mantenere una civiltà di uguaglianza e di libertà.

Sarebbe inevitabile una divisione netta dell’Umanità in una aristocrazia guerriera*

* Il Nazifascismo.

o burocratica*,

* Il Comunismo.

ed in una massa di servi più o meno diligenti, ma abulici e privi di ogni senso di dignità umana.
La soluzione definitiva, auspicata dai marxisti, sarebbe appunto la creazione di una simile società in cui scomparirebbero gli uomini desiderosi e capaci di vivere liberamente.

Essa eliminerebbe totalmente, in un primo momento, i privilegi della ricchezza, solo creando un privilegio della potenza statale cosi leviatano, che nulla più potrebbe ragionevolmente scrollarlo.

Ed una volta che la classe governante abbia un tale potere dispotico, la ricchezza tornerebbe ad essa come conseguenza.

La soluzione federalista, intelligente, e perciò non definitiva, mira ad allevare uomini cui si possa con fiducia affidare il compito di continuare l’opera cominciata.

Sarebbe ora, sarebbe urgentemente ora che i socialisti si decidessero a scegliere, prima ancora del tipo di istituzione da creare, il tipo di uomini a cui mirare, ed a cui dovrebbero essere affidate le istituzioni dell’ordine nuovo*.

* Ordine nuovo Europeo e Liberale.



V – LA POLITICA MARXISTA.

Secondo il marxismo, il campo in cui si decide in ultima istanza il destino della società, è il campo della lotta di classe*.

* 1) Lotta tra la classe operaia (il Quarto Stato) e la classe borghese (il Terzo Stato).

E’ perché ci sono tali e tali classi, così e così fatte, che le tali e tali soluzioni si impongono.
E’ inutile discutere sulle soluzioni, perché sono già determinate nelle loro linee generali dal fatto che le classi sono quelle che sono, e non si possono modificare ad arbitrio*.

* 2) In quanto ogni membro di ciascuna classe economica è dotato della sua propria “coscienza di classe”.

La lotta di classe*

* 3) Rivoluzione violenta e successiva dittatura.

del proletariato è il mezzo per raggiungere il socialismo*.

* 4) Il socialismo è il fine ultimo.

Ma è ben più di ciò: è quel che determina che cosa sia il socialismo.
Questo non è altro che l’effetto, la logica conseguenza della vittoria del proletariato.

Così dice il mito marxista, il quale è divenuto a tal punto un pregiudizio, che pochi osano, fra gli uomini politici orientati in senso socialista, anche solo chiedersi se queste affermazioni sono esatte.

Tutt’al più si permettono alcune variazioni secondarie.


In questa impostazione c’è però un vero e proprio «nido di errori».

Cerchiamo di individuarli, per aprirci una strada verso una più esatta comprensione degli strumenti politici necessari per realizzare i nostri fini.

Anzitutto l’orientamento socialista, essendo il proposito di estendere le forme e i frutti della nostra civiltà a strati sempre più vasti della società, non poteva sorgere che fra coloro che avessero una visione degli interessi complessivi della società e della civiltà umana, fra chi avesse cioè essenzialmente interessi di ordine politico-generale, e non fra chi era preso prevalentemente da problemi particolari di classi, di categorie, di ceti, ecc.

E’ un dato di fatto storico che il socialismo non è stato niente affatto ideato da proletari, ma da intellettuali e da uomini politici i quali si sono sforzati di conquistare ad esso le masse*.

* 1) Prima ci sono i teorici delle idee politiche. Le élites intellettuali.

E’ un processo di generazione esattamente contrario a quello descritto dal marxismo.

Come qualsiasi altra tendenza politica in formazione, questi intellettuali e uomini politici sono stati portati da una parte a formulare con una certa precisione il programma secondo cui si proponevano di realizzare il loro orientamento*,

* 2) Teorizzazione della dottrina socialista.

e d’altra parte a cercare di individuare e conquistare nella società le forze sul cui appoggio contare.

La prima opera è stata compiuta nella prima metà del secolo scorso (l’Ottocento) essenzialmente dai cosiddetti utopisti, e si è concentrata nella formulazione del programma dell’abolizione della
proprietà privata e dell’instaurazione della società comunista*.

(1) Non possiamo qui, poiché ci porterebbe troppo lontano, studiare i vari elementi che hanno contribuito alla formulazione di questo programma. Andrebbe studiata l’influenza delle antichissime utopie comuniste di alcune sètte cristiane, dell’astrattismo illuminista, delle idee umanitarie, delle tradizioni mercantiliste, del culto dello stato assolutista, di quella tecnicrazia avant lettre che fu il sansimonismo, ecc., ecc.

Abbiamo visto trattarsi di una formulazione rozza ed inadeguata dello scopo da raggiungere.

Ma ciò, se ha importanza per l’avvenire, non ne ha nessuna retrospettivamente.

Chi l’ha formulata, credeva nella sua bontà.
Il programma collettivista è stato largamente accettato dai socialisti per la sua apparente perspicuità e semplicità, ed ha costituito il puntello secondo il quale si è cercato di determinare le forze sociali, sulle quali i socialisti dovevano poggiare.

E' noto che gli utopisti le hanno cercate essenzialmente con criteri moralistici.

Si aspettavano che uomini di buona volontà, innamorati di quell’ideale, si mettessero all’opera.

Questi criteri erano certo troppo ingenui.

La via politicamente giusta, dopo essere stata avviata in Inghilterra e in Francia, è stata infine indicata da Marx, che per questo motivo è divenuto la figura predominante nel movimento socialista.
Marx era un politico realista: non si creava feticci umanitari stillanti benevolenza ed impotenza da ogni poro.

Comprese che una corrente politica poteva affermarsi e trionfare solo se; e nella misura in cui avesse trovato nella società forze notevoli le cui aspirazioni elementari potessero essere captate entro quello schema; forze suscettibili di essere convinte che erano interessate alla sua realizzazione*.

* 3) Diffusione di ideali socialisti tra le masse: ideologizzazione delle masse.

Dato il principio della collettivizzazione come criterio, era da attendersi che, salvo rarissime eccezioni, sarebbero stati contrari tutti quegli strati della popolazione che erano proprietari o speravano ragionevolmente di diventarlo.
Campo fecondo di penetrazione sarebbero stati invece coloro che non possedevano mezzi di produzione, non potevano ragionevolmente sperare di averli, ed erano vittime - e perciò malcontenti - del regime capitalistico; cioè il proletariato.
Si noti che l’indicazione era politicamente corretta, anche se in realtà gli operai non avrebbero potuto trarre vantaggi reali da una collettivizzazione, ed anche se di tutto il campo di conquista possibile*

* L’intera classe proletaria.
indicato da Marx se ne fosse potuto in realtà conquistare solo una parte.

Infatti gli operai non possono essere in grado di conoscere le conseguenze implicite in alcuni principii*

* Principii contenuti nella dottrina marxista. Tutto ciò perché i proletari non hanno cultura, non sono intellettuali.

di carattere generale, i quali permettono di capire se un certo ordinamento sociale*

* Quale il comunismo.

sarà o no vantaggioso.

La loro azione è mossa da sentimenti e non da ragionamenti.

Ma quel che politicamente importava, era che i risentimenti degli operai, cioè della classe nullatenente più facilmente organizzabile e di maggior valore rivoluzionario per il suo accentramento nelle grandi città, potessero facilmente essere indirizzati verso l’obbiettivo di una generale espropriazione dei ricchi.

E la probabilità che molti operai non diventassero socialisti, non contava eccessivamente, per rivoluzionari che non si proponevano di convincere tutti ma di inquadrare forze sufficienti per condurre la loro azione.

Il «proletariato» non è un’entità esistente indipendentemente dall’impostazione politica della lotta per il collettivismo. Senza di questa non è che una classificazione statistica arbitraria*.

* Concordo con Altiero Spinelli. Non esiste alcuna “coscienza di classe” innata, esistente a priori: essa è solo una creazione artificiale inventata ad arte dal marxismo per i suoi particolari fini politici.

E’ un termine ideale e diventa in parte una realtà, solo quando si presuppongono la società moderna, un gruppo di uomini politici forniti di ideali collettivisti, i quali determinano le sfere della società da conquistare, a cui dare una coscienza politica unitaria per guidarle nel senso voluto*.

* Ciò vale per qualsiasi altra analoga entità politica. L'Italia nel Risorgimento (XIX Secolo) non era altro che l'astratto campo di azione che i liberali italiani volevano conquistare e dissodare secondo i loro ideali. Un’Italia obbiettiva era una semplice classificazione geografica.

Non il proletariato ha prodotto il socialismo, ma il socialismo ha prodotto il proletariato.

Avendo individuato nel proletariato lo strumento per la realizzazione del collettivismo, Marx ha seguito la via che normalmente seguono tutti i politici pratici i quali si sforzano di conquistare masse.

Costoro debbono esercitare con l’azione e con la persuasione tutta un’opera, grazie alla quale la suscettibilità delle masse ad essere guidate in un certo senso si cambi nella loro effettiva e volenterosa marcia in quel senso.

Per ottenere ciò, occorre in primo luogo esercitare una suggestione in modo da persuaderle che il fine da raggiungere non è loro imposto dal di fuori, ma sorge dalle loro più profonde esigenze.
In quest’opera di orientamento politico delle masse, si compie sempre un capovolgimento dei rapporti reali.

Questo capovolgimento si comprende abbastanza facilmente come strumento educativo.

Per dirigere degli uomini, occorre suscitare nei loro animi una volontà di agire in un determinato modo; e volonterosamente si agisce solo nella misura in cui si è convinti di agire in conformità di esigenze proprie e non di esigenze imposte.
In realtà, però, i dirigenti, in quanto hanno successo, ritrovano negli uomini così educati quel che hanno messo in loro.

È questo il motivo che ha spinto Marx a dichiarare che il socialismo era una conseguenza dell’esistenza del proletariato, e che perciò non bisognava preoccuparsi di come fosse fatto il socialismo*.

* Analogamente nei nostri giorni, Hitler ha messo il tabù sul programma nazionalsocialista, proibendo ai membri del suo partito di discuterlo.

In realtà, quando si determinava come sfera di conquista il proletariato, si era già stabilito che esso fosse la sfera conquistabile all’idea del collettivismo.

Era quindi perfettamente naturale che questa conquista si presentasse poi come una emersione dell'idea del socialismo dalla coscienza del proletariato stesso.

Per riuscire a dirigere effettivamente la sfera così determinata, occorre prendere come punto di partenza le sue effettive aspirazioni e lotte spontanee, e grazie all’influenza personale ed organizzativa conquistata in queste lotte, spingerla nel senso voluto non da quelle spontanee tendenze, ma dal movimento politico*

* Comunista.
che le dirige.

Il proletariato, come entità ideale figlia dell’idea del collettivismo, è il complesso dei lavoratori privi di capitale, praticamente in condizione da non poterli per proprio conto acquistare, e perciò vittime di un ordinamento capitalista, e suscettibili di aderire ad una lotta per la distruzione del capitalismo, nella speranza di ritrarre beneficio da tale distruzione.

Questo astratto «proletariato» si concretizza negli effettivi operai salariati delle grandi industrie, con le loro aspirazioni effettive ed i loro effettivi metodi di lotta.

Marx ha pensato che le lotte economiche degli operai (cioè le lotte di classe) erano la leva o strumento mediante cui i socialisti avrebbero potuto conquistare sugli operai quella presa necessaria per unificarli in un unico proletariato e per far loro partorire il collettivismo.

Che cos’è effettivamente questa lotta di classe del proletariato?

Lasciando da parte la definizione delle classi economiche in genere, per qualsiasi tipo di società, poiché ci servirebbe a ben poco, rivolgiamo l’attenzione alle classi caratteristiche della società capitalistica.
Ogni merce divide la società in due gruppi di individui con interessi contrastanti circa il suo prezzo: i venditori ed i compratori di quella merce.

Accanto a loro, c’è la massa più o meno estesa di chi è relativamente indifferente, perché né compra né vende quella merce.

Se l’uso della merce si diffonde, si può dire che la società tende a dividersi sempre più in due gruppi contrapposti, con assorbimento e distruzione della classe estranea.

Il gruppo dei venditori ha, rispetto a quello dei compratori, un comune interesse a vendere la merce ad un prezzo alto, ed un comune interesse contrario hanno questi ultimi.

Ma oltre questo antagonismo fra i due gruppi, ne esiste un altro nell’interno di ciascuno di essi, poiché venditori e compratori sono rispettivamente in concorrenza con altri venditori e compratori della stessa merce; e tale competizione tende a far ottenere risultati contrari a quelli desiderati da ciascun gruppo.

Teoricamente, c'è per ogni gruppo la possibilità di abolire in tutto o in parte la concorrenza interna, di presentarsi come gruppo monopolista o semi monopolista, per imporre termini di scambio più favorevoli.

Effettivamente, questa possibilità varia da gruppo a gruppo, e i frutti che se ne possono ricavare variano a seconda della merce.

Per alcuni gruppi, praticamente sindacarsi non è possibile e darebbe poco frutto, mentre gli altri hanno convenienza e vi riescono in gradi diversi, giungendo ad una disciplina sindacale più o meno estesa che attenua ed elimina la reciproca concorrenza nell’interno del gruppo.
Quei gruppi che vi riescono, costituiscono le effettive classi economiche.


Astraendo dall’intervento del socialismo marxista che utilizza varie classi e vi infonde un significato politico e magari anche uno mistico, i termini azione di classe, coscienza di classe, lotte di classe ecc., significano solo che nel seno di particolari gruppi di individui forniti di interessi omogenei sul mercato, esistono condizioni tali che facilitano la formazione dei sindacati e che questi riescono ad agire effettivamente allo scopo di conquistarsi posizioni di privilegio.

La lotta di classe è essenzialmente lotta sindacale; non è altro che la lotta per interessi sezionali*.

* Nei paesi anglosassoni, dove la penetrazione del socialismo marxista è minima, la lotta di classe si presenta allo stato puro di lotta sindacale di categorie di operai più capaci di organizzarsi monopolisticamente. Questo è specialmente chiaro nel caso degli Stati Uniti d’America.

Molte sono le classi fornite di coscienza di classe, e che conducono una lotta di classe.

Marx e la sua scuola rivolgono le loro attenzioni solo alle particolari lotte di classe che si svolgono entro ed intorno a quella sfera della società che essi contano di conquistare, cioè alle lotte degli operai salariati contro i datori di lavoro.
Ma è del tutto arbitrario considerare come classe ad esempio gli operai metallurgici e non gli industriali del petrolio che lavorano per costituire un loro monopolio; né gli operai qualificati hanno gli stessi interessi e solidarizzano con quelli non qualificati, né i datori di lavoro si identificano con i capitalisti, ed ancor meno con la borghesia*.

* In realtà la “coscienza di classe” è niente di più che una favola marxista.

Se consideriamo la tendenza delle classi lavoratrici a migliorare le loro condizioni di vita, scorgiamo che il metodo della lotta di classe non è l’unico con cui essi possono raggiungere tale scopo.

Per molti strati, è anzi praticamente un’arma inservibile.
Per esempio, per i contadini dell’Italia meridionale, l’arma più importante è stata per il passato l’emigrazione.

In molti casi, l’arma è la legge dello stato che stabilisce un criterio di distribuzione di un dato bene indipendentemente dalla capacità di acquisto. Così per esempio, l’istruzione elementare gratuita.

Tuttavia, fra i lavoratori ci sono alcuni gruppi capaci di organizzarsi in senso classista.

Sono all’ingrosso i salariati, e specialmente quelli delle grandi industrie, i quali coincidono, in larga misura, con la sfera dell’astratto proletariato del marxismo.

E poiché anche il gruppo antagonista dei datori di lavoro possiede notevoli capacità di agire come classe, l’azione degli operai non si è mai potuta concludere con la definitiva imposizione di un monopolio per la vendita della loro merce, come è accaduto spesso per gli altri monopoli, ma ha assunto la forma di una lotta persistente fra sindacalismo operaio e sindacalismo padronale, ciascuno dei quali si sforzava di rendere efficiente il proprio monopolio, e di spezzare quello avversario imponendogli le proprie condizioni.

Dato il posto preminente occupato nella vita moderna dalla produzione industriale, questa lotta doveva necessariamente avere aspetti molto appariscenti.

Il socialismo marxista si è appoggiato sulle aspirazioni progressiste delle masse operaie per propagare le idee socialiste, ma ha fatto leva sugli interessi immediati, e perciò sulla lotta di classe.

Questo metodo, politicamente corretto, presentava dei pericoli.
In primo luogo, le lotte di classe tendevano spontaneamente non a portare ad una organizzazione di tutto il proletariato allo scopo di instaurare il collettivismo, come avrebbero desiderato i marxisti, ma ad organizzazioni di categoria.

Questo perché non esiste un’unica indifferenziata merce-lavoro, ma ci sono molteplici specie di lavoro non facilmente interscambiabili per l’adempimento dello stesso compito, mentre un sindacato può agire efficacemente, come abbiamo detto, solo se abbraccia nel suo monopolio una merce abbastanza omogenea, di cui cioè ogni parte riesce pressoché egualmente a dare soddisfazione ai medesimi bisogni.

La lotta di classe, in realtà, si manifesta anche nel campo operaio come lotta di categorie, le quali non hanno interessi coincidenti; ed ogni organizzazione ha per sua natura la tendenza ad occuparsi esclusivamente dei suoi interessi sezionali.
La lotta di classe è per i socialisti uno strumento valido, solo se ed in quanto essi riescono a tenere in pugno i sindacati, non permettendo loro di inoltrarsi troppo in una politica di categoria.

In secondo luogo, l’ideale ultimo che si sviluppa spontaneamente dalla lotta di classe non è il socialismo, ma il sindacalismo.

Un sindacato operaio tende come ad ultima meta alla instaurazione del monopolio completo nella sua branca, spezzando il monopolio dei datori di lavoro mediante l’appropriazione dei capitali.

Ma il sindacalismo è, come abbiamo visto, sinonimo di marasma.

La lotta di classe ha, nei suoi sviluppi più grandiosi, capacità non costruttive, ma distruttive.
Anche per questo motivo, i socialisti debbono avere coscienza e capacità di adoperare la lotta di classe come strumento, sapendo che senza la loro ferrea guida fallirebbe lo scopo.

Infine la lotta di classe, anche se i socialisti riescono ad imporle una certa unità, è, pur nella sua imponenza, una lotta condotta fra due sezioni della società; larghe altre sezioni le restano estranee, e nella sua cornice non possono rientrare molti problemi economici e non economici di grande importanza sociale.

Marx ha creduto che questa difficoltà sarebbe svanita come conseguenza della presunta legge della concentrazione del capitale e della proletarizzazione del resto della società.

Rilevatosi inconsistente questo presupposto, è rimasta campata in aria la mistica affermazione di una speciale «missione storica» del proletariato.
L’effettiva risoluzione della difficoltà si raggiunge solo rendendosi conto che anche un movimento che pensi ad un riordinamento totale in senso socialista non riesce a far presa sugli uomini in generale, ma solo sugli strati che più soffrono dell’ordinamento esistente, e che sono contemporaneamente più combattivi.

Il movimento vincerà non quando avrà conquistato la maggioranza degli spiriti, ma quando avrà conquistato fra i malcontenti forze sufficienti per strappare la vittoria.

Il concentrare le proprie forze per conquistare essenzialmente solo una parte della società, non è di per sé un errore. Ma non lo è solo a patto di rendersi conto che la soluzione si raggiungerà se i capi resteranno padroni del movimento, e fallirà se si faranno semplici esecutori, o semplici avanguardie delle sue unilaterali aspirazioni.
Ora da Marx provengono, direttamente o indirettamente, due correnti che hanno risposto in modo differente a questi problemi, derivanti dall’impiego della lotta di classe del proletariato contro i capitalisti come strumento politico.

I socialdemocratici (o socialisti nel senso stretto della parola) hanno ingenuamente preso per direttiva di azione quella che era solo la rivestitura romantica e propagandistica del marxismo, cioè l’idea che il proletariato era il portatore, sia pure inconsapevole, della nuova civiltà e che a loro spettava fare opera maieutica, aiutandolo a portare alla luce quel che esso già aveva in seno.

Non si escludevano scosse rivoluzionarie per far crollare qualche resistenza, ma si consideravano come brevi sussulti che avrebbero servito a far meglio maturare nel proletariato la consapevolezza della profonda coincidenza fra gli interessi suoi e quelli generali.
Perciò i socialdemocratici dovevano essere in sostanza gli esecutori della volontà del proletariato sovrano, o, tutt’al più, i suoi consiglieri*.

* Oggi (2016) un atteggiamento analogo è possibile vederlo messo in pratica in Italia dal Movimento 5 Stelle, i cui delegati si presentano come semplici consiglieri del popolo italiano sovrano e, basandosi unicamente sull’erroneo principio della necessaria bontà delle decisioni prese dalla maggioranza politica (vedi Rousseau), chiedono a gran voce maggiore democrazia diretta.


Nella loro crassa ignoranza della funzione formatrice della direzione politica, i socialdemocratici sono diventati prigionieri dello strumento che avrebbero dovuto adoperare.

Sotto le formulazioni socialiste, si è riformato e consolidato il profondo sezionalismo proletario, e i socialdemocratici, affidandosi alle sue aspirazioni spontanee, abbandonarono la pretesa originaria del socialismo di rimediare ai mali generali della società odierna, occupandosi sempre più di quelli di particolari sezioni delle classi lavoratrici.
La politica nota col nome di Riformismo, fu la politica mirante ad ottenere questo o quel privilegio per questa o quella categoria, che con più energia conduceva la sua politica sezionale.

I socialdemocratici hanno continuato e continuano a parlare di socialismo come del loro fine, ma in pratica non hanno mai pensato né fatto altro che sindacalismo.

In realtà, essi hanno largamente contribuito a far lussureggiare l’odierno caos sindacalista.

Ma c’è anche una seconda corrente.

Marx ha sì sviluppato una teoria romantico-democratica sullo «spirito del proletariato», che vale quanto le altre teorie romantiche sullo spirito dei popoli, sulla sovranità popolare, sulla razza, ecc.
Ma, in quanto uomo politico, sapeva che la classe operaia non era la spontanea creatrice, ma doveva essere lo strumento del movimento socialista.

La sua teoria gli impediva di avere di ciò piena coscienza, ma non c’è suo atto politico che non riveli questa sua profonda persuasione*.

* Qui si può osservare limpidamente la totale ipocrisia di Marx: egli sfrutta le classi più deboli solo per attuare il suo ideale politico.


I marxisti ed i «patiti» del marxismo, che fanno gli scandalizzati oggi nel sentir ricordare ciò, sono pregati di prendere conoscenza, poiché mostrano di averne così poca, di quella che è stata la politica di Marx che fu chiamato – giustamente - blanquista e giacobino, che sostenne sempre la necessità per i socialisti di fare una politica generale democratica, e non una politica di classe, e vide di malocchio la formazione di un movimento operaio preoccupato sopratutto dei suoi interessi di classe (1).

* Non possiamo dilungarci su questo punto, che ha un semplice interesse retrospettivo. Vedi il Capitolo I di Rosenberg, Storia del bolscevismo.


La seconda direttiva politica marxista, che fu sviluppata a pieno dai bolscevichi, e che è nota col nome di Comunismo, consiste in ciò: esso accetta come materiale di propaganda tutta la mitologia sulla missione storica del proletariato, ma si guarda bene dal prenderla sul serio, dal «lasciarsi convincere dai propri sillogismi», come accade invece per i socialdemocratici.

I comunisti non intendono essere - anche se lo dicono - avanguardia del proletariato; vogliono esserne i capi, vogliono organizzarne le forze e sfruttarle per raggiungere il loro scopo.

Sanno che, accanto al proletariato, ci sono altre classi, e dappertutto essi cercano di penetrare, influire, dirigere, utilizzare.

Ma questi altri appoggi sono sussidiari.
Poiché il loro piano è quello della collettivizzazione generale, sanno che l’unica forza sui cui risentimenti possono con sicurezza contare per giungere a questo fine, è la classe operaia.

Approfittano di tutte le occasioni per spingere la lotta di classe degli operai al massimo.

Sanno che questo massimo è l’espropriazione di tipo sindacalista dell’industria, e favoriscono perciò tutti gli elementi di estremo sindacalismo operaio (consigli di fabbrica, sovieti, dittatura del proletariato).

Ma sanno pure che il regime che ne sorge non è vitale: può servire solo a spazzar via la proprietà privata; non a costituire un nuovo tipo di organizzazione economica.
Si preparano perciò con coerenza a sostituire all’anarchico ed inconsistente regime del collettivismo sindacalista, quello del collettivismo statale, mediante una dittatura del loro partito.

Ottenuto ciò, disporrebbero di una attrezzatura politica ed economica che permetterebbe loro di passare ad una sempre più completa collettivizzazione anche nei settori che in un primo momento non avessero potuto statizzare.

Occorre riconoscere che, se si ritiene che il collettivismo statale egualitario è un fine da raggiungere, questa è una politica adeguata.

Il proletariato ne è per l’appunto lo strumento necessario, non perché gli operai ritrarrebbero benefici da una tale soluzione – chè anzi in definitiva ne ritrarrebbero asservimento e danni - ma perché sono la parte della popolazione su cui più facilmente quella ingannevole soluzione può far presa.
Se ne utilizza la forza distruttiva, pur sapendosi che non ha alcuna capacità ricostruttiva (come non l’ha nessun’altra classe economica).

E contemporaneamente si organizza il movimento con una rigida disciplina, per il momento in cui diventerà possibile e necessaria la dittatura ricostruttiva del Partito Comunista.

La credenza nella forza spontaneamente creatrice della lotta di classe del proletariato, poteva esserci quando tale lotta era ai suoi primordi, e non si conoscevano i fatali vicoli ciechi cui conduceva.

Oggi che si conoscono e si è constatato che hanno fatto fallire tutti i movimenti politici impostati classisticamente, la più importante corrente del socialismo marxista*

* Ossia quella comunista.
se ne è di fatto sganciata; nei movimenti di classe del proletariato essa scorge solo degli strumenti necessari.

Ultime vestali sconsolate della fede nella forza creatrice spontanea del proletariato, sono i superstiti socialdemocratici, sindacalisti, socialisti rivoluzionari, oppositori comunisti, anarchici, ecc. - ritardatari di cui non val la pena di preoccuparsi eccessivamente.

Il risultato del nostro esame della politica marxista, è dunque il seguente.

E’ falso che esista una ineluttabile forza sociale - il proletariato - la quale generi un partito socialista, il cui compito dovrebbe limitarsi a dar forma cosciente alla tendenza immanente in tale classe verso il comunismo.
Al contrario, il partito politico comunista tende a consolidare in una forza unica le varie forze suscettibili di essere conquistate dalla mitologia marxista per creare la forza politica chiamata «proletariato» - strumento di massa che dovrebbe essere atto a raggiungere il fine del collettivismo.

La tendenza politica comunista, abbozzata da Marx, era poi svanita dalla scena politica europea, conservandosi solo in Russia*

* Cioè in uno dei Paesi più arretrati al mondo!

ove riuscì a giungere al potere.

Dopo la Prima Guerra Mondiale (1914-18) è però ricomparsa presentandosi come l’ala più agguerrita e più decisa delle correnti europee progressiste.

Esaminiamo un po’ particolareggiatamente i motivi per cui esso occupi oggi questa posizione.
Ciò ci aiuterà a chiarire meglio quello che costituisce il punto nevralgico della vita politica europea nella nostra epoca.

Nelle situazioni rivoluzionarie della nostra epoca si è constatata sempre una liquefazione dell’influenza dei partiti democratici*

* Ossia dei partiti democratici e liberali.

tradizionali, ed una polarizzazione delle masse verso le tendenze comuniste da una parte, e totalitarie*

* Nazifasciste.

dall’altra.
Salvo il caso della Rivoluzione Russa (1917), dappertutto altrove è risultato che la presa comunista sulle masse riusciva a mobilitare una forza di combattimento inferiore a quella delle tendenze totalitarie, che puntavano su interessi e su tradizioni nazionali, religiose, razziali, sui sostenitori dei diritti acquisiti, sui rancori delle classi medie impoverite, ecc., ed utilizzavano queste forze per consolidare il potere dei ceti privilegiati o per riconquistarlo se ne erano state sbalzate via.

Lo svantaggio dei comunisti rispetto alla politica totalitaria è molto grave.

Per quanto manovrino per allargare la loro base, sono talmente legati al loro programma di collettivizzazione, che non riescono a conquistare una forza sufficiente per i loro ambiziosi piani.

Comunque si possano valutare la probabilità di vittoria dei comunisti e dei reazionari, è certo tuttavia che sembra esserci una qualche tendenza profonda che porta a questa polarizzazione, una specie di linea di minor resistenza, per cui tutte le altre alternative sembrano impallidire e rendersi più difficilmente realizzabili in ogni situazione di crisi rivoluzionaria.

Dobbiamo quindi domandarci quale sia il motivo per cui le abbiamo viste in passato*,

* Le valide alternative moderate, liberali e democratiche (ossia le forze progressiste).

e torniamo a vederle oggi come affascinate dai comunisti e spinte a far tacere tutte le obbiezioni, tutte le critiche per mettersi al loro seguito e lasciarsi utilizzare da essi (dico utilizzare, perché i comunisti sono troppo consci della loro funzione per trattarle diversamente).
Se chiedete il perché, vi sentirete rispondere - in stile democratico - che le masse ormai vogliono una rivoluzione socialista, che gli operai non sono più disposti ad assoggettarsi al capitale padronale, che il proletariato è ormai educato da quasi un secolo dai marxisti, che il popolo chiederà nel momento della crisi rivoluzionaria l’abolizione della proprietà privata, e che perciò occorre orientarsi verso il partito che si propone questo obbiettivo, cercando, tutt’al più, di dargli buoni consigli, in modo che non faccia troppi disastri.

La cosa espressa in questi termini è inesatta.

Di vero c’è solo che nella prossima crisi rivoluzionaria ci sarà, come sempre in tali crisi, una forte esplosione di lotte di classe, le quali, come abbiamo visto, non indicano di per sé una inclinazione verso il comunismo.
Quanto a questa inclinazione, cioè quanto alla influenza dei partiti marxisti, occorre notare che vi sono strati operai, che in alcuni Paesi costituiscono la maggioranza degli operai, niente affatto socialisti benché accaniti combattenti delle lotte di classe - come quelli americani ed inglesi.

Nei Paesi Europei continentali, fino a ieri, il proletariato era sì assai più compenetrato dalle idee del socialismo marxista, ma ciò costituiva più una vernice che una sostanza.

Infatti, nella sua maggioranza, esso seguiva i partiti socialdemocratici, cioè i partiti di riformismo sindacalista e non quelli comunisti.

Inoltre, quando si considerino le prospettive rispetto all’avvenire, bisogna tenere conto che la tradizione marxista è ormai accompagnata da un deprimente peso morto di fallimenti e di delusioni:
ed in diversi Paesi la lunga reazione totalitaria ha spezzato il precedente legame fra marxisti ed operai, e le generazioni giovani ignorano il socialismo marxista.

Che i sentimenti predominanti e determinanti la condotta degli operai nel prossimo domani debbano essere quelli del collettivismo, è perciò una affermazione gratuita, nient'affatto evidente.

Il campo è molto più sgombro di quel che certuni vorrebbero far credere.

Ma, anche ammesso che questo rozzo sentimento popolare fosse quello che si dice, ciò non spiega la tendenza delle odierne crisi rivoluzionarie a scivolare verso quella soluzione [il marxismo].
I sentimenti popolari sono semplici dati di fatto che i partiti utilizzano, e perciò non essi, ma gli orientamenti dei partiti che li dirigono ed il modo con cui questi partiti manovrano quei sentimenti, danno la chiave per spiegare il corso degli avvenimenti politici*.

* Critica dell’economicismo marxista: l’economia non muove la storia. Sono le idee politiche, religiose, sessuali, culturali, ecc., che determinano il suo corso! Alla fine non è l’illusoria “coscienza di classe” che determina l’ideologia (le idee) dei partiti politici. Sono invece i partiti politici che determinano le idee che verranno fatte proprie dalle masse. Ciò avviene sia per il comunismo, sia per il nazifascismo.

Se i capi politici progressisti più combattivi e più capaci modificassero gli orientamenti tradizionali, ciò potrebbe produrre delle transitorie crisi di fiducia nelle masse, ma se fossero ben decisi nelle loro vedute, se sapessero con sicurezza che cosa occorre fare e come farlo nei momenti critici, riuscirebbero a farsi seguire*.
* Nel caso cioè in cui i progressisti si staccassero definitivamente dal marxismo.

Per rispondere alla nostra domanda, non dobbiamo perciò rinviare ai sentimenti delle masse, ma chiederci quale sia il motivo per cui l’orientamento dei capi politici progressisti si attiene così ostinatamente alla soluzione della statizzazione dell’economia.

Se scopriremo questo motivo, capiremo senz’altro il motivo del fascino esercitato dai comunisti.

Questi infatti sono il partito che ha posto nei termini più coerenti il problema politico del collettivismo, e che è più capace di risolverlo nella nostra epoca.
Le altre forze progressiste convinte in fondo che verso quell’obbiettivo si deve marciare, anche se riluttanti, non possono non sentire una specie di complesso di inferiorità verso i comunisti, una certa disposizione ad abdicare nei momenti decisivi a loro favore, poiché non sanno levarsi alla loro risolutezza.

Il socialismo implica sempre, comunque lo si formuli, l’attribuzione di nuovi importanti funzioni allo stato, poiché il controllo delle forze economiche significa in sostanza la creazione di istituti pubblici e di leggi di vario genere.

Lo stato è lo strumento politico con cui si esercita il controllo socialista.

Ma il socialismo marxista, con la statizzazione di tutta la vita economica, assegna allo stato una importanza assoluta, totale.



Non si può collettivizzare tutti gli strumenti di produzione e pianificare in conseguenza tutta l’attività economica, senza disporre di un fortissimo apparato statale.

Il braccio dello stato deve essere tanto sviluppato, da abbracciare l’intera vita del Paese.
Ora, se a spingere i socialisti verso la soluzione della statizzazione, fosse stato solo il loro dottrinarismo, la cosa non sarebbe eccessivamente grave.

Poiché l’esperienza ha mostrato che essa rappresenta una soluzione inadeguata al raggiungimento dei fini che si propone, l’idea del comunismo dovrebbe progressivamente dileguarsi*.

* Quello che interessa davvero ai comunisti non è il collettivismo, ma il desiderio di ottenere un potere assoluto.

Effettivamente c’è però nella situazione attuale della civiltà moderna, qualcosa che spinge ad un crescente intervento dello stato, tendendo a fargli prender possesso di tutta la vita economica del Paese.
I marxisti non hanno individuato con precisione i motivi di questa tendenza, ma la subiscono sforzandosi solo di indirizzarla nel modo che ritengono vantaggioso per le classi lavoratrici.

Nonostante le loro affermazioni, la collettivizzazione non è una necessità tecnica della produzione, la quale anzi ne risulterebbe danneggiata, né è nell’interesse delle classi lavoratrici, che verrebbe soddisfatto con certi interventi e certe collettivizzazioni, ma niente affatto con l’intervento totale che sostituirebbe i padroni burocratici ai padroni capitalisti.

Una forza che spinge ad un crescente collettivismo è la necessità di mettere un ordine autoritario al crescente sezionalismo economico.

Ma sovrapponendosi a questo ed alleandovisi in vari modi, quel che vi spinge con la maggiore energia, è la necessità dello stato di prepararsi alla guerra.
Finché questa sarà l’esigenza predominante, vi sarà nelle classi dirigenti una tendenza costante a sfruttare tutte le occasioni, tutti i sentimenti, tutti gli interessi, per rendere più grande la presa dello stato sulla vita dei cittadini, per fare un ulteriore passo verso la società-caserma.

I socialisti non sono né militaristi né nazionalisti.

Essi pensano ad una società in cui non vi saranno più guerre, ad una società socialista internazionale.

Tuttavia accettano lo Stato Nazionale come suprema forza di organizzazione economica e politica di cui essi possano praticamente far uso oggi per realizzare il loro fine.

Ad accettare questo idolo li determina da una parte tutta la politica europea che finora non è riuscita a creare niente di superiore agli stati sovrani, e dall’altra la loro ideologia collettivista, che non è
realizzabile senza il presupposto di un Paese già fortemente abituato all’ubbidienza ad un’autorità superiore.

Teoricamente si può concepire un comunismo internazionale. Praticamente è possibile costruire solo dei comunismi nazionali, poiché manca uno stato internazionale, né lo si può costituire d’un colpo, fornito della forza e dell’autorità, per acquistare la quale sono occorsi dei secoli agli stati nazionali.

La via di minor resistenza che si presenta ai socialisti per la realizzazione del collettivismo, è quella del collettivismo su base nazionale; accettare cioè la naturale tendenza dello stato verso la statizzazione dell’economia, e impadronirsi della direzione del suo meccanismo, per adoperarlo in vista dei propri scopi.


Ma il comunismo nazionale non eliminerebbe i contrasti del sezionalismo geografico, anzi li acuirebbe, poiché renderebbe ogni rapporto di scambio fra Paese e Paese oggetto di trattative diplomatiche fra i vari Stati, e così sarebbe causa di maggiori attriti e di più forti tendenze imperialistiche poiché contrapporrebbe, quali blocchi unitari, i Paesi più ricchi - per maggiori dotazioni di risorse naturali e di attrezzatura tecnica, e per superiori capacità della popolazione - ai Paesi più poveri.
Prigionieri, come sono, dell’idea del comunismo nazionale, e semi-inconsapevoli della impossibilità di conciliare pacificamente le esigenze contrastanti degli eventuali stati collettivisti, i comunisti si rifugiano o nel sogno dell’universale reciproca benevolenza che regnerà fra quegli stati quando non ci sarà più il capitalismo, oppure nel sogno di un imperialismo russo che con la forza dell’esercito imporrebbe un’unità comunista internazionale.

Accettata come dato immutabile per la nostra epoca l’attuale stato sovrano con le sue forti esigenze militariste, la linea di minor resistenza per i movimenti politici è quella della lotta circa vari tipi di collettivismo.

Quest’ultimo infatti è implicito nella esigenza militarista.
E’ per questo che le alternative tendono a polarizzarsi verso il collettivismo comunista, eliminatore dei privilegi della ricchezza, o verso il collettivismo totalitario, conservatore della situazione dei ceti privilegiati.

Per quanto antitetici, i due movimenti sono sullo stesso piano, accettando entrambi la tendenza verso la società caserma.

L’ostinazione con cui i socialisti si attengono all’ideale collettivista, è l’espressione dell’inconscia dipendenza delle forze progressiste dall’idolo nazionale e militarista.

Anche le forze che credono di combatterlo, in realtà lavorano per lui*.

* L’esempio del socialismo inglese è caratteristico. L'Inghilterra, Paese poco militarista, è stata sempre un campo poco fruttuoso per le idee marxiste, quantunque abbia eseguito molte singole collettivizzazioni. Ma l’ideale della statizzazione vi ha preso piede parallelamente al crescere delle esigenze militariste. Oggi che il conflitto [la Seconda Guerra Mondiale] le impone un collettivismo di guerra, i laburisti, pur invocando per l'indomani una Federazione di popoli, dichiarano che intendono mantenere e sviluppare l’economia pianificata. Se faranno ciò faranno senz'altro fallire la Federazione, poiché la loro economia pianificata non potrà che essere inglese, autarchica, sezionale, nazionalista. Si potrà far aderire l'Inghilterra alla Federazione pur nazionalizzando molte sue imprese. Non c’è contraddizione insuperabile. Ma, non si potrà fare una Federazione vitale ed una economia nazionale pianificata.
La conclusione a cui giungiamo dunque, è che il metodo più coerente con cui è possibile adoperare le forze sociali esistenti per la realizzazione del collettivismo egualitario, è quello comunista; e che la condizione generale che favorisce la polarizzazione delle forze progressiste verso il comunismo, cioè verso il collettivismo egualitario, e di quelle reazionarie verso il totalitarismo cioè verso il collettivismo a vantaggio dei privilegiati, è la lotta su scala nazionale.



VI – LA POLITICA FEDERALISTA

Volendo precisare quale debba essere la politica realistica e spregiudicata dei federalisti, dobbiamo esaminare:

Quali concrete possibilità ci siano oggi che si formi e si metta all’opera una classe dirigente federalista.
Come si determini in conformità del programma federalista la sfera delle forze sociali conquistabili su cui poggiare per giungere alla vittoria.

Quale debba essere il metodo, con cui si devono conquistare e guidare queste forze.


1) Un qualsiasi programma di rinnovamento politico sociale è inizialmente elaborato da pensatori i quali, avendo specialmente a cuore i problemi politici, indicano certe direttive possibili, conformi a certi valori di civiltà.

Costoro non sono mai numerosi, né influiscono in genere direttamente sull’azione politica.

Possono chiamarsi, più che capi politici, consiglieri politici.

Consiglieri in senso ideale, poiché il consiglio può magari essere ascoltato anche da generazioni successive, o da uomini diversi da coloro ai quali esso era rivolto.

Affinché le loro indicazioni, la loro legislazione del futuro diventi una reale direttiva d’azione, occorre si formino gruppi di uomini d’azione politici per i quali quelle indicazioni siano un dato di fatto della loro formazione spirituale, ed il cui interesse e la cui passione principale consista nell’opera di organizzazione e di comando degli uomini: non nell’elaborare i programmi, ma nel dedicare le proprie energie alla loro realizzazione.

Nessun programma passa dal regno dei valori ideali a quello dell’azione concreta, se non è accolto da una effettiva classe politica dirigente, da minoranze attive ed organizzate che si propongono seriamente di realizzarlo.

D’altra parte, questi gruppi di uomini d’azione non si formano, se non ci sono nella società e nell’epoca in questione certe condizioni generali, che facciano pensare praticamente possibile la realizzazione del programma.

L’interessamento fattivo di uomini d’azione va alle cose che praticamente si possono fare, e non alle cose buone, ma impossibili.
Ad una soluzione federalista si è pensato da parecchi, da parecchio tempo ed in parecchi Paesi, come ad una soluzione razionale delle difficoltà della civiltà europea*.

* I padri spirituali di questa idea in Italia sono stati due pensatori politici originali e potenti del nostro Risorgimento: Cattaneo e Mazzini.

Ma i consigli non hanno trovato uomini di azione disposti ad ascoltarli, poiché le difficoltà per la realizzazione si presentavano talmente gigantesche, che anche i meglio intenzionati non potevano fare altro che auspicare più favorevoli condizioni per il futuro.

Come venire a capo di quei colossi forniti di una così potente vitalità, che sono gli Stati Nazionali? Come sganciare le forze sociali dal loro tradizionale orientamento politico diretto ad ottenere la soddisfazione delle loro aspirazioni entro l’ambito nazionale?
Come superare l’ostacolo delle monarchie plurisecolari, degli interessi rappresentati dai generali, dagli industriali protetti con i dazi doganali e da tutti gli altri gruppi che si erano incrostati intorno allo Stato Nazionale?

La cosa sapeva di utopia; e le utopie esercitano una certa attrazione sugli spiriti dei consiglieri, non su quelli degli uomini d’azione.

E se tanta resistenza incontra ancora oggi il programma federalista fra i vecchi uomini politici coperti di guidaleschi*

* Guidaleschi: piaghe.

dei vecchi partiti a compiti nazionali, ciò è dovuto essenzialmente al fatto che costoro non riescono a vedere quale effettiva azione politica sarebbe possibile per realizzarlo.
Eppure siamo convinti che, se per gli uomini politici europei continuasse a presentarsi come problema centrale quello della conquista del potere nel sempre più collettivista Stato Nazionale sovrano, se passioni ed interessi costituiti intorno a questi stati continuassero ad essere talmente imponenti e solidi da scoraggiare ogni volontà di attaccarli, tutta l’impostazione federalista resterebbe come campata in aria, perché troppo arduo sarebbe rimontare la corrente che porta all’alternativa comunismo o totalitarismo, e che alimenta e rafforza il numero degli uomini d’azione che diventano comunisti o totalitari.

Ma proprio questa premessa fondamentale, proprio l’accettazione dell’esistenza degli stati sovrani come un fatto incontestabile, proprio il fascino che essi esercitano, è quel che sta rapidissimamente svanendo.

Nel prossimo quinquennio, la questione primaria per gli europei sarà non come organizzare i loro rispettivi Paesi, ma come organizzare la convivenza pacifica e civile sul continente, una volta frustrato il tentativo di soluzione imperiale nazista.

Questo problema sarà risolubile solo con la realizzazione degli istituti politici, giudiziari, finanziari, militari del nuovo stato federale.
Ed un tale risultato non potrà essere raggiunto se non indirizzando tutte le forze politiche di cui si riesca a disporre verso una concertata azione internazionale.

L’urgenza della questione, la possibilità a portata di mano della sua soluzione, la fecondità dei risultati benefici che ne deriverebbero, non possono mancare di esercitare un’attrattiva sempre più potente sugli uomini politici, inducendoli a connettere a questo i vari altri problemi politici dell’epoca rivoluzionaria.

Ma impostare il problema con coerenza, porta alla dissoluzione di quei complessi di sentimenti, di propositi, di azioni, che si cristallizzavano intorno allo Stato Nazionale sovrano come suprema forma attualmente possibile di organizzazione dei popoli europei.
La marcia verso il collettivismo è, su scala nazionale, una linea di minor resistenza, e gli uomini politici saranno propensi a scivolarvi o ad attenervisi con immensa facilità.

Su scala internazionale, diventa una linea di resistenza massima irta di ostacoli immensi, poiché mancano sia i possenti strumenti amministrativi necessari, sia la profonda tradizionale disciplina che solo gli stati sovrani col loro passato militarista posseggono.

In un quadro di politica nazionale, le eventuali necessarie socializzazioni dell’epoca rivoluzionaria farebbero inevitabilmente ulteriori passi verso una economia programmata nazionale.


Nell’ambito della politica federalista, sarebbero misure intese all’eliminazione di privilegi monopolistici, che si inquadrerebbero nell’opera di distruzione delle più o meno autarchiche economie programmate, e verrebbero ad inserirsi nell’opera di creazione di un libero mercato europeo sul quale solo si può fare affidamento per la fusione delle malate economie nazionali, in un’unica, sana, economia europea.

Sul piano nazionale, le esigenze militari persistenti impedirebbero le effettive misure per l’eliminazione della miseria, convogliando verso gli obbiettivi bellici il massimo delle risorse materiali e delle energie umane disponibili.

Sul piano internazionale è possibile affrontare e risolvere in modo totale e definitivo il problema del militarismo europeo, e liberare enormi risorse da questo improduttivo impiego, aprendo così la strada in modo efficace alla possibilità delle varie spese necessarie per creare una molto maggiore eguaglianza di possibilità per tutti.

Mentre dunque in una politica progressista a sfondo nazionale le cose sono ormai a un punto che i comunisti rappresentano, per la decisione e precisione dei loro piani il centro di attrazione delle minoranze attive, su scala internazionale, l’idea comunista perderebbe ogni forza di attrazione; anzi, i più intelligenti fra gli stessi comunisti finirebbero per essere attratti verso la politica federalista. 

Non i ragionamenti astratti, ma la stessa azione federalista farà scomparire dalla mente degli uomini politici quella che è stata sinora l’ossessionante credenza in una marcia inesorabile dell’umanità verso il collettivismo, credenza dovuta solo alla assurda accettazione del tabù dello Stato Nazionale sovrano.
E' la stessa azione federalista che faciliterà la comprensione esatta dei concreti problemi del socialismo.

Senza dubbio i vecchi intorpiditi uomini politici continuano la loro via. Privi di fantasia, privi di iniziativa, sono morti che seppelliscono i loro morti.

Ma il programma federalista, capace di tramutarsi in realtà nella nostra stessa epoca, nei nostri anni, non potrà non esercitare una attrattiva potente sulle menti fresche, desiderose di azione feconda, non ancora impegnate nelle vecchie carriere, o capaci di sentirne la vacuità e di abbandonarle.

Sul piano dei problemi esclusivamente nazionali, i federalisti si troverebbero come sfasati, e finirebbero per intristire senza frutti. Sul piano dei problemi europei, per la chiarezza delle loro vedute essi farebbero rapidamente divenire sfasate ed incerte tutte le tendenze progressiste che non si orientassero nella loro stessa direzione.
2) Come abbiamo visto accadere per il marxismo, e come accade per qualsiasi direttiva politica, anche il federalismo deve determinare la sfera delle forze sociali conquistabili.

Non ne ripetiamo qui la descrizione che è stata fatta nello scritto precedente.

La linea di divisione che il federalismo tende a provocare, non coincide con quella dei partiti tradizionali, ed incide sulle forze nazionali, su quelle classiste in modo suo peculiare.

Ciò riempie di scandalo i seguaci delle vecchie tendenze. I partiti marxisti accusano di tendenze reazionarie i federalisti perché vedono ad esempio che la «borghesia» non è più considerata in blocco come nemico, che si distingue fra la borghesia monopolista e protezionista, e quella libero scambista la quale è considerata come elemento favorevole.

Oppure gridano al tradimento poiché vedono che il «proletariato» non è considerato in blocco come alleato, ma si distingue tra operai che lottano per la comune emancipazione, ed operai dall’egoistica politica di categoria e di classe.

E da un diverso punto di vista, i partiti nazionali levano analoghe accuse.

Ma poiché il compito del federalismo è diverso da quello del comunismo e del nazionalismo, non si comprende davvero perché i criteri di divisione dovrebbero essere gli stessi.

Abbiamo visto che le divisioni in classi o in nazioni non sono dati assoluti ed irremovibili, ma hanno un significato ed un valore solo in funzione di direttive e programmi politici.
Se si passano in rassegna le forze suscettibili di essere interessate ad una soluzione federalista e di rimanerle fedele dopo, scorgiamo che esse comprendono l’enorme maggioranza delle popolazioni dei Paesi Europei.

Tuttavia non bisogna lasciarsi andare per questo motivo a calcoli illusori.

Qualunque radicale modificazione dell’ordine di cose esistenti incontra l’accanita resistenza di coloro che ne verrebbero danneggiati e che sanno ben valutare quali sarebbero le loro perdite; mentre riesce difficilmente ad ottenere il fattivo appoggio di coloro che sarebbero avvantaggiati, i quali mal si rappresentano gli eventuali benefici che ne ritrarrebbero.

I liberali italiani del Risorgimento, per esempio, potevano contare in astratto sull’enorme maggioranza degli italiani, ma in realtà solo su quelli disposti a battersi.
Lo stesso vale per i federalisti.

Non possono e non debbono calcolare sull’indifferenziato aiuto delle masse, ma solo su quelle che più facilmente possono essere portate sul terreno della lotta in modo organizzato ed il cui peso è decisivo; poiché si propongono di disporre di forze capaci di agire, non di masse capaci di fare impotenti dimostrazioni di sentimenti.

Quando ad esempio [i comunisti] dicono che, data l’importanza della politica degli operai delle grandi città nelle situazioni rivoluzionarie, è essenziale conquistare una influenza organizzata sugli operai, poiché il loro intervento sarà decisivo per una soluzione socialista, intendono per l’appunto indicare una di queste masse che, seppure non esclusiva, ha la maggiore importanza per condurre a buon fine una lotta.
Analogamente, non tutti i Paesi contribuiranno con l’uguale peso alla soluzione, e bisogna perciò puntare sopratutto sui vincitori di domani.

Insomma, nella situazione rivoluzionaria di domani, bisogna contare su certe forze più combattive e più influenti, per trasportare il resto.

Non importa se siano maggioranze o minoranze. Importa che siano sufficientemente forti.

Ma, si obbietta dai politici tradizionalisti delle diverse sfumature, queste forze sono già impegnate sotto la direzione politica marxista, nazionale, ecc.

In che modo pensate di superare questo ostacolo?

Sembra che il federalismo non abbia altre riserve a cui attingere; che le forze esistenti siano ormai esclusività di altri movimenti politici.
Non bisogna lasciarsi spaventare da queste pretese: esse sono in realtà senza alcun fondamento.

Le masse effettivamente influenzate dalle ideologie tradizionali sono una piccola parte di quelle che la crisi rivoluzionaria trascinerà improvvisamente sull’arena politica.

Anche se, in un primo momento, le vecchie tendenze si presenteranno molto gonfie, il loro legame con le masse, sarà debole e facilmente modificabile.

In ogni crisi rivoluzionaria, all’inizio le masse affluiscono, è vero, sotto vecchie bandiere, e i veri rivoluzionari sono infime minoranze; ma i rapporti cambiano rapidamente, quando le vecchie tendenze restano imbarazzate ed impotenti di fronte a quelli che sono di fatto i problemi più urgenti del momento.
Inoltre le vecchie tendenze nazionali, classiste ecc. ormai si presentano tutte non cariche di prestigio e di speranze, ma di dolorosissimi e umilianti ricordi.

Come abbiamo già detto il campo si presenta molto più sgombro di quanto pretendano i sedicenti loro esclusivi occupanti.

Lavorando con serietà e spirito realistico, i federalisti possono mobilitare le forze necessarie per vincere.

3) In che modo lavorare?

Se esaminiamo più da vicino le forze e le tendenze che possono essere portate sul terreno della lotta, troviamo che accanto ad elementi favorevoli ed utili per lo scopo da raggiungere, ve ne sono altri che operano in senso contrario.

Prendiamo qualche esempio.
Gli operai delle città, come classe più combattiva, più facilmente organizzabile, più compenetrata di idee progressiste di altri strati di lavoratori, sono una delle più importanti forze favorevoli.

Tuttavia tendono anche, nelle loro lotte economiche, a restringere le loro azioni al semplice egoistico orizzonte di categoria, con le deleterie conseguenze sindacaliste già ripetutamente ricordate.

I contadini, con la loro aspirazione al possesso della terra, sono anche una forza mobilitabile, specialmente nei Paesi dove la questione agraria è più scottante; ma ignorano e vogliono ignorare ogni altro più complesso problema che sorpassi quello della loro terra.

Gli imprenditori liberoscambisti sono una forza operante in una azione federalista; ma, se si aprono prospettive di particolari favori alle loro industrie, o se sperano di poter imporre agli operai più bassi salari, si legano facilmente con forze politiche reazionarie.

Passando dal campo degli interessi economici a quello delle tendenze politiche, scorgiamo che le tendenze socialiste democratiche sono molto sensibili ad impostazioni di carattere antimilitarista, internazionalista e popolare, e potranno quindi fornire molte forze all’opera federalista.

Ma tendono anche a deviare da questa direttiva, se si presenta loro la possibilità magari illusoria, di realizzazioni più immediate, socialiste o democratiche su ridotta (ed avvelenata) scala nazionale*.

* E' stata già notata per il caso del laburismo inglese questa contraddizione tra le due aspirazioni.
Infine, nel campo nazionale, le forze animate da sentimento di amor patrio - oggi uno dei sentimenti più forti nell’uomo comune - non possono non vedere che solo entro un quadro federalista garantirebbero uno sviluppo pacifico e sicuro al loro Paese. Ma facilmente si chiudono in un «sacro egoismo» nazionale, pensando solo a garantire la massima sicurezza possibile al proprio Paese col rafforzamento della sua potenza militare.

Insomma, tutte le forze favorevoli alla federazione sono tali, nella misura in cui vengono controllate da una classe dirigente che le costringa ad agire entro una direttiva politica generale; ma tendono di per sé a spezzare questo quadro, lasciandosi andare lungo questa o quella politica sezionale, se la classe dirigente si fa prendere la mano e segue - in obbedienza a questo o a quel mito di «sovranità popolare», «missione di classe», «razza», ecc. ecc. - gli impulsi immediati e spontanei delle masse.
Il compito di consapevole coordinamento, utilizzazione e raffrenamento di forze particolari, è la funzione specifica di qualsiasi classe governante o aspirante governante, degna di questo nome - nelle epoche tranquille e in quelle agitate.

Nelle epoche tranquille, in cui la direttiva generale è ormai consolidata in abitudini popolari, e in cui perciò esiste una notevole reciproca comprensione fra governanti e governati, questa guida*

* Guida e coordinamento delle forze particolari verso il fine generale.

è facile, e sorge l’apparenza che quelli*

* I governanti.

eseguano semplicemente la volontà di questi*,

* I governati.
anziché reggerla e guidarla.

Ma, se ben si osserva, si riconosce che questa è un’illusione.

Quando realmente accade così, il risultato non è un’azione coordinata, ma il progressivo dissolversi dell’autorità statale per l’azione delle forze particolari centrifughe, il dislocamento della società in gruppi in rissa sempre più feroce per il conseguimento dei loro interessi particolari.

Per quanto grandi, antiche e salde siano le regole generali di qualsiasi convivenza sociale, saltano a pezzi se la classe governante viene meno alla sua opera di direzione, non contenendo gli impulsi particolaristici e centrifughi immediatamente sorgenti dal basso.
La cosa appare in tutta la sua pienezza, nelle epoche rivoluzionarie, quando crollano le vecchie abitudini, leggi, istituzioni, apparati di forza, che mantenevano la vecchia direttiva generale di civiltà. E’ caduta la vecchia classe dirigente, e non ce n’è ancora una nuova.

C’è solo una lotta fra i vari movimenti politici, ciascuno dei quali tende a conquistare il potere.

C’è allora una frattura fra dirigenti e masse.

Da una parte ci sono i movimenti politici, composti di uomini d’azione che, animati da uno stesso ideale di civiltà, formulano un programma realizzabile in circostanze reputate imminenti o attuali, ed operano coordinatamente sotto una comune direzione per realizzarlo, cioè per trarsi dietro le forze sufficienti ad imporre nuove leggi, istituzioni, abitudini.
Dall’altra parte vi sono le masse fluttuanti, capaci di essere inquadrate, educate ed abituate in questo o quel quadro politico generale, ma per intanto ancora prive di tale inquadramento, o comprendenti solo i loro immediati particolari interessi.

In queste situazioni individui e partiti che si affidano alle spontanee aspirazioni delle masse, possono anche in un primo momento e transitoriamente godere di grandi popolarità, ma non possono costituire una vera direzione*.

* Oggi, nell’Italia di fine 2016, questi movimenti populistici, privi di valide idee e interessati solo ad acciuffare il potere politico della macchina statale nazionale per i loro fini particolari, sono ben rappresentati dalla Lega Nord e dal Movimento 5 Stelle – che infatti si richiamano unicamente al Principio di Maggioranza, alla Sovranità del Popolo e ai vari ferri vecchi della Democrazia Diretta. Movimenti politici populisti, democratici ma non liberali, sono in tutta Europa e anche oltre.
Sono turaccioli che galleggiano sulle onde, sbattuti quà e là; sono elementi che contribuiscono alla continuazione del caos.


Coloro che sono consapevoli del vero significato della direzione politica, cercano invece di prendere il comando delle forze scatenate dalla rivoluzione, assecondandole nelle loro aspirazioni nella misura in cui è necessario per incanalarle verso l’obbiettivo da loro prefisso.
Ma ciò possono raggiungere solo a patto di sentirsi anzitutto tenuti ad una disciplina verso il loro movimento politico.

Adoperano perciò l’influenza che riescono a conquistare sulle masse e sulle loro organizzazioni, per utilizzarle a pro del loro movimento, e non viceversa.

Questo non significa che essi si mettano contro la volontà delle masse poiché questa volontà di fatto non esiste. Significa anzi che operano per formare tale volontà delle masse, inquadrandole in organizzazioni capaci di utilizzare tutte le spinte dal basso favorevoli e di neutralizzare tutte quelle dannose, per imporre con la persuasione e con la forza «stando in sul lione e in sulla volpe» un nuovo complesso di abitudini, di leggi, di istituzioni*.

* La nuova classe politica federalista deve guidare l’elettorato. Non deve inseguirlo cercando (o facendo finta) di accontentarlo nelle sue pretese più basse (ciò che accade invece nei movimenti populisti).
Questa capacità delle masse di seguire, questa loro incapacità di indicare e di proporsi per loro conto i compiti ricostruttivi, questa necessità di una direzione forte della classe governante, sono le condizioni della cosiddetta dittatura rivoluzionaria*.

* Grave errore terminologico dell’autore dovuto ai suoi precedenti influssi marxisti. Avrebbe potuto semplicemente scrivere: “questa necessità di una direzione sicura (decisa nei suoi scopi ultimi) della classe governante, sono le condizioni necessarie per la nuova Unità Europea.
Una qualsiasi epoca di sconvolgimenti si conclude, dopo un periodo caotico, in un’organizzazione di forze dietro a questo o a quel movimento politico fornito di tali qualità, e in una lotta finale fra di loro per decidere le basi su cui ricostruire il nuovo ordine.

I federalisti intendono essere non ebbri turaccioli del momento del crollo, ma sobri attori del periodo della costruzione del nuovo ordine.

Nelle prevedibili crisi di domani, le forze popolari tenderanno a raggrupparsi intorno a questo o a quel movimento capace di guidarle in mezzo alla tempesta.

Nel campo delle forze reazionarie, desiderose di conservare o ristabilire i privilegi minacciati o perduti, questi movimenti saranno, per loro natura, comunque si camuffino, a tendenze totalitarie.
Nel campo delle forze progressiste, in tutta una serie di Paesi, il movimento meglio preparato per un’azione di tal genere è finora stato quello comunista.

Tutto il nostro esame ci ha però condotti alla conclusione che, pur essendo tecnicamente bene attrezzato, esso è tuttavia incapace di realizzare le vere esigenze dell’indirizzo di civiltà progressista.

I federalisti intendono formare il nucleo di una classe dirigente progressista, che abbia le capacità rivoluzionarie dei comunisti, senza averne le tare*.

* Alcuni “patiti” del marxismo rimproverano ai federalisti di voler adoperare gli operai, ingannandoli, per gettarli poi da parte come limoni spremuti a servizio reso. Dopo tutto quello che si è detto, non vogliamo soffermarci su questa stupida accusa. I federalisti intendono, senza dubbio, adoperare le forze operaie (come anche altre forze popolari spontanee) come strumento nella lotta
politica. Ma questa non è una loro particolare perversità; è quello che fanno e debbono fare tutti i movimenti politici seri che vogliono attuare un programma. L’accusa di ingannatori è totalmente ridicola. Si suppone che gli operai abbiano in corpo, per virtù dello spirito santo, anche se non lo sanno, la soluzione della collettivizzazione totale; e se qualcuno vuole condurli su un cammino diverso, si dice che egli li vuole ingannare. Indipendentemente da questa impostazione demagogica, sta il fatto che il fine da raggiungere è noto e chiaro per i capi politici, non per le masse. Ma se questo vuol dire ingannare bisogna dire che i federalisti non ingannano più dei marxisti o di qualsiasi altro movimento politico. Quanto poi al proposito di sbarazzarsi degli operai a festa finita, non solo è una calunnia, ma è precisamente quello che farebbero i collettivisti ad oltranza. Sono costoro che, quando riescono ad instaurare il collettivismo, si debbono sbarazzare degli operai come forza politica, trasformandoli in semplici pezzi di una gigantesca macchina. Solo a tali condizioni, la macchina economica collettivista funziona. Se i
federalisti vogliono una trasformazione economica diversa da quella collettivista è proprio perché non vogliono che i lavoratori siano buttati da parte come cittadini, e ridotti alla onorifica funzione di servi di stato.

I suoi nemici sono le forze reazionarie che intendono conservare i privilegi degli stati sovrani, degli egoismi sezionali, della ricchezza parassitaria, cioè il militarismo imperialista, il disordine economico e lo sfruttamento dei deboli.




 

 

 

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