NORBERTO BOBBIO

 

 

IL FEDERALISMO NEL DIBATTITO POLITICO E CULTURALE DELLA RESISTENZA.

 

A cura di Roberto Favero.

 

 

Dedicato al mio professore Franco Manni.

 

Presentazione.

 

 

 

Questo è un breve saggio scritto da Norberto Bobbio nel lontano 1973 a favore del Federalismo e dell’Unità Europea.

 

 

 

Ne consiglio la lettura perché come tutti i testi di Bobbio che ho letto finora sono illuminanti e riescono a facilitare la lettura dei testi che seguono.

 

 

 

Le note in corsivo sono mie osservazioni critiche.

 

 

 

 

 

 

Roberto Favero,

 

22 Dicembre 2016.

 

 

 

Quando nell’Estate del 1941 fu redatto tra confinati antifascisti il documento che fu chiamato Manifesto di Ventotene, l’idea di una Federazione Europea circolava in Europa da più di un secolo, almeno da quando Saint-Simon e Augustin Thierry avevano pubblicato nell’Ottobre del 1814 lo straordinario libretto, su La riorganizzazione della società europea, contenente il primo audace progetto di una società sopra-nazionale, che, pur non avendo ancora i caratteri di uno Stato Federale nel senso rigoroso della parola, andava ben al di là del sistema confederale di Stati cui si era fermato vent’anni prima Immanuel Kant.

Una volta formulata, questa idea*

* L’idea di un’Europa unita.

era destinata a ricomparire con maggiore o minore forza nei più gravi momenti di crisi rivoluzionaria e guerresca: nel 1848, nel 1866-67, dopo la Prima Guerra Mondiale (1914-18).

Diventò una delle componenti essenziali del pensiero politico radicale di matrice sia economico-liberale sia democratica*.

* Io avrei invece scritto: "Diventò una delle componenti essenziali del pensiero politico radicale di matrice sia economico-liberista sia democratica-liberale.

Ma nonostante le numerose pubblicazioni con cui fu illustrata, nonostante i vari progetti cui diede luogo, nonostante le dichiarazioni con cui fu in varie e solenni occasioni celebrata, questa idea*

* L’idea di un’Europa unita.

non si era mai trasformata prima della fine della Seconda Guerra Mondiale (1939-45) in un vero e proprio movimento politico.

Era rimasta se non proprio una generosa e sterile utopia, un programma dottrinale, un’affermazione di principio, un tema seducente da riviste e da società per la pace.

Il Manifesto di Ventotene (1941) segna in questo senso una svolta, giacché esso intende essere non soltanto una dichiarazione di principio ma un programma d’azione: "Con la propaganda e con l’azione - vi si legge -, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami fra i singoli movimenti che nei vari Paesi si vanno certamente formando, occorre sin d’ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far nascere il nuovo organismo che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta in Europa".

Il movimento che sorge da quel Manifesto non mira al partito nel senso proprio della parola (se mai ad un organismo inter-partitico), ma non intende neppure dar vita ad un semplice movimento di opinione.

Il Federalismo Europeo dovrà essere d’ora innanzi pensiero ed azione.

Il distacco dai tentativi precedenti è nettissimo. Tanto netto che nei primi scritti del movimento i riferimenti alla enorme letteratura europeistica e federalistica del secolo precedente - l’Ottocento - sono scarsissimi. Qualche rapido omaggio quasi obbligato a Giuseppe Mazzini e a Carlo Cattaneo. Ma niente di più.

In fondo tutto ciò che è stato scritto prima in condizioni storiche diversissime appartiene non alla storia ma alla preistoria: è un antefatto che si può dare tranquillamente per conosciuto.

Sono un’eccezione gli scritti più vicini nel tempo, che fanno capo all’inglese Federal Union (sorta nel 1938), in particolare gli scritti lucidissimi di Lionel Robbins.

Tra il Federalismo Europeo nato dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale (1939-45) e il Federalismo del XIX secolo c’è la stessa differenza che corre tra una concezione evoluzionistica, e in fin dei conti ottimistica, della storia e una concezione attiva ed energicamente prammatica.

Per distinguere questi due modi di affrontare il problema della guerra e della pace ho parlato altrove di pacifismo passivo e pacifismo attivo.

Pacifismo passivo, il primo, perché attende la soluzione del problema da un’evoluzione naturale, quasi fatale, obbligata, della società umana, e considera la fine della guerra come il risultato inevitabile di una tendenza verso forme superiori di convivenza, si tratti del passaggio dalle società militari alle società industriali, proprio della visione positivistica della storia, o del graduale affievolimento dello spirito di conquista ad opera dello spirito del commercio, che fu uno dei punti fermi della dottrina liberale e liberista, o della

scomparsa di ogni forma di guerra in una società internazionale in cui tutti gli Stati fossero fondati sulla Sovranità Popolare, che fu uno dei dogmi più asseverati e creduti del nazionalismo democratico.

Pacifismo attivo, il secondo, perché, venuta ormai meno la credenza nel progresso inevitabile, sopraffatto l’evoluzionismo positivistico da una visione catastrofica o dialettica della storia, nessuna meta è preventivamente assicurata, nessun esito è predeterminato in anticipo; ogni passo innanzi è il prodotto di una azione cosciente e deliberata.

L’Europa - per dirla con il motto di uno dei fondatori - "non cade dal cielo".

Credo che se si vuol tracciare una prima linea di demarcazione tra il Federalismo di oggi e quello di ieri convenga risalire a queste diverse, anzi opposte, concezioni generali della storia che l’uno o l’altro,

anche senza averne sempre chiara coscienza, presuppongono, per il solo fatto di essere iscritti in un contesto storico e ideologico profondamente mutato.

Beninteso, ciò che soprattutto è mutato dal secolo scorso, il XIX, al nostro, il XX, e che quindi spiega in ultima analisi la nascita di un nuovo Federalismo più che la rinascita o la riesumazione del vecchio, è il carattere nuovo della guerra.

La guerra è diventata, o forse meglio è ridiventata, totale.

La guerra non solo non è evolutivamente scomparsa ma è diventata insieme più micidiale e più iniqua.

Non a caso con il tema della guerra totale comincia l’opuscolo di Storeno (Ernesto Rossi), Gli Stati Uniti d’Europa, apparso a Lugano nel 1944, uno degli incunaboli del Movimento.

"La guerra non è più un urto tra eserciti - vi si legge. È un urto fra popoli che nella lotta impegnano tutti i loro beni, tutte le loro vite. È la guerra totale ecc.".

Quando dico che la guerra è ridiventata totale, voglio dire che con la Prima, e soprattutto con la Seconda Guerra Mondiale (1939-45), si dissolve nell’urto con la dura realtà dei rapporti tra gli Stati Nazionali sovrani il concetto della guerra come fatto

giuridico, cioè come fatto regolato dal diritto e avente per iscopo, come la sanzione nel diritto interno, la riparazione di un torto e la restaurazione del diritto violato, concetto che era stato elaborato da giuristi e teologi all’inizio dell’Età Moderna (1492-1789) e della formazione dei grandi Stati Nazionali.

Non già che fosse sconosciuto il fenomeno della guerra totale (o per lo meno di quella che oggi chiamiamo "guerra totale")*.

* "Guerra totale" non è sinonimo di "guerra civile" (nel senso in cui noi oggi utilizziamo questo secondo termine). "Guerra totale" è piuttosto sinonimo di "guerra di religione". Questo termine è riferito alla storia del Novecento: ai civili innocenti internati nei campi di lavoro forzato, ai bombardamenti effettuati su obbiettivi quali ospedali e scuole, agli stermini di massa, ecc. Quando Norberto Bobbio afferma che la guerra totale era la guerra civile, intende il termine di "guerra civile" non nel senso tradizionale di "due fazioni che si combattono all’interno dello stesso Stato", ma nel senso di due contrapposizioni ideologiche trans-statali che, cominciate con la

Guerra Civile Spagnola (1936-39), hanno l’apice nella Seconda Guerra Mondiale (1939-45): i due schieramenti ideologici - le due nuove religioni - sono quelli del Liberalismo Politico e del Totalitarismo. Penso sia meglio la dicitura di altri storici che hanno chiamato questo conflitto totale del XX secolo con il termine di "guerra di religione".

Ma la guerra totale non era e non avrebbe mai più dovuto essere la guerra fra Stati Sovrani: era la guerra civile, proprio quella guerra civile che aveva devastato per quasi un secolo l’Europa*

* Qui il riferimento è alla guerra civile in Inghilterra. L’autore si riferisce al periodo centenario (1551-1650) che occupa la seconda metà del XVI secolo d. C. e la prima metà del XVII: periodo delle guerre di religione in Europa.

e che era imperioso compito del grande Stato*

* Del grande Stato Moderno, assoluto, nazionale e sovrano.

di rendere d’ora innanzi impossibile.

Il "bellum omnium contra omnes*"

* "La guerra di tutti contro tutti" caratteristica dell’Epoca Feudale.

su cui si erge il Leviatano (1651) di Thomas Hobbes è la guerra religiosa e politica che ha insanguinato l’Inghilterra del XVII secolo d. C. per quasi un decennio.

Il processo di concentrazione del potere attraverso cui si forma lo Stato Moderno è nato sulla dissoluzione di una società feudale che nella sua frantumazione, nella sua mancanza di un potere centrale tanto forte da essere irresistibile (come il potere di Dio), era stata lacerata da innumerevoli e interminabili guerre intestine.

Dell’efferatezza di questo tipo di guerra l’esempio che aveva suscitato maggiore commozione ed orrore

era stata la strage della Notte di San Bartolomeo (avvenuta tra il 23 e il 24 Agosto 1572).

Due anni dopo Jean Bodin*

* Teorico francese dell’Assolutismo.

dava alle stampe i sei celebri libri De la république che fu allora e rimase poi per secoli il più grande monumento eretto all’unità e all’assolutezza del potere politico statale.

Lo Stato Moderno assoluto, nel momento stesso in cui mette al bando la guerra civile*,

* Cioè le guerre di religione.

riconosce come unica forma legittima di guerra la guerra tra gli Stati Sovrani.

Ma la guerra tra gli Stati non è più una guerra indiscriminata: il ricorso alla forza cui è legittimato, se pure come extrema ratio, lo Stato Nazionale Sovrano nei confronti degli altri Stati Sovrani è, come la forza che esso esercita all’interno verso i suoi sudditi, una forza regolata e limitata da precise norme giuridiche.

Accanto al diritto pubblico interno nasce (si veda l’opera fondamentale di Carl Schmitt) lo ius publicum europaeum, di cui il capitolo principale è lo ius belli*,

* Il diritto di guerra.

cioè l’insieme delle regole che disciplinano l’esercizio della violenza tra Stati Nazionali Sovrani, cioè tra persone (giuridiche) eguali, come sono persone eguali i due avversari in un duello.

Diventa essenziale la distinzione tra hostis e rebellis: mentre il ribelle, cioè il nemico nella guerra civile, oggi diremmo di una rivoluzione (mancata), può essere distrutto e non ha nessun diritto da far valere di fronte al vincitore, l’hostis, cioè il nemico in una guerra fra Stati Nazionali Sovrani, cessa di essere colui "che deve essere annientato".

Mentre la guerra civile interna, cioè la ribellione*,

* Ribellione contro il proprio Governo.

è sempre ingiusta, anzi, in quanto delitto di lesa maestà, è il massimo dei crimini che un suddito possa commettere contro lo Stato Sovrano, la guerra esterna può essere in certi casi giusta e quindi lecita.

Al sistema del diritto pubblico europeo*

* Cioè del diritto di guerra.

corrisponde sul piano politico il sistema dell’equilibrio tra i grandi Stati Nazionali Sovrani che domina i rapporti internazionali per alcuni secoli.

Non è il caso di ripercorrere la storia del resto ben nota della crisi di questo sistema giuridico e politico, che si scompone continuamente per ricomporsi subito dopo.

Tutti gli storici sono concordi nel ritenere che la Prima Guerra Mondiale (1914-18) ne rappresenta la rottura, la Seconda (1939-45) la fine.

La guerra indiscriminata torna a fare la sua apparizione non più nei rapporti tra sovrano e sudditi o tra sudditi in rivolta, ma nel gigantesco conflitto che esplode e divampa tra gli stessi Stati Nazionali Sovrani.

Poche e sempre più logore e contestate sono le regole dello ius belli che ancora sopravvivono.

Mentre le nuove armi sempre più distruttive e incontrollabili rendono praticamente impossibile la distinzione fra belligeranti e non belligeranti, tra obiettivi militari e obiettivi civili, e impediscono ormai qualsiasi differenza tra mezzi leciti e mezzi illeciti (il fine totale giustifica il mezzo totale), il sovrapporsi di una guerra di liberazione nazionale antifascista alla guerra tra gli Stati in tutti i territori occupati dalle truppe tedesche naziste, cancella ogni differenza (come sa bene chiunque abbia partecipato alla Resistenza) tra nemico interno ed esterno: l’hostis è ridiventato rebellis, e quindi può essere annientato*.

* Sì, perciò nel suo schizzo storico Bobbio dice che la guerra di religione che implicava guerre civili all’interno dei singoli Stati (come in Francia, nel Sacro Romano Impero germanico e in Inghilterra), era stata trasformata in guerra tra Stati Sovrani che non era più "totale" (con odio e uccisione di civili innocenti). Ma questo durò

solo dalla seconda metà del XVII secolo d. C. alla Prima Guerra Mondiale (1914-18), quando ricominciarono gli odi trans-statali ideologici (della nuova religione politica) che implicarono guerre civili all’interno degli Stati e uccisioni di civili (guerra totale) con la Guerra Civile Spagnola (1936-39) e soprattutto con la Seconda Guerra Mondiale (1939-45). A quel tempo l’idea della Federazione Europea è quindi un’idea nuova perché oramai gli Stati Nazionali non riescono più a fermare la guerra ideologica condotta dalla nuova religione trans-statale (Liberalismo Politico versus Totalitarismo) e, quindi, ci vuole una nuova soluzione.

Ormai sulle basi su cui era stato posto, che erano le basi di un diritto paritario e convenzionale, il sistema del diritto pubblico europeo era definitivamente crollato.

L’idea federalista nasce, si rafforza, diventa principio motore di azione, via via che il sistema giuridico e politico nato come antidoto alle guerre di religione, come rimedio alla più grande esplosione di violenza che l’Europa aveva conosciuto prima delle due guerre mondiali, non regge più alla prova,

quando si riscopre che anche la guerra fra Stati Nazionali Sovrani può trasformarsi in guerra civile.

In un certo senso, e un po’ schematicamente, il processo verso lo Stato Federale rappresenta un processo inverso a quello che aveva caratterizzato la formazione dello Stato Nazionale Moderno.

Mentre questo era nato da un processo di accentramento verso l’unità e l’unicità del potere statale e di decentramento rispetto al potere universale rappresentato dalla Chiesa e dall’Impero

(la comunità internazionale dell’Età Moderna è definibile giuridicamente come un ordinamento massimamente decentrato), il Federalismo muove al contrario verso la disarticolazione dell’unità dello Stato Nazionale Sovrano, da un lato, e verso la ricerca di una nuova superiore unità, dall’altro, al di là e al di sopra dello Stato Nazionale.

Tende a liberare ciò che lo Stato Moderno aveva unificato, e a unificare ciò che lo stesso Stato Moderno aveva dissolto.

Combatte insomma la battaglia contemporaneamente su due fronti, quello della sovranità interna, attraverso il principio della divisione orizzontale dei poteri*,

* Ossia le libertà e le autonomie dei singoli Stati che entrerebbero a far parte della nuova Unità Federale.

e quello della sovranità esterna*,

* Ossia il principio federale della nuova sovranità degli Stati Uniti d’Europa.

attraverso il principio della limitazione della potestà di guerra e di pace che è la prerogativa dello Stato Nazionale Sovrano.

Questi due aspetti o momenti della dottrina federalista s’integrano a vicenda, procedono spesso di pari passo, e costituiscono insieme congiunti il suo patrimonio ideale.

Il più genuino fra i federalisti del nostro passato, Carlo Cattaneo, condusse parallelamente la battaglia per gli Stati Uniti d’Italia e per gli Stati Uniti d’Europa.

Considerato lo Stato Totalitario come la degenerazione o l’esasperazione dello Stato Moderno, non vi era alcun dubbio che esso avesse portato alle estreme conseguenze il dogma

dell'assolutezza del potere statale tanto nei rapporti tra governanti e governati quanto nei rapporti tra i differenti popoli.

Era stato ad un tempo dispotico e imperialistico.

Nonostante ciò, bisogna riconoscere che il Movimento Federalistico sin dal suo inizio concentrò la sua attenzione particolarmente, se non addirittura esclusivamente, su uno dei due aspetti, quello esterno*.

* Ossia sull’idea dell’Unità Federale.

Dell’aspetto interno*,

* L’idea della Confederazione, delle autonomie locali.

che si risolse poi nel programma democratico dell’auto-governo, non vi è traccia nel Manifesto

nella prefazione con cui fu presentato da Eugenio Colorni.

In uno dei primi numeri de L’unità europea a Mario Alberto Rollier che sottolineava l’esigenza di riconoscere accanto al Federalismo sopra-nazionale il Federalismo infra-nazionale, Altiero Spinelli rispose spostando ancora una volta l’accento sul primo.

Umberto Campagnolo condannò addirittura il Federalismo delle Autonomie Locali come un falso Federalismo che andava a ritroso della storia.

Sta di fatto che ora più che mai nel linguaggio politico per Federalismo s’intende quello sopra-nazionale e non quello infra-nazionale.

Storicamente, poi, se di rivoluzioni in senso federalistico si può parlare, queste sono sempre state nel senso della costruzione di un nuovo Stato

più grande (e lo sarebbe stata anche quella italiana preconizzata da Carlo Cattaneo), non della dissoluzione di uno Stato Unitario*.

* Come invece ha sostenuto fino all’altro ieri in Italia la dottrina della Lega Nord di Umberto Bossi con evidente ignoranza della distinzione tra l’ideale federalista e quello confederativo (a cui unicamente si appellava).

Non è difficile spiegare le ragioni di un certo disinteresse dei nuovi movimenti federalisti per l’aspetto interno dell’idea federale.

 

Questo si risolveva in fondo nel problema del decentramento regionale dell’auto-governo locale, della libertà dal basso.

 

Come tale era un problema comune più o meno a tutti i partiti politici.

Tra le risposte alle sfide del Totalitarismo quella dell’Autonomia*

* Cioè della libertà e dell’indipendenza dei diversi popoli europei che erano stati sottomessi al Nazismo Tedesco.

era la più naturale e immediata.

Non altrettanto si poteva dire per il Federalismo Europeo. Esso si presentava come la soluzione di un problema specifico in una situazione storica specifica.

Soprattutto aveva un carattere di rottura che il programma dell’auto-governo non aveva.

Il problema dell’auto-governo*

* Auto-governo delle singole Nazioni Europee, cioè degli Stati Nazionali Sovrani europei che erano esistiti fino a quel momento.

era da tempo iscritto nella dottrina della democrazia europea*.

* Vedi il Principio di Autodeterminazione dei Popoli promosso dalla dottrina democratica agli inizi del XX secolo d. C.

Il problema del superamento del vecchio Stato Nazionale in un nuovo Stato non più nazionale era, invece, una novità quasi assoluta: uno dei pochi precedenti che si potevano invocare, quello della formazione degli Stati Uniti d’America (del 4 Luglio 1776), era avvenuto tra gente dalle comuni origini e dalla stessa lingua inglese, e in una situazione storica così diversa da essere incomparabile.

Se l’auto-governo era un impegno, il Federalismo Europeo era una scommessa, un gioco la cui posta era molto più importante e anche, come i fatti poi hanno dimostrato, più incerta.

Pur lasciando da parte il Federalismo Interno, i bersagli principali del Federalismo Esterno*

* Cioè del Federalismo mirante ad istituire l’Unità Europea.

erano comunque non uno ma due: la Sovranità Assoluta da una parte e lo Stato Nazionale dall’altra.

Anche se i due problemi sono strettamente connessi, tanto connessi che spesso (ma a torto) vengono confusi, conviene tenerli distinti*.

* Il Principio della Sovranità Assoluta dello Stato viene elaborato dai teorici dell’Assolutismo e si contrappone ai princìpi che sono invece contenuti nella Teoria della Sovranità Limitata dello Stato professati dal Liberalismo Politico.

Il principio o il dogma della sovranità assoluta, della summa potestas superiorem non recognoscens, sorge prima e indipendentemente dalla formazione degli Stati Nazionali, così come il Principio di Nazionalità che sommuove il sistema politico

europeo dalla Rivoluzione Francese (1789) sino alla Prima Guerra Mondiale (1914-18), mira alla formazione di Stati, sì indipendenti, ma non esclusivisticamente sovrani, anzi comprende generalmente nel suo seno una tendenza verso la creazione di un sistema internazionale nuovo, fondato non più sull’equilibrio ma sull’interdipendenza degli Stati stessi.

Con ciò non si vuol dire che il Principio della Sovranità Illimitata e il Principio dello Stato Nazionale non siano destinati ad incontrarsi, a fondersi, a sorreggersi e a rafforzarsi a vicenda.

Per un verso, lo Stato Assoluto, che nasce dalle ceneri della Società Medioevale, si serve dell’idea di Nazione, cioè dell’idea di una comunità spirituale, o etnica, o culturale, che in realtà non esiste, per rafforzare la propria compagine e quindi il proprio potere (il patriottismo diventerà, scaduta la religione come forza di coesione dello Stato, la nuova religione civile).

Per un altro verso, il Principio di Nazionalità, diventato Nazionalismo*,

* Nazionalismo: la propria nazione deve schiacciare e sottomettere le altre nazioni con una politica estera aggressiva.

si appropria della concezione dello Stato-potenza e tende a servirsene per realizzare il proprio programma espansionistico.

L’ideologia della Nazione, come ha più volte mostrato Mario Albertini, è uno strumento per l’edificazione del grande Stato Assoluto così come il grande Stato Assoluto, una volta costituito, diventa la base reale, la struttura portante, per una politica nazionalistica aggressiva.

La compenetrazione più stretta tra il dogma della Sovranità Assoluta e il Principio Nazionale si verificò con l’avvento degli Stati fascisti.

Per restare in Italia, nella dottrina fascista era avvenuta una convergenza di idee statalistiche-assolutiste e di idee nazionalistiche.

Per le prime, la Nazione era un prodotto dello Stato, per le seconde lo Stato un prodotto della Nazione.

Giovanni Gentile, che da buon hegeliano era non nazionalista ma statalista (per Hegel, o per lo meno per l’Hegel maturo, i soggetti della storia universale sono gli Stati, non le Nazioni), espresse chiaramente il proprio punto di vista in polemica coi nazionalisti nell’introduzione alla voce Fascismo della Enciclopedia italiana: "Non è la Nazione a generare lo Stato, secondo il vieto concetto che servì di base alla pubblicistica degli Stati Nazionali del secolo XIX. Anzi la Nazione è creata dallo Stato, che dà al popolo, consapevole della propria unità morale, una volontà, e quindi un’effettiva esistenza".

I nazionalisti dicevano perfettamente il contrario: essere la Nazione, l’unità spirituale ed etica della Nazione, il fondamento, l’unico fondamento, della potenza dello Stato.

Nonostante questa convergenza pratica, il dogma della Sovranità Assoluta e il Principio Nazionale avevano avuto origine e funzione storiche diverse e debbono, in un’analisi concettuale (che deve essere qualcosa di diverso da un documento politico), essere tenute distinte, se si vuol individuare con maggior precisione il duplice fronte della battaglia Federalista, cioè da un lato lo statalismo (l’Assolutismo), ovvero la pretesa dello Stato, qual è venuto crescendo negli ultimi secoli, a non riconoscere limiti al proprio potere nei confronti degli altri Stati, dall’altro il nazionalismo, ovvero la pretesa della Nazione di essere considerata come l’unico principio motore dello Stato.

I due motivi polemici, in effetti, sono nei documenti del Movimento continuamente intrecciati, anche se prevale (il che non avviene a caso ed ha le sue conseguenze) il primo, cioè la polemica contro la sovranità assoluta.

ll Manifesto di Ventotene (1941) inizia parlando del Principio Nazionale e della sua degenerazione e subito dopo aggredisce, senza un reale distacco, il problema della Sovranità Assoluta, che intende, unendo i due problemi in uno, come sovranità assoluta degli Stati Nazionali.

La necessità analitica di tenere distinti i due problemi nasce dalla considerazione che il superamento della Sovranità Assoluta conduce allo Stato Federale, il superamento del Principio Nazionale conduce all’idea di Europa*.

* Io avrei scritto: "La necessità analitica di tenere distinti i due problemi nasce dalla considerazione che il superamento della Sovranità Assoluta conduce allo Stato Liberale, il superamento del Principio Nazionale conduce all’idea di Federazione Europea, ossia all’idea di Stati Uniti d’Europa".

E il movimento che sorge a Ventotene è insieme federale ed europeo*.

* Io avrei scritto: "E il movimento che sorge a Ventotene è insieme liberale e federale".

Schematicamente, il Principio Federale è la forma istituzionale, l’Europa è il contenuto storico che dovrà calarsi in quella forma.

Insisto sulla distinzione dei due momenti perché la specificità del Movimento Federalista Europeo sta proprio nella loro congiunzione.

Da un lato, il meccanismo dello Stato Federale può applicarsi a una realtà diversa dall’Europa: basti pensare all’idea della Federazione Mondiale che nasce ad un tempo con il Federalismo Europeo, e alle federazioni che si vanno tentando fra gli Stati del mondo arabo.

D’altra parte, l’idea d’Europa può attuarsi storicamente in forme diverse da quelle dello Stato Federale: basti pensare all’Europa delle patrie, o dei governi, o delle comunità, che è poi l’Europa, piaccia o non piaccia, di oggi (Anni Settanta).

Quando il Movimento afferma la necessità della Federazione Europea afferma ad un tempo che quel superamento del Principio Nazionale in cui consiste l’Europa non può avere altra forma istituzionale che lo Stato Federale, oppure che lo Stato Federale per essere produttivo di effetti benefici deve avere un certo ambito territoriale che è quello europeo e non, per esempio, quello mondiale o intercontinentale.

Ho detto che dei due obiettivi del Movimento il primo ha nei documenti un rilievo maggiore.

Si guardino le tesi politiche uscite dalla riunione milanese dell’Aprile 1943, che è considerata l’atto di fondazione del Movimento Federalista Europeo.

Il tema di fondo è il tema del trasferimento dei poteri dallo Stato Nazionale a una Federazione che comprenda nel suo seno più Stati: "Militarismo, dispotismo e guerra possono essere eliminati solamente creando una Federazione Europea alla quale siano trasferiti quei poteri sovrani che concernono gli interessi comuni di tutti gli europei e che in mano agli Stati Nazionali sono oggi strumenti di rovina".

Dei due motivi ispiratori, quello Federalistico e quello Europeistico, il primo è ampiamente spiegato, il secondo è per così dire presupposto.

Non senza una ragione del resto.

Non per riprendere una polemichetta in cui mi trovai coinvolto in uno dei primi numeri de L’ unità europea: che cosa fosse uno Stato Federale era chiaro, quale fosse il meccanismo del suo funzionamento era noto, salvo poi a stabilire quale dovesse essere il rapporto di forza tra gli Stati membri e lo Stato Centrale; meno chiaro, meno noto, era che cosa fosse l’Europa, quali fossero i suoi limiti geografici o economici o addirittura ideologici.

Era perfettamente chiaro che un’associazione di Stati non era uno Stato Federale, che uno Stato super-nazionale formato dall’alto e non dal basso non era uno Stato Federale, che uno Stato Federale per essere tale doveva avere certi poteri, in primis quello dell’organizzazione della forza coattiva.

Non era altrettanto chiaro se l’Europa senza Inghilterra o senza Unione Sovietica, con o senza

Spagna, con o senza i Paesi Scandinavi, fosse ancora Europa*.

* Questo documento (1973) è ormai datato. Gli ideali liberali propugnati dall’europeismo di oggi (2016) sono inconciliabili con quelli dittatoriali vigenti nella Federazione Russa di Vladimir Putin.

Il concetto di Stato Federale era un concetto rigoroso, quello di Europa era evanescente, tanto carico di valore emotivo quanto povero di significato descrittivo, salvo quello geografico che peraltro era l’unico che non veniva preso in considerazione.

 

La miglior riprova del prevalere del motivo federalistico su quello europeistico è nel fatto che mentre, come ho già ricordato, l’interesse della letteratura del Movimento per i precedenti tentativi o progetti non sempre federalisticamente puri degli Stati Uniti d’Europa è assai scarso, l’opera che fa testo e a cui il Movimento continuamente si

richiama come a fonte perenne d’ispirazione e di modello di azione è il Federalist (Il Federalista di Hamilton, Jay e Madison), che è il liber sapientiae dello Stato Federale.

 

Proprio il contrario di quello che era accaduto nell’Ottocento, in cui i movimenti pacifisti erano stati molto più europeisti che federalisti: ma allora era chiaro come dovesse funzionare una Federazione Europea.

Si deve ammettere che l’idea d’Europa è cambiata in un secolo profondamente: l’immagine che ne avevano gli europeisti ottocenteschi era quella di una grande forza in espansione; i federalisti d’oggi la vedono e non possono non vederla se non come una cittadella assediata.

Immagine tendente all’amplificazione la prima, restrittiva la seconda.

Mazzini diceva Europa ma pensava Umanità: "La Giovane Europa - scriveva - riunisce le associazioni repubblicane tendenti a un fine identico che abbraccia l’Umanità".

Oggi diciamo Europa e pensiamo a un pezzo più o meno grande del Vecchio Continente.

Nella critica alla Sovranità Assoluta e nelle conseguenze che ne venivano derivate stava d’altronde, e sta a mio parere tuttora, l’importanza teorica del Movimento Federalista Europeo.

Dietro questa critica c’è un’idea precisa, e sinora non smentita, della guerra e delle sue cause, e di conseguenza dei rimedi necessari per ottenere una pace stabile.

Lascio da parte le dottrine etico-religiose che vedono la principale causa delle guerre in qualche carattere della natura umana - dottrina il cui rovescio secolarizzato è costituito dalle interpretazioni psicologiche o psicanalitiche della guerra: le lascio da parte non perché siano filosoficamente o eticamente trascurabili, ma perché rispetto alla dimensione politica del problema, esse hanno una funzione collaterale, dal

momento che ispirano generalmente movimenti individuali di resistenza alla guerra, come quelli degli obiettori di coscienza o dei gruppi antimilitaristi o non-violenti, e non hanno ancora assunto un ruolo politicamente determinante.

Non vi è stata nel XIX secolo dottrina politica che non abbia avuto la sua teoria della guerra e rispettivamente della pace: la dottrina liberale e liberista vedeva la principale causa delle guerre nella politica economica mercantilistica - protezionistica - degli Stati Assoluti e il rimedio nell’apertura delle frontiere al libero commercio internazionale (si tratta in fondo anche in questo caso di una limitazione, se pur proveniente dalla società civile, alla Sovranità Assoluta dello Stato); la dottrina democratica riteneva che l’unica responsabilità delle guerre europee degli ultimi secoli fosse il dispotismo, l’essere il sommo potere non controllato democraticamente dal basso, e credeva fermamente che una volta che il potere fosse stato nelle mani del popolo, le guerre sarebbero cessate d’incanto (quale interesse

avrebbero infatti avuto i popoli ad ammazzarsi tra di loro?); uno dei princìpi comuni a tutte le correnti del pensiero socialista fu che le guerre fossero il prodotto del sistema capitalistico e più in generale di un sistema economico che era fondato sull’esaltazione della proprietà individuale fomentatrice di discordie, e che le guerre sarebbero scomparse quando un nuovo sistema fondato sulla proprietà comune per lo meno dei mezzi di produzione avrebbe segnato il trionfo dell’internazionalismo proletario.

Definita la guerra come conflitto tra Stati Sovrani, la cui soluzione è affidata alla forza, i liberali classici vedevano prossima una società internazionale in cui sarebbero rimasti gli Stati e i loro conflitti ma non l’esigenza di ricorrere alla forza per risolverli (di qui la grande importanza data all’arbitrato internazionale, cui rivolsero le loro speranze le leghe pacifiste nella seconda metà del XIX secolo); i democratici erano convinti che sarebbero rimasti gli Stati ma sarebbero venute meno tra Stati fondati sulla Sovranità Popolare le

ragioni di conflitto; infine i socialisti prevedevano e predicevano che in una società socialista tutta dispiegata sarebbero addirittura scomparsi gli Stati stessi.

Mai previsioni si sono dimostrate più fallaci, almeno da quel che possiamo constatare se pure col senno di poi nell’anno di grazia 1973: pur non ipotecando il futuro, non possiamo fare a meno di osservare che l’unico pacifismo realistico che l’attuale situazione internazionale ci consente è quello che radica le proprie speranze non nella scomparsa ma nell’equilibrio del terrore (cioè in un terrore moltiplicato)*.

* L’autore si riferisce alla Guerra Fredda e al rischio di un potenziale conflitto nucleare.

Ciò che le dottrine pacifiste del XIX secolo avevano dimenticato a causa della loro fiducia nell’immancabile progresso era che la ragion sufficiente delle guerre, cioè del fatto che un

conflitto tra Stati può trasformarsi in conflitto armato, non è una certa politica economica piuttosto che un’altra, o un certo tipo di governo, o un certo sistema sociale, ma il fatto che la società internazionale è una società in cui non è avvenuto quel processo di concentrazione di potere e di monopolizzazione della forza coattiva che ha dato origine allo Stato, cioè è una società composta di enti che detengono ciascuno il monopolio del potere coattivo nell’ambito del proprio territorio e nei riguardi degli altri Stati, tra i quali quindi i rapporti in ultima istanza sono rapporti di forza.

La dottrina federalista si distingue rispetto alle altre dottrine pacifiste per la consapevolezza che, sino a che durerà un sistema internazionale di Stati Nazionali Sovrani fra i quali i rapporti sono in ultima istanza rapporti di forza, la guerra, cioè la soluzione di un conflitto attraverso la forza, è possibile, perché in alcuni casi lo Stato nella sua sovranità illimitata ritiene, e nessuno se non la maggior forza dell’altro gli può impedire di ritenere, che sia l’unica soluzione, e per il fatto di essere

l’unica, cioè di essere presa in stato di necessità, sia anche giusta.

Non c’è dubbio che per quel che riguarda il problema delle cause della guerra, il Federalismo Europeo si trovi nel solco del pensiero politico realistico che da Machiavelli a Hobbes, da Spinoza a Hegel, da Marx a Meinecke o a Max Weber, ha demitizzato la concezione idealizzante dello Stato - lo Stato come societas perfecta che provvede al bene comune dei suoi membri - per considerarlo, analizzarlo e qualche volta adorarlo come la massima manifestazione in terra di una potenza irresistibile*.

* Qui l’autore si riferisce alla concezione dei cristiani medievali (ad esempio quella contenuta in "De Regimine Principum" di Tommaso d'Aquino) in cui si teorizzava che lo Stato potesse essere uno strumento della religione della Chiesa, e dunque i vari re venivano considerati come impiegati del Papa e difensori della morale cristiana tramite le leggi dello Stato. Invece con Machiavelli e gli altri si "secolarizza" lo Stato, cioè lo si divide dalla Chiesa: le due

istituzioni devono essere "laicamente" divise con compiti distinti (il che non vuol dire necessariamente contrari). Poi all’interno di questa concezione laica d’indipendenza dello Stato dalla Chiesa ci sono varie teorie: una è quella liberale che vuole limitare i poteri dello Stato (ma non per tornare a subordinarli alla Chiesa come durante il Medioevo), l’altra è quella di Hegel che adora lo Stato e dunque vuole dargli un potere assoluto (e Karl Popper ha criticato Hegel ma non per criticare la laicità dello Stato).

In questo senso il Federalismo Europeo non è propriamente una dottrina pacifista, non tanto perché a rigore, se è valido il suo sillogismo (la causa delle guerre è la sovranità assoluta dei vari Stati Nazionali, quindi per abolire le guerre bisogna limitare la loro sovranità) la conseguenza necessaria dovrebbe essere non la Federazione Europea ma la Federazione Mondiale (ideale che rimaneva, sì, sullo sfondo, ma non era diventato ancora un programma politico), ma perché la pace non viene considerata in seno al Movimento Federalista sin dai suoi inizi come il fine ultimo ma come il presupposto, la conditio sine qua non, per la realizzazione di altri fini considerati come

preminenti, quali la libertà politica, la giustizia sociale, lo sviluppo economico e via discorrendo.

Nelle Tesi si legge: "Indipendenza nazionale, libertà, socialismo saranno cose vitali e benefiche solo se avranno come premessa - e non semplicemente come conseguenza - la Federazione, vale a dire un ordinamento politico che garantisca la pace e la giustizia internazionale".

Che la Federazione sia la premessa e non la conseguenza non vuol dire che sia l’unico obiettivo da perseguire: vuol dire che è l’obiettivo da perseguire per rendere possibile l’attuazione di altri fini considerati come irrinunciabili, che devono caratterizzare la nuova società.

Lo dice chiaramente il Manifesto: "Un’Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna di cui l’Era Totalitaria rappresenta un arresto".

Ciò che se mai, nel programma del Movimento, non corrispondeva alla tradizione del realismo politico - ma i suoi ideatori ne erano perfettamente consapevoli - era la concezione che il Federalismo Europeo riproponeva dell’origine di un nuovo Stato.

Era la concezione illuministica e razionalista (Hegel avrebbe detto propria dell’intelletto astratto) dell’origine dello Stato Federale, secondo cui lo Stato nasce dal contratto sociale.

Era con altre parole la concezione giusnaturalistica che aveva avuto corso e fortuna sino a Rousseau: siccome gli individui singoli (i federalisti avrebbero detto gli Stati singoli) non possono sopravvivere nello stato di natura, si mettano d’accordo per uscirne o per istituire un potere comune.

A parte gli Stati Uniti d’America (1786), nessuno Stato era mai nato in questo modo.

Al principio del secolo XIX i principali pensatori politici irrisero a questo patto che nessuno aveva mai visto: Bentham come von Haller, Saint-Simon come Comte.

Hegel disse che l’idea che lo Stato fosse nato da un contratto ne ledeva la maestà.

Lo storicismo romantico sostenne che i popoli si formano lentamente attraverso una continua e imprevedibile mescolanza di lingue, leggi e costumi, non sorgono d’un subito per un accordo simultaneo come una società commerciale.

I realisti hanno certamente ragione ma i federalisti lo sapevano e lo sanno a maggior ragione ora dopo trent’anni. Non per questo dovevano rinunciare alla loro lotta. Altro è il giudizio storico, altro il giudizio politico.

Anche Locke aveva torto nel frugare la Storia Antica e Moderna per cercarvi tracce di Stati nati da un contratto sociale; anche Rousseau, quando scriveva, respinte tutte le teorie sull’origine degli Stati, che bisognava risalire a una prima convenzione.

Eppure Locke e Rousseau aprirono la strada al rivolgimento d’idee che condusse alla Rivoluzione Francese (1789).

Proprio a causa di questo duplice aspetto realistico*

* Visione storica in base alla quale i popoli si formano lentamente attraverso una continua e imprevedibile mescolanza di lingue, leggi e costumi: non sorgono d’un subito per un accordo simultaneo.

e idealistico*

* Il contratto sociale.

della propria dottrina, il Federalismo si trovò sin dall’inizio a dover rispondere a due diversi attacchi: l’uno dei funzionalisti*

* Conservatori abbastanza cinici e miopi. Essi credevano in una nuova versione tecnocratica, efficentistica ed economicistica di un Liberismo Economico miope. Diedero così spazio ad attacchi condotti dai reazionari.

che lo rimproverarono di idealismo, cioè di eccessiva avventatezza, l’altro dei marxisti ortodossi che l’accusarono di falso realismo, cioè di eccessiva moderazione.

Se pur da parti opposte, tanto i funzionalisti quanto i marxisti respingevano quello che entrambi consideravano il fondo illuministico del Movimento.

La teoria funzionalistica che avrebbe avuto in seguito molta fortuna, aveva avuto allora il suo principale alfiere in David Mitrany, professore a

Princeton, il quale in un libretto intitolato A Working Peace System, del 1944, che suscitò una qualche discussione, come quella resa pubblica sotto gli auspici del World Unity Movement in un opuscolo intitolato World Organisation. Federal or Functional?, contrapponendo il metodo formale*,

 

* Da lui considerato erroneo, promosso dal Federalismo Europeo: cioè la creazione di un nuovo Stato internazionale a tavolino fatta dai vincitori del Secondo Conflitto Mondiale (1939-45).

 

che pretende di risolvere il problema della trasformazione dei rapporti internazionali in un mutamento della struttura giuridica, al metodo funzionale*

 

* Metodo che è più attento ai processi graduali della storia umana.

 

che persegue lo stesso scopo lungo la via dell’unificazione spontanea e graduale delle principali attività economiche e amministrative,

sostenne che la superiorità del secondo metodo sul primo derivava dal fatto che il primo è un procedimento artificiale e in definitiva arbitrario, che pretende di forzare la mano alla storia, il secondo è un procedimento naturale, che segue passo passo l’evoluzione necessaria e quasi fatale dell’agglomerarsi degli apparati della direzione economica e amministrativa in uno spazio più ampio di quello occupato sino allora dagli Stati Nazionali, e dà vita a organismi destinati a trasformarsi dall’interno senza alcun bisogno di interventi esterni violenti e radicali.

 

Poiché l’idea centrale del Mitrany era la fine del primato della politica, oggi ci appare più chiaro di quel che ci apparisse allora che il funzionalismo era una prima avvisaglia della concezione tecnocratica del potere che aveva avuto proprio in quegli anni con la rivoluzione dei managers di James Burnham (1941) una fortunata riesumazione.

Quanto alla polemica marxista contro il Federalismo Europeo, questa fu in quegli anni riassunta e volgarizzata nel libro di Pritt, Federal Illusion, del 1940, il quale attaccò il Federalismo come dottrina reazionaria e riprese il tema classico delle cause esclusivamente economiche delle guerre: "L’anarchia che noi vediamo - scriveva - è soltanto uno degli effetti del sistema economico, e le guerre, se noi le isoliamo per un momento dall’anarchia generale di cui fanno parte, non sono altro che l’effetto della stessa causa economica" (p. 77).

Non diversamente John Strachey in un saggio intitolato Federalism or socialism? , pure del 1940, considerò i due termini come un’alternativa entro la quale si doveva scegliere, perché, mentre il socialismo rappresentava il progresso, il Federalismo Europeo rappresentava gli interessi della conservazione.

Una delle risposte a queste tesi venne in anticipo da Lionel Robbins in opere troppo largamente note perché ci sia bisogno di ricordarle.

Già nel 1937, nell’opera Economic planning and international order, diceva: "La prima cosa di cui il mondo ha bisogno non è una rivoluzione economica ma una rivoluzione politica". Per questo "è necessario che gli Stati Nazionali sottomettano certi loro diritti ad un’autorità internazionale. Il diritto di dichiarare la guerra e il potere di farla devono essere aboliti... Non si deve giungere a un’alleanza né a una completa unificazione, ma a una Federazione".

All’alternativa posta da Pritt e da Strachey rispose nel 1943 da un punto di vista socialista Barbara Wootton, con un saggio pieno di "common sense" britannico, in cui dopo aver detto che "l’idea che si debba raggiungere anzitutto il socialismo, e che, fatto ciò, tutto quanto concerne i rapporti

internazionali si sistemerà da sé, è un’idea che ignora le lezioni dell’esperienza*"

* Infatti gli Stati Socialisti come, ad esempio, lo Stato Nazista e quello Sovietico, erano assai favorevoli a scatenare guerre totali.

(e chi pronunciava queste parole non poteva prevedere che sarebbe venuto un tempo in cui la maggior minaccia di guerra universale sarebbe venuta dallo scontro con i due primi grandi Paesi socialisti della storia*),

* Ossia l’Unione Sovietica e la Cina comunista in periodo di Guerra Fredda.

sintetizzò l’argomento più stringente in questa formula: "Il socialismo internazionale non può resistere di fronte all’anarchia internazionale*".

* Ossia: l’idea del socialismo internazionale non sopravvive in un mondo dominato da Stati Nazionali Sovrani.

Formula che l’esperienza storica ha confermato al di là di ogni possibile previsione.

Il Movimento Federalista Europeo non ebbe allora soltanto avversari da cui difendersi: ebbe anche alleati autorevoli che, pur provenendo da altre sponde erano approdati alla stessa riva seguendo ciascuno la propria via, con ciò dimostrando nei fatti che, per chi non intendeva disgiungere l’obiettivo della pace stabile da quello della libertà politica e della democrazia, la strada era quasi obbligata.

Almeno due di questi federalisti indipendenti meritano di essere ricordati: Luigi Einaudi e Silvio Trentin.

Il primo coerentemente fedele per tutta la vita ad alcuni princìpi tenuti ben fermi dal liberalismo classico, l’altro arrivato nel travaglio dell’esilio in Francia all’ideazione di una società insieme

socialista e autonomistica, di cui il principale ispiratore era Proudhon.

Einaudi, in due memorabili articoli del Gennaio e del Dicembre 1918, aveva messo in guardia i governi alleati dal cullarsi nel vagheggiamento di una futura Società delle Nazioni se questa avesse dovuto attenersi al vecchio modello confederale e non a quello nuovo dello Stato Federale; quindi, appellandosi all’esempio delle tredici colonie americane, dichiarava che "tra le idee feconde di male, se condotte alle loro estreme conseguenze, quella del dogma della sovranità assoluta e perfetta in sé stessa è sommamente malefica".

Nel 1943 e 1944 in due saggi magistrali sostenne che i problemi economici del futuro non avrebbero potuto essere risolti se non in un assetto federale, di cui tracciò limpidamente le linee principali.

Nel discorso pronunciato all’Assemblea Costituente il 29 luglio 1947 in favore della ratifica del trattato

di pace in amichevole polemica con Benedetto Croce, ribadì la sua critica alla Società delle Nazioni, affermando che l’esperienza storica aveva ormai dimostrato che "le mere società di nazioni, le federazioni di Stati Sovrani, sono impotenti ad impedire, anzi per lo più sono fomentatrici di guerre tra gli stessi Stati Sovrani federati".

Ripeté che l’unità sopra-nazionale era diventata ormai necessaria all’Europa e bisognava scegliere "tra la spada di Satana e la spada di Dio": o "l’idea della dominazione colla forza bruta" o "l’idea eterna della volontaria cooperazione per il bene comune".

Sin dal 1933, in un libro intitolato Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzione, Trentin cercava una terza via tra Stati Uniti d’America e Unione Sovietica e la trovava nella sintesi di libertà individuale e proprietà collettiva che solo una struttura federale dello Stato con il suo principio cardinale di unità nell’autonomia poteva rendere possibile.

Dando vita al movimento della Resistenza francese "Libérer et fédérer", iscrisse nel primo numero del giornale che uscì il 4 luglio 1942 il programma degli Stati Uniti d’Europa.

Nel libro Stato, Nazione, Federalismo, pubblicato in edizione clandestina dal Partito d’Azione nel 1945, svolse un’analisi storica della formazione dello Stato Moderno mono-centrico per mostrarne la sua totale inadeguatezza di fronte ai compiti della ricostruzione post-bellica.

Pur mettendo l’accento più sulla distruzione interna dello Stato Nazionale Unitario che non sulla edificazione di uno Stato Federale sopra-nazionale, non dimenticò di avvertire che "all’infuori della Rivoluzione, della vera Rivoluzione, anticapitalistica e federalistica, non si vede proprio per qual prodigio l’Europa possa salvarsi" (p. 195).

Nel progetto, solo recentemente pubblicato, che egli redasse, di una costituzione italiana federale

l’articolo 1 diceva: "L’Italia è una Repubblica Federale e rivendica, in questa sua qualità, la dignità e il titolo di membro fondatore della Repubblica Europea" (la stessa formula che si trova in un progetto precedente di costituzione francese).

Oltre gli scritti dei fondatori del movimento, offre un particolare interesse anche teorico il saggio di Umberto Campagnolo, Repubblica federale europea, scritto nel Febbraio del 1945, che afferma l’esigenza del Federalismo partendo da una critica rigorosa del diritto internazionale, cui lo stesso Campagnolo, esiliato a Ginevra dove era stato allievo di Hans Kelsen e di Guglielmo Ferrero, aveva dedicato alcuni anni prima (1938) un libro, Nations et droit, che poneva per così dire le premesse teoriche per un superamento dell’ordine internazionale così com’era concepito all’epoca dalla prassi degli Stati e dalle teorie dei giuristi.

Contrapponendo un Federalismo utopistico a un Federalismo scientifico insisteva su uno dei punti

originali e fondamentali del Neo-Federalismo, cioè che la Federazione non poteva nascere se non dal basso, cioè da un processo rivoluzionario.

Federalismo Europeo e Resistenza antifascista si vennero dunque saldando tra di loro attraverso le più disparate convergenze culturali e politiche.

Nessuno oggi può fare la storia della Resistenza senza tener conto della prospettiva Federalista.

Non tutta la Resistenza fu Federalista. Ma certo il Federalismo fu un denominatore comune a vari gruppi che alla guerra di liberazione diedero vita; prova ne sia che i tre autori del Manifesto provenivano da regioni intellettuali e da esperienze politiche diverse.

[Il Federalismo Europeo] Fu uno dei punti programmatici del Partito d’Azione che riassumeva, più spesso amalgamati che fusi, tutti i motivi ideali

dell’antifascismo approdato alla guerra di liberazione.

Proprio attraverso l’esperienza della Resistenza esso si trasformò in programma d’azione.

 

È stato notato giustamente che l’antifascismo democratico, prima di essere messo alla prova della lotta armata, cioè di una guerra che si combatteva su tutti i fronti d’Europa, e aveva condotto in pochi anni all’asservimento del Vecchio Continente al dominio hitleriano, si era generalmente posto il problema del dopo-fascismo esclusivamente come problema di rinnovamento e di risanamento dello Stato Nazionale, accusato di antiche e recenti colpe storiche, come il risultato difettoso di una rivoluzione mancata.

Il Federalismo Europeo nasce invece nel crogiolo della lotta di liberazione, e pertanto è una componente essenziale, una parte viva della storia della Resistenza e ne ha seguito l’alterna fortuna.

I motivi ispiratori della Resistenza europea si possono disporre su tre livelli: secondo che si consideri come guerra di liberazione nazionale in nome dell’indipendenza, come guerra contro il fascismo e in genere contro il dispotismo in nome della democrazia liberale, come guerra per un nuovo assetto sociale contro ogni tentazione di restaurazione dell’antico regime.

L’ideale federalista si pone su questo terzo livello: la Resistenza non come restaurazione ma come innovazione.

La Resistenza che deve insieme chiudere e aprire, distruggere per costruire, essere negazione non in senso formale ma in senso dialettico. Che non deve limitarsi a vincere il presente ma deve inventare il futuro.

Il federalismo fu, ed è tuttora, una di queste invenzioni storiche.

Per questo è legato a quel momento creativo della storia che fu la Resistenza Europea.

Una delle più alte coscienze della Resistenza Italiana, Piero Calamandrei, scrisse:

"Tutte le strade che un tempo conducevano a

Roma conducono oggi agli Stati Uniti d’Europa".

 

 

 

 

 

Norberto Bobbio,

1973.

 

 

 

 

 

torna all'indice degli scritti sull'Europa a cura di Roberto Favero

 

 

 

Maurilio Lovatti main list of online papers