Franco Manni

 


Introduzione a Tolkien autore del secolo

 

 

 

 

 

 

 

Tom Shippey

 

 

 

1. Un Critico filologo e antisnob

Thomas Shippey è, nel mondo,  il  più noto e il più stimato degli studiosi tolkieniani. Pubblichiamo ora in italiano[i] il libro che egli ha progettato di scrivere per indirizzarsi a un pubblico più vasto di quello per il quale aveva scritto The Road to Middle-Earth[ii], di cui riprende in  parte i contenuti, togliendo però l’apparato delle note, riducendo  le discussioni strettamente filologiche e glottologiche, e presentando la materia non più in maniera “diacronica” - cioè dal punto di vista delle fonti -  ma bensì “sincronica”, e cioè dal punto di vista del contesto storico e letterario del XX secolo.[iii]

E’, dunque, questo che presentiamo, un libro che più del precedente si può chiamare divulgativo ; ma, pur se così qualificato, il lettore troverà in esso etimologie dall’Inglese Antico, riflessioni sulle metafisiche boeziana e manichea, analisi dei moduli narratologici, discussioni di teoria letteraria sui generi e gli stili, genealogie tra i testi antichi, altomedievali e moderni, riferimenti precisi alle singole battaglie della Seconda Guerra Mondiale, confronti con autori come James Joyce, George Eliot. T. S. Eliot, Evelyn Waugh, riferimenti a specifici episodi della critica letteraria tra Anni Cinquanta e Anni Sessanta[iv].

Ma il libro è , comunque e davvero, un libro accessibile[v]  (e anche, almeno per il lettore tolkieniano, avvincente),  perché la prosa è sempre molto chiara, ogni riferimento culturale è collocato nel suo contesto ed è spiegato, ogni affermazione teorica è accompagnata da esempi concreti , ogni tesi interpretativa è dimostrata con lucidi schemi logici, non vi è nessun compiacimento snobistico nell’uso di termini tecnici.

L’autore ha insegnato Filologia Inglese medievale[vi] a Oxford con lo stesso programma di studi (syllabus) con cui la aveva insegnata Tolkien. In seguito è stato professore alla Università di Leeds, dove anche Tolkien  lo era stato all’inizio della sua carriera. Ha conosciuto personalmente Tolkien, col quale ha avuto una corrispondenza epistolare. Per i suoi studi tolkieniani ha ricevuto l’assistenza di Humphrey Carpenter[vii] e di Christopher Tolkien[viii]. Ora Shippey insegna alla Università di Saint Louis negli Stati Uniti.

Shippey è uno studioso accademico di cose medievali, ma è anche un “fan”, cioè un appassionato,  di fantascienza e di  fantasy (è stato curatore di due antologie : The Oxford Book of Science Fiction Stories, 1992 ; The Oxford Book of Fantasy Stories, 1994 ) e dell’opera narrativa @ di Tolkien in particolare, su cui ha scritto due libri, diversi saggi per riviste letterarie[ix], è intervenuto più volte con interviste ed articoli giornalistici[x] sui film di Peter Jackson, ha partecipato a varie convention di appassionati (come la Oxonmoot e la Eastercons. Author of the Century  è stato premiato @ alla con il World Fantasy Award del 2001). Senza alcuno snobismo.

Phil Kaveny ha scritto[xi] :

 

JJRT. Author of the Century è uno dei migliori  saggi , se non il migliore,  di critica letteraria di tipo accademico che io abbia mai letto su Tolkien, o su qualsiasi altro autore. Sono pienamente convinto che non sarò biasimato per questo uso di superlativi, poiché vi sono alcune persone (e forse ve ne sono molte) che credono che usare assieme, nella stessa frase, parole come ‘accademico’ e ‘interessante’ , sia una contraddizione in termini, come se si parlasse di un ‘papa liberale’ . 

 

2. Il Mondo e la Storia. Ossia la letteratura fantastica come letteratura engagée

 

The dominant literary mode of the twentieth century has been the fantastic

Tom Shippey 

Le storie di Tolkien sono fantastiche e per questo definite “letteratura d’evasione” dalla critica “mainstream”. E’ così? Shippey mostra che questa accusa è paradossalmente falsa, poiché molti autori di tipo fantastico della seconda metà del XX secolo (George Orwell, Clive S. Lewis, William Golding, Kurt Vonnegut, Ursula Le Guin, Terence Hambury White) trattano ampiamente - attraverso la modalità metaforica propria del genere fantastico -  argomenti pubblici e politici del mondo contemporaneo, mentre gli autori “mainstream” (quelli del romanzo ”realistico borghese” come per esempio James Joyce, Henry James, Marcel Proust, Virginia  Woolf) trattano di vicende private di individui, coppie, famiglie. Nel contesto di un secolo come il XX in cui le vite degli individui sono state attraversate dagli eventi politici come mai prima in qualsiasi altro momento della storia del mondo, possiamo chiederci – in ogni caso togliendo all’espressione qualsiasi connotazione peggiorativa - chi siano in realtà gli “scrittori d’evasione”.

Si prospetta dunque una soluzione molto paradossale e molto controcorrente a questo non secondario problema.

Shippey risponde abbastanza nettamente : scrittori come quelli del circolo di Bloomsbury, raccolto attorno a Virginia Woolf e G.E. Moore, non danno ragione di importanti  problemi specifici del XX secolo quali i regimi totalitari, i genocidi, le guerre mondiali.[xii] Sono dunque scrittori di questo tipo a poter essere chiamati “di evasione”.

Grandi problemi di rilevanza  pubblica (sia culturale, sia sociale, sia politica) spesso sono trattati – invece - dai così detti “romanzi storici”, di cui  Guerra e Pace di Tolstoi o i Promessi Sposi di Alessandro Manzoni costituiscono due antenati ottocenteschi[xiii]. I romanzi storici sono “realistici“, sì , ma non “ borghesi”- diversamente dagli ideali bloomsburiani - poiché non chiusi nelle anguste vicende del privato. I romanzi fantastici d’altra parte , se, come i “romanzi storici”, hanno anche essi la pretesa di parlare del bene e del male dei popoli e del mondo, vengono però fatti oggetto di una accusa specifica : quella di non essere realistici, di parlare di “cose che non esistono”. A questa accusa risponde Shippey : tutta la letteratura di fiction inventa persone e situazioni che non esistono e allora tutta dovrà essere condannata poiché non è storia, non è biografia.[xiv]

La modalità letteraria fantastica – nota Shippey – ha avuto tanto successo nell’ultimo cinquantennio perché oggi le persone sono maggiormente educate a leggere un testo in via metaforica, si sono cioè dirozzate rispetto alla abitudine primaria ed antica che è quella di leggere un testo alla lettera. Un lettore tolkieniano non si aspetta di veder cavalcare uno Spettro dell’Anello tra gli alberi di una foresta, ma capisce bene cosa possa significare il diventare “spettro” cioè depersonalizzato schiavo di una tossicodipendenza (“addiction”).

Non è l’evasione dal Mondo che le metafore della letteratura fantastica si propongono, ma spesso, al contrario, l’impegno a capire la storia del Mondo e - come nota Shippey – i loro autori spesso furono veterani dei combattimenti delle due Guerre Mondiali, (Tolkien, Lewis, Orwell, Golding, White[xv]), e trattano argomenti di profonda rilevanza pubblica nel loro secolo quali: il “male totale”, la mancanza di fede in una rivelazione religiosa, il relativismo culturale emergente dalla interazione tra i vari popoli del pianeta. Il racconto fantastico - per usare le parole di Shippey – porta 

“i lettori in un mondo che appare del  tutto non famigliare, ma poi fa loro vedere che non è veramente così,  e che essi in questo mondo hanno un proprio Diritto di Nascita” 

Proprio la stessa operazione fa la narrazione della Storia degli Storiografi quando ci presenta la civiltà degli Antichi Romani o le imprese dei Bucanieri del XVII secolo, per fare due esempi dalla storia reale : essa ci fa capire che ciò che sembra apparentemente alieno ed esotico e materia per leggende o aneddoti, è in realtà “reale”,  cioè tassello costitutivo del  mondo in cui viviamo, origine magari remota ma necessaria di fatti, costumi, istituzioni del presente.  E così – per fare un esempio tolkieniano – Bilbo è lo hobbit anticonformista che, almeno alla fine della sua carriera, è riuscito a non degradare i ricordi della Storia passata a folklore per bambini (o anche , aggiungerei  io, a vuoto nozionismo per adulti), e il suo Libro Rosso dei Confini Occidentali è una via che, a chi vuole imboccarla, permette la fuoriuscita dai pregiudizi e delle ignoranze tipiche della angusta società hobbit.

E, in pratica e per noi lettori di oggi, Shippey ricorda molte evidenti connessioni tra personaggi e scene Il Signore degli Anelli e la storia recente : per esempio tra Saruman e i molti intellettuali europei e la loro “trahison des clercs” a favore di Hitler e di Stalin ; tra le perplessità di Frodo all’inizio del viaggio e il quietismo di Neville Chamberlain, fautore della politica dell’appeasement verso Hitler ; tra i i ricordi di Elrond Mezzelfo riguardanti la  precedente vittoria su Sauron ed il rinnovellarsi del conflitto europeo tra Prima e la Seconda Guerra Mondiale ; tra la faticosa ed inefficace costruzione del vallo di Rammas Echor davanti a Minas Tirith e l’illusione di sicurezza data alla Francia dalla Linea Maginot ; tra le dure clausole di pace dettate da Bocca di Sauron e il dominio hitleriano sul suolo francese annesso al Reich dopo la débacle mentre veniva costituito il “governo fantoccio” di Vichy in quello non annesso ; tra la Contea dominata da Sharkey e lo spettro – sospeso sull’Europa del secondo dopoguerra – di un comunismo di tipo sovietico tanto retorico nei proclami quanto banditesco nei fatti ; tra gli sradicamenti arborei e gli inquinamenti di Saruman e i disastri ecologici prodotti dal comunismo nei Paesi della Europa Orientale. ; tra l’odio competitivo (e disperato) di Denethor verso Sauron e la corsa occidentale agli armamenti nucleari – corsa tendenzialmente suicida (“better dead than red”) – seguita al 1947.[xvi]

Niente male per uno scrittore spesso frettolosamente definito “di evasione” !

 

 

3. i Mostri e i Critici

 

Tolkien has challenged the very authority of the literati, and this is never forgiven

     Tom Shippey

 

Certa gente non dimentica mai, tutto qui, e gran parte della critica letteraria ha la sola funzione di consolidare l’inaccessibilità di una casta che è antica quanto lo snobismo intellettuale che la nutre[…]. È  un imbrattacarte! Esclamerebbero indignati. Un imbrattacarte con delle pretese! La specie peggiore! La specie di coloro che pensano di farsi passare per uno di noi !

                                           Stephen King, On Writing

 

Già nel suo saggio (capitale, per la sua influenza determinante sulla successiva letteratura specialistica) sul poema anglosassone altomedievale Beowulf, Tolkien aveva ben descritto la “mostruosità” di quei critici beowulfiani che snobbavano l’importanza dei Mostri (Grendel e il Drago) , quando quel poema è precisamente incentrato sulla lotta tra l’Umanità e i Mostri. Il problema si ripropone per la stessa opera di Tolkien : i “mostri” (Elfi, Hobbit, Istari, Orchi, Nani, Nazgul, Troll, Balrog) hanno fatto e fanno storcere la bocca a molti critici letterari, che non riescono a percepire come “serio” un romanzo che li abbia come protagonisti.

Lungo i vari decenni la critica tolkieniana ha  avuto un percorso con fasi diversificate[xvii], però dagli inizi fino ad oggi osserviamo, tra gli altri, un dato costante : un forte e quasi impulsivo disprezzo en bloc per l’opera tolkieniana espresso da quella parte della critica che, via via, senza mai essere esatti, si può chiamare “accademica” o “ufficiale”[xviii].

Già nel 1961 Philip Toynbee prediceva che l’attenzione per Tolkien si sarebbe spenta molto presto in un “misericordioso oblìo” analogamente ad altre mode degli Anni Cinquanta come l’hula hoop . A chi, come me,  scrive nel 2003 non risulta che sia andata precisamente così !

Rimane diffusa però, tra i critici di oggi, l’ostilità ereditata da coloro che – seguendo la denominazione di Martin Green – Shippey chiama i “Sonnenkinder”, i Figli del Sole : convinti modernisti, provenienti dalle classi alte della società, spesso ricchi, spesso etoniani, spesso comunisti, ben inseriti come editorialisti in giornali e riviste, affetti da una cronica difficoltà a produrre opere letterarie proprie.

Il Critico ostile ha un suo primo ed esplicito argomento, cui ho già accennato : la letteratura fantastica non è seria proprio perché è fantastica. E Shippey facilmente risponde col notare come questo sia un pregiudizio peculiare del XX secolo, che , se applicato con rigore logico, dovrebbe far disprezzare l'Odissea e la Divina Commedia e il Macbeth. È questo, dunque,  un pregiudizio che mostra solamente una sensibilità estetica ristretta, ridotta a pochi e contingenti tasti del gusto.

Il Critico Ostile ha un secondo ed esplicito argomento : rimprovera a Tolkien di avere uno stile semplicistico e monotono, non studiato e non elaborato. E Shippey, compulsando i testi, mostra come Tolkien moduli lessico e sintassi secondo le scene e i personaggi, scriva  solo a volte e solo meditatamente  con uno  stile arcaizzante (anzi con degli stili arcaizzanti, diversi, per esempio, tra la civiltà di Gondor e quella di Rohan), usi il narratore multiplo come fa Conrad, costruisca la trama attraverso un intreccio (interlacement) molto complesso e strutturato, non solo per creare la suspense, ma anche per conferire una profonda “sensazione di realtà”, poiché nella realtà le singole persone sanno poco sia di ciò che accadrà a loro stesse, sia del perché stia accadendo ciò che sta accadendo, sia di ciò che contemporaneamente  accade alle altre persone che sono lontane. Uno tra i motivi del successo de Il Signore degli Anelli è che questa opera integra l’ambizione del romance con l’ironia del bourgeois novel[xix]. Anche se tutto ciò che non appartiene al bourgeois novel ha infastidito tutti quei critici che non frequentano la letteratura premoderna.

Il Critico Ostile ha un terzo ed esplicito  argomento : Tolkien è un autore di “genere”, il fantasy (o heroic fantasy o sword and sorcery) e si confonde con la pletorica massa degli scrittori dello stesso genere come Terry Brooks, Robert E. Howard, Michael Moorcock, Marion Zimmer Bradley, Gary Gygax e tantissimi altri, scrittori poveri di cultura, speso non originali nell’ispirazione, stereotipi nell’invenzione, prevedibili nell’intreccio, mediocri nello stile. E Shippey mostra le differenze tra Tolkien e gli altri autori fantasy in generale (la mancanza del lieto fine, l’idea di Provvidenza, la presenza di testi in versi dotati di effettiva qualità poetica, la presenza di una ricerca linguistica approfondita), e poi , concentrandosi in specifico (ed impietosamente) su Terry Brooks, mostra come nelle opere di questi l’Oggetto risolutore debba essere recuperato e non distrutto (e questo è un tratto stereotipo) e che in tutti i particolare materiali (razze, personaggi, scene) egli imiti così strettamente Tolkien da arrivare al plagio, e , dunque, non essendo affatto originale, possa sembrarlo solo a coloro che hanno  letto le sue opere prima di quelle del modello. Comunque, dopo la pars destruens, Shippey nota come gli autori fantasy post-tolkieniani abbiano imparato dal maestro a prendere sul serio il background mitico, geografico, linguistico, cronologico che sottostà alla vicenda narrata in primo piano, diversamente da autori del XIX secolo come William Morris.

Al di là di queste obiezioni di fatto che Shippey rivolge al terzo argomento, io vorrei ricordare l’obiezione di principio già avanzata cento anni fa da Benedetto Croce : il concetto di “genere letterario” - utile nella pratica degli editori, dei librai e dei bibliotecari - costituisce un errore in sede di critica letteraria perché, attraverso un raggruppamento accidentale, materiale ed estrinseco di opere diversissime tra di loro per ispirazione ideale, nasconde il valore del “fatto espressivo individuale". Con tale errore si potrebbe derubricare l’Odissea da capolavoro di Omero a “poema epico antico sui viaggi” come Le Argonautiche di Apollonio Rodio, o derubricare la Divina Commedia da capolavoro di Dante Alighieri a “medievale viaggio allegorico nell’al di là” come  il Libro delle Tre Scritture di Bonvesin da la Riva, o derubricare I Promessi Sposi da capolavoro di Alessandro Manzoni a “romanzo storico sul Seicento” come I Tre Moschettieri di Alexandre Dumas.[xx]

Il Critico Ostile ha un quarto ed esplicito argomento : gli autori come Tolkien difetterebbero di importanti qualità intellettuali e morali come per esempio (seguendo la falsariga del Writer’s Catechism di Toynbee) : la capacità di stare in disparte lontani dagli applausi del pubblico ; il riuscire a scrivere di soggetti apparentemente irrilevanti e bizzarri, ; di creare un artefatto che in primo luogo debba soddisfare il suo autore e potrebbe non soddisfare altri ; lo scrivere qualcosa di inaspettato dal mercato librario ; la creatività linguistica e la lotta personale contro quel “mezzo intrattabile” che è la Lingua Inglese Moderna ; l’occuparsi con attenzione e simpatia per cose “piccole e non appariscenti”; la rivolta contro la “illusione realistica”; le sperimentazioni con lo scorrere temporale della narrazione. E Shippey nota che – però – tutte queste caratteristiche si possono trovare proprio in Tolkien, e lo dimostra in concreto punto per punto. Citando poi altri critici “mainstream”  come Mark Roberts, Edmund Wilson, T. S. Eliot e Margaret Drabble,  Shippey osserva che non riuscirono a vedere che le qualità - che pur avevano loro stessi minutamente elencato per tratteggiare il ritratto di quell’ “Autore Rivelazione” da loro atteso e preconizzato – erano tutte presenti in Tolkien. E questa cecità è stata dovuta – secondo Shippey – al fatto che Tolkien “piaceva al popolo”, non era autore che potesse rimanere appannaggio di una (vera o presunta e sedicente) élite, non poteva fornire quel confortevole senso di superiorità nei confronti delle “masse” che essi desideravano[xxi].

E qui arriviamo al quinto e meno esplicito argomento del Critico Ostile : l’arte dovrebbe essere un prodotto per pochi, poiché può essere compresa ed apprezzata solo da poche persone di “sensibilità superiore”. Ecco perché, a chi sostiene questa concezione, Tolkien non piace. In T. S. Eliot o in James Joyce – dice Shippey - le allusioni o citazioni di altre opere letterarie devono essere riconosciute dal lettore che, essendo dotato di alta cultura, è consapevole delle loro fonti, altrimenti il lettore perderebbe il loro significato, significato che risiede nel contrasto tra il loro contesto originario (quello della fonte letteraria passata, per esempio Omero o Dante) e quello moderno proprio dell’autore e del lettore. Anche in Tolkien abbondano le  citazioni e allusioni ad altre opere letterarie del passato (dalla Bibbia, all’Antichità greco-romana, all’Alto e Basso Medioevo). Ma nei romanzi di  Tolkien non importa che la fonte delle citazioni sia riconosciuta dal lettore : questi può apprezzare le citazioni senza riconoscerle come tali, per il loro contenuto indipendentemente dalla conoscenza della fonte[xxii], poiché egli apprende verità morali o intuizioni estetiche da esse e non perché si compiaccia di sapere già da dove provengono e dunque si senta colto e superiore al profanum vulgus.

Così Shippey scioglie il paradosso : quei critici non riconoscono in Tolkien le caratteristiche virtuose dello Scrittore Moderno Ideale, poiché essi vorrebbero che tali caratteristiche ci fossero solo “per gioco” (per esercizio letterario) e non per davvero. Tolkien invece usa, poniamo, il “metodo mitico” non perché sia un metodo interessante, ma perché egli credeva nelle verità inserite – a loro modo – nei miti ; o anche, secondo esempio, egli mostra i suoi personaggi perduti nella confusione e nello smarrimento (bewilderment) non perché voglia sfidare la “illusione realistica” della narrativa, ma perché crede che tutti i nostri punti di vista sulla realtà siano più o meno delle illusioni. ; o ancora, terzo esempio, Tolkien fa esperimenti con il linguaggio non per mostrare la sua bravura nel farli, ma perché pensa che tutte le forme reali del linguaggio umano siano esperimenti.

C’è tutta una mentalità, che probabilmente sta esaurendosi, ma che è ancora forte, caratterialmente incompatibile con Tolkien ; come scrive il filologo Michael Drout:

Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli sono importanti ed influenti opere della letteratura novecentesca. E tuttavia il criticismo letterario Modernista (quello postmoderno in realtà non è altro che la sua forma più recente), che ha costituito  il discorso intellettualmente dominante sulla letteratura per cinquant’anni, è completamente incapace di trattare l’opera di Tolkien.[xxiii] 

Specificamente da noi  in Italia si aggiungono cause particolari che hanno ostacolato e rallentato la nascita di una critica letteraria su Tolkien seria e non semplicemente di propaganda (favorevole o ostile) : una causa è stata la polemica politica che ha prodotto un rifiuto massimalista da parte della cultura di sinistra e l’appropriazione indebita da parte della cultura di destra, e di questo parlerò più sotto. Ma ce n’è anche un’altra e maggiore, così espressa da Emilia Lodigiani, fondatrice delle Edizioni Iperborea[xxiv] e autrice di uno dei pochissimi studi italiani né propagandistico-ostili né propagandistico-favorevoli 

La causa più importante e duratura è invece l'antipatia plurisecolare della cultura italiana per il mito e la fiaba: da noi prevale Boccaccio e la peripezia borghese, anche Ariosto e Calvino, pur se parlano di cavalieri e di magia, lo fanno in maniera ironica e demitizzante. Da noi lo scetticismo sembra essere un punto d'onore nazionale, ed esso svaluta preventivamente la possibilità di entusiasmarsi per gli ideali eroici e per le atmosfere magiche. La fantasia non allegorica, priva di ironia e di giàsotuttismo, ha creato grandi opere nella letteratura anglosassone, ma non in quella latina, almeno dall'età moderna in poi.[xxv] 

Ecco, tornando al panorama mondiale e per concludere questo paragrafo, forse non è inutile aggiungere , che tra i critici, oltre ai “Mostri” (creature feroci ed ostili), ve ne sono – e in numero crescente – tanti altri che in tutto o in parte apprezzano l’opera tolkieniana : centinaia di libri[xxvi] e migliaia di saggi su riviste sono lì a dimostrarlo allo storico della critica[xxvii]. Già vent’anni fa Judith Johnson, nel suo accurato studio  J. R. R. Tolkien : Six Decades of Criticism (uno tra i soli otto libri qui citati da Shippey come “works of references”), scriveva : 

Tolkien non è certo riservato ai bambini. Con Il Signore degli Anelli gli adulti hanno un nuovo classico, un segmento di patrimonio culturale condiviso, per potere superare il sempre più largo iato di comunicazione tra gli individui che è causato dalla mobilità sociale e geografica, dall’alta specializzazione professionale, e dalla esplosione delle conoscenze. Un domani i cibernetici, gli psicologi, i fisici, gli astronauti e i pediatri potranno meglio capirsi l’uno con l’altro anche perché tutti essi sapranno come trovare la Terra di Mezzo e come guardare ciascuno al suo proprio mondo da una vivida prospettiva di riso e di lacrime, di libertà e di responsabilità, di amore e di sacrificio.[xxviii] 

 

4. Il Signore degli Anelli come romanzo moderno

 

For all its antiquarian charm ,  no one could mistake The Lord of the Rings for anything else but a work of the twentieth century

Tom Shippey

 

Se i critici “Sonnenkinder” – dal loro punto di vista ideologicamente “modernista” e presuntivamente “mainstream” -  negano che l’opera di Tolkien sia un’opera moderna, congrua con la letteratura del XX secolo, e deplorano questo fatto, vi sono altri critici che – anche essi – negano la modernità di Tolkien, pur partendo da convinzioni di fondo opposte a quelle dei primi, e non deplorando ma applaudendo al (presunto) fatto. Questo secondo gruppo è fatto da critici che sono favorevoli a Tolkien, però lo stimano e amano in quanto ritengono di vedere in lui un autore praticamente  premoderno, anzi, ideologicamente antimoderno.

Tra questi per esempio c’è Hal Colebatch che nel suo saggio[xxix] loda Tolkien per i valori “tradizionali” della morale occidentale, opposti al “collettivismo” contemporaneo, e volti al lealismo e all’obbedienza alla gerarchia. E Patrick Curry[xxx] che loda Tolkien per il suo antimodernismo (anche se qualificandolo “postmoderno” e non “premoderno”) che rifiuterebbe la società novecentesca meccanicistica, industrializzata, inquinata. E, qui da noi in Italia, la destra culturale, che pure ha l’indubbio merito di avere difeso, pubblicato e propagandato Tolkien[xxxi] di fronte a uno sprezzante disinteresse della sinistra culturale[xxxii], ha presentato Tolkien come un autore antimoderno. E questo sia critici appartenenti alla destra cattolica[xxxiii], sia critici appartenenti alla destra neopagana[xxxiv]. E così Tolkien via via è stato presentato come antilluminista, contrario alla laicità, tradizionalista, odiatore della modernità in generale, arcaizzante nello stile e nell’ispirazione letteraria, esplicito apologeta del cattolicesimo conservatore, esaltatore dei valori sociali e guerrieri del Medio Evo, e altro ancora.

Shippey invece, dopo avere dedicato The Road to Middle-Earth all’inserimento di Tolkien nel suo contesto professionale di filologo e medievista, nel presente libro vuole inserirlo nei tempi in cui egli visse, farlo vedere come un  “autore del secolo”, il Ventesimo, come uno scrittore, cioè,  che cercò di rispondere alle problematiche e alle “ansietà” di questo secolo[xxxv].

Per mostrare ciò bisogna partire (anche se non fermarsi) dagli Hobbit. Gli Hobbit, creature “fantastiche” originali di Tolkien, entrano in contatto con Elfi, Nani, Antichi Demoni, Draghi, Stregoni, Re e Guerrieri, ma essi, gli Hobbit, sono comuni cittadini inglesi di età edoardiana, o borghesi (i Baggins) o proletari (i Gamgee), ma tutti sottomessi ai riti del tè delle cinque, del giardinaggio, della fumatina con la pipa, della birra al pub, tutti accomunati dall’amore per la tranquillità , la rispettabilità, la giovialità (cheerfulness). Gli Hobbit dovrebbero, a rigor di logica, essere contemporanei di civiltà guerriere medievali (di Aragorn, di Theoden, di Denethor) , ma in realtà, con plateale anacronismo[xxxvi], non possiedono armi, hanno un servizio postale statale per tutti, hanno un museo cittadino, gli orologi da muro in casa, gli ombrellini da passeggio per le signore. Sia ne Lo Hobbit sia ne Il Signore degli Anelli i protagonisti dei romanzi sono Hobbit. Nel primo romanzo lo hobbit protagonista, Bilbo (cioè il mondo del presente) , nel confronto  con Nani, Elfi, Guerrieri etc. (cioè col mondo del passato) risulta vincitore : alle somme le sue virtù - e paradossalmente anche quella del coraggio -  sono superiori a quelle dei rappresentanti del Mondo Antico. Nel secondo romanzo lo hobbit protagonista, Frodo, nel confronto con Nani, Elfi, Guerrieri etc. risulta alla pari : egli non avrebbe saputo nulla e non avrebbe potuto fare nulla senza l’intervento dei Personaggi Antichi e Medievali, ma, una volta che il Mondo del Passato lo guida e lo soccorre, egli compie le azioni più preziose per la salvezza di tutti e raggiunge le virtù morali più alte.

Non a caso coloro che fanno una lettura “tradizionalista” di Tolkien amano più il Silmarillion, e cioè il vasto e non romanzesco corpus di scritti postumi, rispetto ai due romanzi pubblicati da Tolkien. Nel corpus postumo infatti gli Hobbit non ci sono, e gli Elfi, i Nani, i Guerrieri umani sono, a livello morale, molto diversi da quelli dei romanzi : sono cioè immersi pienamente nei valori etici della Antichità e del Medioevo, mentre nei due romanzi sono come “maturati” e accolgono i valori moderni di pacifismo, tolleranza interrazziale, rifiuto dell’imperialismo politico[xxxvii]. D’altra parte Shippey nel suo libro dedica, per analizzare i due romanzi,  una quantità di pagine sei volte maggiore di quella dedicata ad analizzare il Silmarillion, e sostiene che - paradossalmente (perché contro le iniziali intenzioni dello stesso Tolkien) – il Silmarillion deve essere visto come una “una ulteriore e immensamente espansa ‘Appendice’ a Il Signore degli Anelli[xxxviii].

I problemi e le ansie del mondo moderno affrontati da Il Signore degli Anelli sono, per Shippey, molti[xxxix], ma i più importanti sono : il problema del Male Totale (non giustificato da interessi di accrescimento economico o da ambizioni di espansione territoriale), il problema del confronto tra i valori etici delle varie culture del pianeta (sfuggendo sia all’intolleranza dell’imperialismo culturale sia all’ignavia del relativismo morale), il problema del bisogno di fede religiosa in una società che, essendo desacralizzata e secolarizzata, è in cerca di una fede religiosa desacralizzata e secolarizzata[xl].

Del primo e del terzo problema parlerò dopo. Qui vorrei sottolineare come le caratteristiche letterarie platealmente novecentesche de Il Signore degli Anelli sono molteplici e tutte degne di essere messe in risalto dalla critica per dar conto della peculiarità del romanzo, che è  amato da una massa duratura e crescente di persone nostre contemporanee, le quali non amano, poniamo, le narrazioni medievali di Chretien De Troyes o di Snorri Sturluson. Romanzo che associa una panoplia medievaleggiante di castelli, draghi e guerrieri in armatura con, per esempio, temi letterari novecenteschi quali la scissione dell’Io e il “metaromanzo” (il romanzo nel romanzo), bene evidenziati da Fiorenzo Delle Rupi[xli], e la revisione della tradizione romantica sul ruolo della fantasia nel rapporto tra parola e arti visive, su cui ha convincentemente scritto Chris Seeman[xlii].

 

 

5. La fuga dal Potere e l’etica dello “smarrimento”

 

Power  tends to corrupt, and absolute power corrupts absolutely

                                                     Lord John Emerich  Acton

 

Vi è un modello nella storia di Tolkien ma i suoi personaggi non possono vederlo (naturalmente, poiché vi sono dentro). A loro l’intera storia sembra caotica, perseguitata dalla sfortuna; sono perduti in una landa selvaggia sia metaforica che cartografica, di fatto in uno ‘smarrimento’

                                                                              Tom Shippey

 

Eppure le cose sarebbero potute andare diversamente, e molto peggio.[…]E noi al nostro ritorno dalla vittoria avremmo potuto trovare nient’altro che cenere e distruzione. Ma tutto ciò è stato impedito…perché una sera, ai margini della primavera, io incontrai a Brea Thorin Scudodiquercia, un incontro casuale, diciamo noi nella Terra di Mezzo.

                                                                                                                                                                                      Gandalf

 

E un tema specificamente moderno presente ne  Il Signore degli Anelli è quello suo centrale : il tema del Male residente nel Potere. È questa la prima cosa che Shippey vuole mettere in evidenza, non appena  termina  l’analisi della struttura letteraria del romanzo e passa a esporne la “ideologia”. L’Unico Anello, attorno cui ruota la storia, è il supremo Anello del Potere, ed esso è intrinsecamente malvagio. Come si vede nelle dichiarazioni dei grandi saggi Gandalf, Elrond e Galadriel, e come si vede dolorosamente nelle reazioni di Bilbo, Boromir e Denethor[xliii], chiunque desideri usare o almeno possedere questo Anello (lo possegga e lo usi oppure no) viene moralmente corrotto da esso. Non importa se si è “buoni” o cattivi”, l’Anello attivamente corrompe  la persona (e non si limita a portare alla luce le sue parti negative già esistenti, precisa Shippey).I “buoni” comincerebbero a usare l’Anello con buone intenzioni, ma prima o poi inevitabilmente diventerebbero suoi schiavi e agirebbero per rendere schiave le altre persone.

Questo punto è centrale e indirizza la storia del romanzo che infatti è una “quest” al contrario : diversamente dall’Oggetto di Potere (una Spada, un Graal, etc.) delle “cerche” tradizionali,  qui l’Anello non deve essere trovato, recuperato ed usato. Esso è presente sin dall’inizio e deve essere – con molta difficoltà – distrutto. Quantunque centrale, questo punto può essere frainteso e di fatto a volte lo è[xliv], e io credo che ciò avvenga perché , come spiega Shippey, questo punto è nuovo, è moderno, è ancora imperfettamente assimilato dal senso comune, e Tolkien stesso certamente percepì la modernità di ciò che è significato dall’Anello. Una mente antica o medievale avrebbe parlato di un uso buono e di un uso cattivo del Potere, in sé moralmente neutro. Per la prima volta nel 1887 invece Lord Acton – uno storiografo Whig e cattolico - esplicitò questa nuova idea : 

Power tends to corrupt, and absolute power corrupts absolutely[xlv] 

Oggi questa idea può essere riconosciuta e compresa dal vasto pubblico dei lettori de Il Signore degli Anelli, mentre “non lo sarebbe stata prima delle molte amare esperienze del XX secolo”[xlvi].

Il XX è stato il secolo del Male Totale coi suoi totalitarismi e i suoi genocidi, e come ha bene fatto osservare Hannah Arendt - che per prima e con più sistematicità di altri saggisti aveva parlato del Male Totale nel suo libro Le origini del totalitarismo – questo male è anche “banale”, non è legato necessariamente a personalità psicologiche sadiche o megalomani, ma è piuttosto un “sistema” che può essere condiviso da qualsiasi persona[xlvii]. Così l’Anello tolkieniano opera la sua corruzione su qualsiasi tipo umano, grande o piccolo, freddo o affettuoso, ambizioso o mite. E in un altro suo scritto[xlviii] Shippey nota come questa corruzione sia interclassista e onnipervasiva e cita un passo di 1984 di George Orwell : 

Non ci sarà amore, se non per il Grande Fratello. Non ci saranno risate, se non quelle di trionfo sui nemici sconfitti[…] tutti i piaceri contrastanti saranno annullati. Ma ci sarà sempre – non lo dimenticare, Winston – sempre ci sarà l’intossicazione del potere, sempre più grande e sempre più subdola. In ogni momento ci sarà sempre il brivido della vittoria, la sensazione di calpestare un nemico indifeso. 

Però Shippey osserva che nel romanzo Tolkien presenta, in maniera ambivalente, due concezioni del Male : una che Shippey chiama “boeziana”[xlix] e una che chiama “manichea”[l]. La prima concezione nega che esista un male sostanziale , esistente cioè di per sé, e lo descrive come “privazione di bene”, inoltre ritiene che il Destino sia sempre buono e ciò che sembra essere male sia in realtà una sorta di  felix culpa che , per intervento della provvidenza divina, porta verso un bene maggiore. Questa concezione è però sia controintuitiva, sia suggerisce la possibilità morale del quietismo attendista, cosa che, nota Shippey, ai tempi in cui Tolkien scriveva il suo romanzo, avrebbe suggerito agli Inglesi l’esecrabile scelta di non contrastare politicamente e militarmente il loro nemico disumano coi suoi campi di concentramento e le sua camere a gas. C’è però nel romanzo anche la seconda concezione, quella manichea, che afferma che il Male esiste di per sé (vi sono enti intrinsecamente cattivi[li]) e che pone Male e Bene come due nemici irriducibili che tendono alla distruzione reciproca.

Ora, Shippey non approfondisce filosoficamente questo problema (per esempio chiedendosi : contrastare attivamente il male non è precisamente una maniera concreta con cui il male finirà per servire a un bene maggiore?[lii]), ma nota che le due concezioni sono compresenti nel romanzo e che Tolkien propendeva per la concezione boeziana. Di fatto i personaggi del romanzo (Frodo , Sam e tutti gli altri), e i lettori con loro, sono incerti riguardo alla natura del male e ondeggiano : esso è interno (privazione di bene, intimo desiderio dell’Anello) o esterno (Sauron e l’Anello come oggetto fisico)? Shippey nota che questa ambivalenza permette a  Il Signore degli Anelli di sfuggire sia all’introversione del romanzo borghese, irrilevante per l’esperienza bellica e politica che segnò la vita di Tolkien e di tantissime  altre persone, sia al semplicismo manicheo della letteratura popolare.

I personaggi de Il Signore degli Anelli, poi, sono diversi tra loro e  la forza positiva e profetica[liii] della fiducia nella provvidenza (anonima, come dirò nel prossimo ed ultimo paragrafo di questa mia @ introduzione) è esplicita solo in Gandalf, e per gli altri personaggi Shippey preferisce parlare di “fortuna” (luck) e “coraggio”. Soffermiamoci sul coraggio. Nei personaggi de Il Silmarillion ( e ancora in alcuni de Il Signore, come Boromir) Tolkien riprende la concezione “nordica” del coraggio che aveva tanto apprezzato nel Beowulf e che aveva esplicitato teoricamente (ma anche criticato) nel pastiche narrativo-saggistico Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm[liv] : l’autentico coraggio sta nella resistenza ad oltranza, anche quando appare chiaro che il nemico è invincibile (“il cuore sia più saldo e più fermo il proposito, / più prode l’animo se la forza vien meno”). Che è come dire – dice Shippey – che la vittoria o la sconfitta non hanno nulla a che fare con il torto o la ragione. Questa idea di fondo, mai rinnegata da Tolkien, è però, nei suoi due romanzi, da lui integrata e trasformata attraverso la sua originale (e non “medievale” o “nordica”) creazione degli Hobbit : già Bilbo ne Lo Hobbit mostra un coraggio freddo, privo di retorica e di aggressività. Ne Il Signore poi gli Hobbit agiscono in gruppo o in coppia e mostrano, oltre che essere privi di ambizione militare,  un coraggio centrato sulla amicizia e sulla solidarietà, e che si manifesta anche con la risata e con la “allegria” (cheerfulness) ; per riuscire a ridere e ad essere allegri, ben lontani da speculare sugli esiti incerti del Ragnarök (o Giorno del Giudizio) , gli Hobbit rifiutano addirittura e completamente di scrutare il futuro.

È possibile essere allegri e , assieme, senza speranza ? Si può essere tristi e , assieme, felici? Tolkien lo mostra in pratica nel personaggio di Sam (ma anche negli altri Hobbit). L’allegria e la mancanza di retorica pur nell’atto del coraggio più estremo sono possibili perché gli Hobbit hanno delle “social virtues” moderne e non note o malnote agli eroi dell’epica altomedievale. Essi sono persi nelle  confusioni  e negli smarrimenti (bewilderments) della Terra di Mezzo ;  non penetrano le fitte trame che la Fortuna tesse per loro, ma una cosa almeno riescono a vedere : che è certamente giusto cercare di andare ancora un passo più avanti.

Già nel 1968 Roger Sale aveva scritto : 

l’eroismo moderno de Il Signore degli Anelli si basa sul rifiuto di cedere alla disperazione piuttosto che su una qualche chiara percezione di una meta o di un conseguimento, un eroismo che accetta i fatti della storia e tuttavia rifiuta di cedere alla tentazione della Disperazione  che in quei fatti si presenta.[lv] 

 

6.  “Paganesimo” e “cristianesimo” nella Terra di Mezzo

 

Verba Dei legantur in sacerdotali convivio ; ibi decet lectorem audiri, non citharistam! semones Patrum, non carmina Gentilium! Quid Hinieldus cum Christo ? Angusta est domus, utrosque tenere non poterit.[lvi]

          Alcuino, diacono di York

 

A ‘fundamentally Catholic’  work which never once mentions God

     Tom Shippey

 

Ne Il Signore degli Anelli non si parla dell’esistenza di un Dio o di Dei, non vi sono templi, non sacerdoti, non libri sacri, non liturgie religiose. E questo non solo tra Nani, Elfi, Guerrieri Rohirrim, Orchi, cioè personaggi dislocabili – nel mondo reale – in vari diversi Medioevi e anche varie diverse Antichità, ma anche gli Hobbit – nota Shippey – così simili agli Inglesi contemporanei, sono privi di qualsiasi sanzione religiosa alle loro azioni . Per esempio ci viene detto che si sposano, ma non hanno chiese e non ci viene detto chi li sposa (lo Sceriffo? Il Sindaco?). Sono forse atei gli abitanti della Terra di Mezzo ? No, perché un ateo esplicitamente nega l’esistenza di Dio, cosa che nessuno fa nella Terra di Mezzo. Sono forse agnostici ? A rigor di termini, neanche : perché un agnostico è colui che di fronte al problema religioso esplicitamente afferma di non volersene interessare e di non volere decidere né procontra Dio. Sono forse pagani ? Nemmeno, perchè anche i “pagani” adoravano gli  Dei, no ? No – si potrebbe rispondere -  non tutti : vi sono religioni che rimandano al feticismo, all’animismo, al culto degli antenati, senza chiarificare il concetto di divinità.

Però Gandalf sembra negare l’ipotesi “pagana”, in quanto  dice a Denethor : 

Non hai l’autorità, Sovrintendente di Gondor, di stabilire l’ora della tua morte[…]Solo i re pagani, schiavi dell’Oscuro Potere, si comportavano nella loro empietà in questo modo, suicidandosi in preda all’orgoglio e alla disperazione, assassinando i loro cari per facilitare la propria morte[lvii] 

Nota Shippey che questo aggettivo “pagani” è illogico perché è un aggettivo cristiano e, se Gandalf chiama “pagano” qualcuno, ciò implica che lui stesso non lo sia . E allora cosa è ? È forse cristiano ?

Comunemente, quando parliamo di “paganesimo”, pensiamo a un qualche insieme di credenze e comportamenti che contrasti i valori etici della nostra attuale civiltà europea concimata da venti secoli di cristianesimo. E pensiamo ciò,  sia se questo contrasto ci ripugna sia se esso ci attira : per esempio se leggiamo del funerale di Attila, re pagano degli Unni del V secolo, in cui gli schiavi che avevano scavato il sepolcro vengono scannati e seppelliti con lui  (perché “egli possa essere onorevolmente compianto nel sangue degli Uomini e non nelle lacrime delle Donne”), ecco che alcuni di noi sono respinti da una cosa del genere, mentre altri sono attirati, eppure sia gli uni sia gli altri riconoscono che il “paganesimo” è proprio qualcosa del genere di quella scena : e cioè qualcosa di feroce (o, in altri casi, di lussurioso). Shippey invece fa notare che ne Il Signore degli Anelli  i “pagani” Rohirrim in una situazione analoga a quella degli Unni – e cioè ai funerali del proprio re Theoden – fanno un tumulo, in cui mettono armi e tesori del defunto, cavalcano attorno ad esso cantando una trenodìa, ma non compiono alcun gesto feroce. Essi non sono cristiani – nota Shippey – ma non sembrano neanche “pagani”[lviii].

D’altra parte anche  dal punto di vista cristiano (e non “neopagano”) si possono avere immagini diverse di cosa sia il “paganesimo” : Shippey nota come, per esempio,  due autori cristiani altomedievali ne abbiano due immagini diverse. L’anonimo poeta del Beowulf mostra il suo eroe saggio, altruista, privo di ferocia e, in gran parte, anche di ambizione egocentrica. Il diacono Alcuino invece (scrivendo all’abate di Lindisfarne) lo rimbrotta perché i suoi monaci sarebbero attratti dalle imprese dei re pagani, imprese degne dell’Inferno e incompatibili con Cristo : “la casa è stretta e non c’è posto per entrambi” (angusta est domus, utrosque tenere non poterit) ! E Tolkien commenta questa lettera così : 

Eppure è evidente che, allora in Inghilterra, persino gli ecclesiastici, comunque alta fosse l’autorità che  sentivano, trovavano posto per entrambi, e potevano conservare l’antica tradizione eroica. Certo, dalla maggior parte di loro poteva essere giudicato indecens (inappropriato) che, nel refettorio,  l’arpista scaldico usurpasse il posto del lettore biblico; ma a quei tempi non era necessariamente improprio che nelle menti delle stesse persone ci fosse posto sia per  le antiche storie pagane sia per la fede cristiana. Questa anzi era evidentemente la situazione prevalente : “la casa è ampia e ha molte stanze”. A questi tempi e a questa mentalità appartiene il Beowulf.[lix] 

 E  dunque Shippey nota che, su questo argomento,  il poeta del Beowulf ha lo stesso punto di vista di Tolkien, e le loro due opere hanno strette somiglianze : entrambe scritte da cristiani ed entrambe non accennano esplicitamente al cristianesimo ; entrambe  “mediano” tra valori cristiani e valori pagani ; entrambe rigettano l’intolleranza di cristiani come Alcuino, che oggi chiameremmo “integralisti”. Anzi, a proposito di tali integralisti , Tolkien ricorda un fatto della fine del VII secolo : 

E’ nota la storia del Franco san Wulfram di Sens. Il re di Frisia Radbod, successore di quell’Aldgìsl che aveva ospitato l’Inglese san Wilfrid, era un fiero nemico dei Cristiani e dei Franchi, e fu l’ultimo difensore sia del paganesimo dei Frisi dia della loro indipendenza politica. La storia racconta che una volta Radbod si avvicinasse al fonte battesimale, ma si arrestò per chiedere a san Wulfram se, qualora egli si fosse battezzato, avesse potuto sperare di incontrare in paradiso i suo antenati Frisi. ‘Non ingannare te stesso’, fu la risposta : ‘E’ certo che essi hanno già ricevuto la giusta sentenza di dannazione’. Radbod allora si ritirò dal fonte battesimale, e disse che egli preferiva riunirsi alla sua gente dovunque essa fosse, piuttosto che sedere nel Regno dei Cieli in compagnia di una cricca di furfanti. Radbod rimase pagano fino alla sua morte avvenuta nel 719. È lecito pensare che se Radbod evidentemente aveva una insufficiente istruzione religiosa e non era ancora adatto per candidarsi al battesimo, d’altra parte il santo missionario lasciava molto a desiderare”.[lx] 

Sia il poeta del Beowulf sia Tolkien non pensano che chi non ha sentito annunciare il vangelo sia necessariamente condannato all’Inferno, entrambi presentano un mondo pagano con intensa simpatia, privo di schiavitù, privo di sacrifici umani, privo di un politeismo esplicito, privo di @ esaltazione della lussuria, entrambi mediano la contraddizione relativa al “pagano virtuoso” (aut essere dannato per l’ereditato paganesimo, aut essere salvato per la virtuosità personale).

E Shippey ricorda che Frodo, il protagonista de Il Signore, deriva il suo nome da Froda (Inglese Antico) e Frothi (Norreno) che entrambi significano “uomo saggio” e si riferivano, come nome proprio, a un re pagano dell’antichità, che aveva regnato in un’Età dell’Oro, e che era virtuoso e pacifista, avendo cercato di estirpare dal mondo guerra e vendetta. Ma egli fallì e fu dimenticato.

Io ricordo che questa immagine del “pagano virtuoso” ha una lunga tradizione : già il medievale Dante Alighieri si faceva guidare dal pagano Virgilio (“dolcissimo padre”) e poneva tra i salvati i pagani Catone e Stazio, e il medievale Tommaso d’Aquino citava centinaia di volte nella sua cristiana Summa Theologiae il pagano Aristotele, chiamandolo solamente  “Philosophus” (cioè il filosofo per eccellenza)  ; gli autori cristiani dell’Umanesimo lodavano Socrate come modello di saggezza (vedi il “sancte Socrates, ora pro nobis!” di Erasmo), Cicerone come modello di humanitas e il “divino” Platone come modello di sapienza ; i rinascimentali Ariosto e Tasso dipingevano figure di “pagani” (cioè, nel loro linguaggio, mussulmani) virtuosi quali Cloridano e Argante ; e gli autori cristiani del XVII e XVIII secolo lodavano Plutarco come maestro di moralità privata (per i suoi Moralia) e civile (per Le vite parallele).

Più recente ed influente - per quanto riguarda il caso specifico di Tolkien - è la figura del danese  Nikolaj Frederik Severin Grundtvig (1783-1872), teologo luterano, poeta, storico, mitografo ed educatore. Grundtvig, cinque anni dopo la prima edizione del testo anglosassone del Beowulf fatta dal danese Thorkelin nel 1815, tradusse per la prima volta questo poema in una lingua moderna, lo commentò presentando scoperte filologiche fondamentali (che lo stesso Tolkien definì dovute a una sagacità “stregonesca”) e fece vari viaggi a Oxford e Cambridge per esortare gli intellettuali inglesi allo studio dell’Anglosassone, che era a quei tempi da loro negletto. Tolkien definì Grundtvig “uno dei nomi più grandi nella storia degli studi beowulfiani”[lxi]. Come scrive Nils Ivar Agøy 

La  figura di Grundtvig torreggia nella storia culturale danese e norvegese, con un’influenza così permeante che è diventata parte dello sfondo culturale di quelle nazioni, soprattutto in Danimarca. Egli era un’instancabile avvocato della libertà : di espressione, di insegnamento e di culto religioso[…]Egli è ricordato per l’impegno di tutta la sua vita per attualizzare e trasmettere la vecchia mitologia scandinava alle nuove generazioni. […]In effetti Grundtvig fece per i danesi ciò che Tolkien voleva fare per gli Inglesi : scrisse una mitologia per il suo popolo[…]Dai frammenti della storia, mitologia e folklore nordici – storicamente disparati, spesso corrotti e tra loro incongrui – Grundtvig costruì una singola struttura drammatica, che ricopriva tutte le ere del mondo. Sebbene questa struttura fosse artificiale, Grundtvig  pensava di non stare inventando niente di nuovo, ma piuttosto di stare ripristinando allo splendore e unità originari il ‘linguaggio di immagini’ dei suoi antenati.

Come Tolkien un secolo dopo, Grundtvig credeva nell’incalcolabile valore intrinseco che per un popolo ha la sua mitologia. Nella sua concezione i miti sono il deposito della specifica maniera che un popolo ha di rappresentarsi la realtà, e sono in un certo senso profetici. Dai miti di un popolo si può leggere il destino di quel popolo.[…]

Egli credeva che il cristianesimo fosse un ulteriore sviluppo del paganesimo e che non vi fosse alcun fondamentale conflitto tra i due.[…] Laddove la rivelazione cristiana offre all’umanità una espressione vera della relazione che questa ha con la dimensione eterna e divina, la mitologia nordica spiega le relazioni che l’umanità ha con la dimensione temporale e mondana. […]La valutazione  molto positiva che Grundtvig faceva della mitologia presupponeva una netta distinzione tra ‘paganesimo’ (o ‘mitologia’) da una parte, e ‘idolatria’ - cioè la letterale adorazione delle divinità pagane – dall’altra. Grundtvig credeva che, mentre la mitologia nordica fosse la Filosofia Naturale  e il Linguaggio per Immagini dei pagani nordici, invece l’idolatria , la adorazione di Odino, Thor, e Freyia e le loro statue messe al posto dell’unico invisibile Dio, creatore del cielo e della terra, fossero una non ispirata distorsione del paganesimo originario.[lxii] 

E, riguardo al Beowulf,  Tolkien scriveva : 

Wyrd [cioè, in Anglosassone,  il Fato o la Fortuna o la Provvidenza, NdR] non era e non è ‘uno degli dei’, ma il signore degli dei e degli uomini, e cioè la Storia Totale passata e presente e predestinata in cui essi sono; una teoria o concezione che è stata insensibilmente assorbita da un Dio onnipotente [l’ “unico invisibile Dio, creatore del cielo e della terra” di Grundtvig, NdR][lxiii], o piuttosto fu senza dubbio sin dall’inizio una percezione di Lui, e sopravvisse e sopravvive come un aspetto naturale della macchina del mondo. L’unica cosa importante riguardo tale ‘paganesimo’ in effetti, se se consideriamo il poema così come noi lo abbiamo, […] è che la storia è consapevolmente ed esplicitamente pensata come avente luogo in tempi pagani, e anche in tempi passati, e, tuttavia, i nomi delle antiche divinità - sembrerebbe di proposito (poiché sappiamo che i loro nomi non furono dimenticati) – non sono mai menzionati .[lxiv] 

E, a proposito degli ultimi tempi del paganesimo Islandese, scriveva : 

Noi vediamo quegli uomini spesso senza dio, eppure li vediamo cercare protezione dalle loro divinità preferite ed eclettiche, alle quali tributavano  – in cambio dei servizi resi – una fede non più profonda di quella che i moderni pagani danno oggi ad alcuni presagi, o ai talismani attaccati all’interno dell’automobile.[lxv] 

Insomma : come per Grundtvig, anche per Tolkien non vi è e non vi è mai stato un solo tipo di  paganesimo, ma c’è sempre stata – in mezzo alle altre storie – anche  una storia di persone non cristiane credenti in una Provvidenza monoteistica e, sul piano morale, aliene dalla attrazione per la violenza, l’arroganza temeraria, la torrida sensualità che così spesso e così volentieri i “neopagani” di oggidì attribuiscono en bloc al “paganesimo”. E questa distinzione  corrisponde al sentire comune quando esso considera le figure dei non cristiani Antigone, Socrate, Aristotele , Cicerone, Virgilio, Confucio, Buddha, Lao tzu e tanti altri. Non solo questa storia di un paganesimo non incompatibile col cristianesimo c’è sempre stata nel passato, ma c’è tuttora.

E qui arriviamo al senso umano di quel  “paganesimo” amato da Tolkien e così originalmente da lui reinterpretato nelle sue opere narrative. Infatti, per Shippey, il Frodo tolkieniano – pur collegandosi a quello altomedievale - più che un pagano virtuoso precristiano rappresenta una figura “altamente contemporanea”, e cioè il rappresentante di una società postcristiana che ha “largamente perso la sua fede” : un Inglese contemporaneo si trova a suo agio nella Terra di Mezzo tolkieniana perché ha dimenticato la maggior parte della Rivelazione cristiana. Ecco che dunque, per Shippey, il Mito presente ne Il Signore degli Anelli come tutti i miti svolge una funzione di mediazione tra elementi che sembrano prima facie incompatibili. In specifico esso opera una prima mediazione tra il cristianesimo e il mondo eroico precristiano ; ed opera una seconda e più importante mediazione tra il cristianesimo e il mondo postcristiano a noi contemporaneo.

Io concordo solo in parte con questa analisi di Shippey. Concordo sul fatto che il romanzo tolkieniano metta al centro la figura del “pagano” (del non cristiano) virtuoso, e concordo sul fatto che esso operi le due dette mediazioni. Per questa parte Tolkien, quali che fossero le sue antipatie umorali per l’ “aggiornamento” conciliare,  converge oggettivamente con quanto detto dai principali teologi che hanno preparato il Concilio Vaticano II, vi sono intervenuti, ne hanno elaborato la dottrina :  Karl Rahner[lxvi], Henri De Lubac, Juan Alfaro[lxvii], A. Darlap. Questi teologi -  ricollegandosi peraltro alla dottrina tradizionale del “battesimo di desiderio”[lxviii] -  hanno parlato di un “cristianesimo anonimo”, cioè di un’elevazione soprannaturale già creaturale e dunque universale che agisce realmente ed efficacemente all’interno della persona umana, permettendole la salvezza, anche se questa persona non è consapevole della Rivelazione cristiana, e non ne è consapevole per un qualsiasi motivo.[lxix] E Christopher Garbowski osserva che 

Il ‘libero pensiero ‘ teologico di Tolkien – se così si può chiamare – non fece altro che precedere il Magistero della  chiesa cattolica di una manciata di anni. Se  non lo avesse fatto, la sotterranea tematica religiosa che scorre nel suo romanzo risulterebbe inevitabilmente datata per molti cristiani di oggi, e certamente indelibabile per  i non cristiani [lxx] 

Non concordo invece con Shippey per quella parte in cui dice che i nostri contemporanei hanno in gran parte perso la fede cristiana. Sì, certo, ci sono anche queste persone. Ma non mi risulta che siano la maggioranza degli Inglesi o degli Occidentali. Secondo me, qui Shippey confonde l’avere perso la fede con l’averla “secolarizzata”. La cristiana (cattolica e protestante) “teologia della secolarizzazione”[lxxi] sostiene infatti che oggi i cristiani espliciti (e non “anonimi”) non siano affatto diminuiti rispetto al passato. Essi hanno però “purificato” la propria fede da molte scorie delle varie culture profane (a cominciare da quelle greca e romana), che lungo i secoli si erano mescolate al Vangelo.

Il cristiano secolarizzato prende sul serio il secondo comandamento mosaico e molto meno spesso che nel passato nomina il nome di Dio invano ; egli prende sul serio la Differenza Assoluta tra Creatore e Creatura e non idolatra dunque alcun Re, o Imperatore, o Duce, o Tradizione Umana, o Sommo Sacerdote ; egli prende sul serio la Positività della Creazione e dunque non disprezza il mondo, la carne, la gioia, la storia, gli affetti rifugiandosi in un platonico ascetismo o in un farisaico narcisismo morale ; egli prende sul serio l’@Onnipresenza divina e non la relega in aree “sacre” o in una “storia sacra” ; egli prende sul serio l’@Onnipotenza divina e non riduce Dio a facitore di miracoli antropomorfici e magici ; egli prende sul serio l’Alterità divina e non attribuisce alla Provvidenza di Dio i progetti  e le mentalità delle culture umane ; egli prende sul serio la capacità creativa di Dio e non gli conferisce attributi di tipo naturalistico o antropomorfico ; egli prende sul serio il Mistero della Chiesa (lievito del pane, e non pane!) e non la riduce a una società gerarchica e giuridica e confessionale e corporativa con ambizioni imperialistiche, non clericalizza la Chiesa e non ecclesializza il Mondo ; egli prende sul serio la Dignità della persona umana e la onora specialmente con il grande rispetto della libertà in materia di religione ; egli prende sul serio il Mistero della Fede e della Speranza e dunque non materializza e non semplifica - pretendendo di descriverlo - l’aldilà ineffabile della vita eterna ; egli prende sul serio il Mistero della Carità e dunque non attribuisce alla volontà di Dio l’umana volontà di installare tribunali e condanne per individui, gruppi, culture, periodi storici.

Faccio questa critica a Shippey, perché, se fosse vero che solamente coloro che hanno perso la fede possono trovarsi a loro agio nella Terra di Mezzo, non si spiegherebbe come mai tanti cristiani espliciti (e non anonimi) apprezzino Il Signore degli Anelli, dove il nome di Dio non viene pronunciato, e clero e templi non esistono. Anche il cristiano secolarizzato, proprio perché è secolarizzato, può apprezzare intensamente  il romanzo tolkieniano, e lo apprezza – tra gli altri motivi – anche perché in esso trova la stessa secolarizzazione della religione che egli trova nella propria vita. In questa sua vita egli, tra l’altro, trova quella stessa drammaticità e quello stesso imprevedibile e spaesante “pluralismo” così simili a quelli della Terra di Mezzo tolkieniana. Drammaticità che la religione “costantiniana”[lxxii] edulcora e opacizza continuamente con le sue rassicuranti Filosofie della Storia, le sue semplificate Ricette morali, i suoi antropomorfici Aldilà ; pluralismo mondano e smarrimento esistenziale che la religione “costantiniana” continuamente nega o addirittura deplora con  i suoi richiami al conformismo, al perbenismo, al concentrarsi esclusivamente sul principio dell’autorità giuridica dimenticando in pratica quella spirituale.

Drammaticità (e, anche, tristezza!), pluralismo, smarrimento. Voglio citare - a proposto del cammino del cristiano secolarizzato – le parole del teologo Karl Rahner e invito gli amici della tolkieniana Terra di Mezzo a verificare le  consonanze :

 

La vita del cristiano è caratterizzata da un realismo “pessimista” e dalla rinuncia a un’ideologia costruita in nome del cristianesimo. Stando a una teologia catechistica corrente, ci si sarebbe da pensare che il cristianesimo cominci solo là dove si rispettano determinate norme morali o cultuali o socio-scclesiali. Ma ciò non è vero. Il compito vasto, veramente totale del cristiano in quanto cristiano è quello di essere un uomo, naturalmente un uomo con quella profondità divina che è inevitabilmente presente e dischiusa nella sua esistenza. E di conseguenza la vita cristiana è appunto accettazione dell’esistenza umana in generale, in contrapposizione a una protesta ultima.

Ciò però significa che il cristiano vede la realtà così come essa è. Il cristianesimo non lo obbliga a vedere la realtà del suo mondo esperienziale, della sua vita e della sua storia in una luce ottimistica.

Al contrario, lo obbliga a vedere questa esistenza come oscura, amara, dura e radicalmente pericolosa in maniera inconcepibile.[…]Quando egli osa guardare in faccia tutto questo, quando sostiene e vuole sostenere pienamente lo spettacolo di questa realtà estremamente pericolosa, allora spera e si rifugia con tutto sé stesso nella promessa del Dio vivente, la quale gli garantisce che questo Dio riesce vittorioso col suo amore onnipotente in mezzo ai pericoli dell’esistenza[lxxiii]

Collegata a questa, secondo me, frettolosa identificazione tra un cristianesimo implicito (anonimo) e uno esplicito (anche se secolarizzato), è un’altra incomprensione di Shippey. Egli scrive che 

Diversamente dal mito cristiano, il mito di Tolkien contiene un profondo amore e un profondo attaccamento per la bellezza della Terra di Mezzo in sé stessa

 Shippey dice questo perché pensa a un cristianesimo platonizzato (intriso dell’ascetismo tipico del pensiero greco). Ma il cristianesimo autentico, biblico e deellenizzato, non ha nessun disprezzo per le realtà mondane, che ama e di cui ha cura. Per limitarmi al vangelo, ricordo Gesù che piange per l’amico Lazzaro e per la patria Gerusalemme, che anela al convivio pasquale coi suoi discepoli, che non imita i farisei e banchetta spesso e non digiuna, che accarezza i bambini, che si fa cospargere di unguenti preziosi, che conversa con la donna samaritana al pozzo, che fornisce il vino gustoso agli sposi di Cana, che chiede al Padre di allontanare il momento della morte. Il filosofo platonico e il saggio stoico fuggono la vita e disprezzano  il mondo ;  il Dio cristiano invece è quello la cui gloria “è l’uomo vivente” e  “che ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio per esso” [lxxiv].

Concludo tornando a concordare con Shippey[lxxv] quando questi riprende il discorso precedente sul “pagano virtuoso” tolkieniano in rapporto al mondo contemporaneo, e lo allarga al di là dei mutamenti di sensibilità dei cristiani, per osservare tutta l’umanità uscita dalla seconda guerra mondiale e dalla vittoria sull’Ombra del nazifascismo. Alla vittoria “stranamente” seguirono disillusione, depressione e acquiescenza a nuove Ombre, nota Shippey. Ma - egli aggiunge - il messaggio de Il Signore degli Anelli è come il Corno di Rohan all’alba : almeno per alcune persone, quelle che hanno apprezzato e amato questo romanzo del XX secolo,  esso simboleggia la decisione di disperdere il rischio della disperazione che sempre si rinnovella.

 


[i]               Ringrazio i seguenti collaboratori della rivista “Endòre” per il generoso e competente impegno come traduttori: Roberto Di Scala, Alberto Quagliaroli, Beppe Roncari, Lorenzo Daniele, Filippo Rossi, Carlo Stagnaro, Simone Bonechi. Ringrazio Fiorenzo Delle Rupi che ha revisionato ed uniformato le varie traduzioni @ ; e Alberto Quagliaroli e Agostino Maiello per la correzione delle bozze.  Ringrazio Luciano Simonelli che ha creduto in questa impresa editoriale. Ringrazio Tom Shippey per la disponibilità al dialogo..

[ii]              Prima edizione George Allen & Unwin, London,  1982 ; nuova edizione Grafton di HarperCollins, London,  1992 [le mie citazioni si riferiscono a questa edizione] ; Revised and Expanded Edition, Houghton Mifflin, New York, 2003.

[iii]              David Bratman, nella sua recensione di Author of the Century (in “Mythprint”, numero 227, Febbraio 2001), scrive : “The Road è stata in parte riscritta e in parte espansa in questo libro [ Author of the Century]. Con il suo titolo deliberatamente provocatorio, Shippey vuole significare due cose : che Tolkien è stato uno dei più grandi autori del XX secolo, nonostante i tentativi di certa critica per sminuire la sua importanza; e che Tolkien è stato un autore di quel secolo, un caratteristico autore novecentesco, nonostante da alcuni sia stato percepito come un nostalgico del medioevo” (recensione di David Bratman in “Mythprint”, numero 227, Febbraio 2001).

[iv]              È cioè un libro di alta divulgazione. Al proposito ricordo le parole di un grande scienziato che fu maestro di questo genere letterario, Stephen J. Gould : “Io deploro profondamente l’equazione di divulgazione con un discorso inferiore e con una forma di degradazione della verità. Innanzitutto, un tale giudizio rischia di esporre a un giudizio negativo scienziati (specialmente scienziati giovani che non hanno cattedra), che potrebbero volersi cimentare in questo genere aperto a un contatto con un grande pubblico. In secondo luogo, esso arreca un danno all’intelligenza di milioni di persone desiderose di qualche forma di stimolazione intellettuale che non sia impartita con paternalistica condiscendenza.. Se gli autori di libri di scienza adottano un atteggiamento di altezzosa superiorità, non solo manifestano una forma di disprezzo verso il prossimo, ma contribuiscono a spegnere la luce dell’intelligenza. Il profano ‘acuto e intelligente’ non è un mito […] Noi tutti dobbiamo impegnarci a recuperare la divulgazione della scienza come una tradizione intellettuale onorevole. Le regole sono semplici : non si deve mai rinunciare alla ricchezza intellettuale, né si deve fare alcuna concessione all’ambiguità o all’ignoranza ; si deve ovviamente evitare il più possibile l’uso del gergo scientifico, sforzandosi però sempre di esprimere le idee nel modo più completo (qualsiasi complessità concettuale può essere espressa nel linguaggio comune)”. Brano tratto da Bully for Brontosaurs. Reflections in Natural History (1991), trad. it. Bravo Brontosauro. Riflessioni di storia naturale, Feltrinelli, Milano, 2002, pp. 9-10.

[v]              Certo, bisogna avere una certa qual cultura generale, tipo conoscere che vi è stata una Conquista Normanna nel Medio Evo, che vi sono state due Guerre Mondiali nel XX secolo, che dopo la seconda l’Impero Britannico è durato ancora una manciata di anni, che vi è stata una “guerra fredda” tra due blocchi geopolitici, che è esistito un poema altomedievale chiamato Beowulf, e cose di questo genere.  Ma questo non è chiedere troppo da un lettore di media cultura, o no ? (per riassumere le umoristiche osservazioni di Phil Kaveny nella sua recensione del libro sul sito internet della Mythopoeic Society ).

[vi]             English Language and Medieval Literature.  In questo campo i suoi contributi più importanti sono stati :  Old English Verse, Brill Academic Publishers, 1972 ; Poems of  Wisdom and Learning in Old English, Cambridge and Rowman, Totowa (NJ), 1976, 152pp. ; ( assieme a Andreas Haarder), Beowulf: The Critical Heritage, Routledge, London, 1998.

[vii]             Il più importante biografo di Tolkien.

[viii]            Il figlio minore di Tolkien che è stato il curatore delle opere postume del padre.

[ix]              In italiano sono stati tradotti Tolkien as a Post-War Writer [Tolkien e la letteratura fantastica postbellica, in Aa. Vv. (a cura di Franco Manni), Introduzione a Tolkien, Simonelli editore, Milano, 2002, pp. 289-306] ; e Tolkien and the West Midlands : the Roots of the Romance [Tolkien e le West Midlands : le radici del ‘romance’, in “Terra di Mezzo”, numero 6,  autunno 1997].

[x]              Uno di questi tradotto in italiano : Recensione del film The Fellowship of the Ring, in “Endòre”, numero 5, estate 2002, pp.93-95.

[xi]              Sul sito internet della Mythopoeic Society, traduzione mia.

[xii]             Accanto al circolo di Bloomsbury, Shippey mette anche tutti quegli gli ambienti filosofici che furono influenzati dai Principia Ethica di Moore, e l’opera di Sigmund Freud. D’accordissimo per ciò che riguarda Moore, dissento invece su Freud : in libri profondi ed influenti come Psicologia delle masse ed Analisi dell’Io, Il disagio della civiltà e L’avvenire di un’illusione, Freud ha affronto direttamente i costumi politici,  sociali e religiosi del XX secolo, connettendo la malattia mentale individuale alla sfera pubblica della vita, in cui essa può agire attraverso i leader dotati di ascendente nei vari ambiti della società.

[xiii]            Recentemente in Italia abbiamo – in questo genere – le prove di  Sebastiano Vassalli. La Chimera tratta l’Inquisizione del XVI secolo, Marco e Mattio la vita contadina e l’avventura napoleonica alla fine del XVIII; Il Cigno la collusione tra mafia e politici corrotti nel XIX secolo crispino ; Cuore di pietra il fascismo; Archeologia del presente il movimento sessantottino. Tra questi romanzi il più vicino alla linea fantastica è Marco e Mattio, in cui uno dei due protagonisti è un personaggio mitico e non realistico.

[xiv]            Si potrebbe obiettare e a Shippey che la fiction realistica, se non parla del vero, parla però del “verosimile” mentre quella fantastica non lo fa. Ma a questo proposito si veda la mia contro-obiezione in  Introduzione a Tolkien, cit., pp.15-16. Più alla radice, però, bisogna però tenere presente la critica di fondo al concetto stesso di “verosimile”, già fatta da Benedetto Croce nella sua Estetica (Laterza , Bari, ottava edizione, 1946, pp. 37-38).

[xv]             E Ursula Le Guin era figlia di una antropologa che fece tre resoconti dello sterminio degli indiani  californiani Yahi.

[xvi]              Su questo punto io aggiungerei  anche la disperazione disfattista della Francia poco prima della débacle (“meglio Hitler che Blum”, detto con paradossale contraddizione proprio dalle più nazionalistiche vestali della “gloire” patriottarda francese), come racconta bene un testimone diretto, il grande medievista Marc Bloch nel suo L’étrange défaite (Una strana disfatta, Einaudi , Torino, 1995).

[xvii]            In italiano e in generale per tale bibliografia critica si veda Wayne Hammond, La risposta della critica alla narrativa tolkieniana, in Aa. Vv., Introduzione a Tolkien, cit., pp. 364-365. Specificamente per la critica o italiana o pubblicata in lingua italiana, si veda la Bibliografia Italiana di Lorenzo Gammarelli sul sito internet di “Soronel”. Per  la critica ostile in occasione dei sondaggi di fine secolo presso i lettori anglosassoni si veda di Joseph Pearce Un uomo incompreso. Tolkien e il mondo moderno, in “Endòre” numero 4, primavera 2001, pp. 30-34. In inglese e in generale la bibliografia più completa che io conosca riguardante solo i libri su Tolkien (e non saggi e articoli su riviste e giornali) è quella online sul sito web dello svedese  Åke Bertenstam : A Chronological Bibliography of Books About Tolkien ; essa elenca 664 libri su Tolkien ed è aggiornata al novembre del 2002.  In  inglese e in specifico per la bibliografia (sia favorevole sia ostile) dagli inizi fino al 1984 cfr. Judith A. Johnson, JRRT : Six Decades of Criticism, Westport, Connecticut and London, Greenwood, 1986 e Richard C. West, Tolkien Criticism : an Annotated Checklist, (Revised Edition), Kent State University Press, Kent (Ohio, USA), 1981. Per la bibliografia sugli studi del Tolkien medievista vedi : Jane Chance, and David D. Day,  Medievalism in Tolkien: Two Decades of Criticism in Review., in “Studies in Medievalism” 3 (1991), 375-87. Per la bibliografia dal 1982 al 2000 si veda l’informato e illuminante saggio di Michael D. C. Drout e di Hilary Wynne, Tom Shippey’s JRRT : Author of the Century and a Look Back at Tolkien Criticism Since 1982 (sul sito internet del Wheaton College del Massachusetts).

[xviii]           Definizioni, entrambe, approssimative, poiché diversi critici  favorevoli a Tolkien sono stati o sono “accademici” e cioè docenti universitari , a cominciare da C. S. Lewis e oggi, per esempio,  Tom Shippey, Verlyn Flieger, Joseph Pearce, Michael Drout, Daniel Timmons, Christopher Garbowski , Jane Chance, Jeffrey Richards, George Clark, Jonathan Evans,  Charles W. Nelson, Faye Ringel, William N. Rogers, Geoffrey Russom, Roger C. Schlobin, C. W. Sullivan, Michael R. Underwood, Marjorie Burns, Joe R. Christopher, . Altri critici favorevoli sono stati o sono “ufficiali” cioè ben inseriti nelle più importanti riviste letterarie e nelle più importanti case editrici ( come W. H Auden, Humphrey Carpenter, Anthony Burgess, John Gardner). Rimane però il fatto che : “Although a significant number of articles, theses, dissertations, and books on Tolkien have been published by academic presses, his works are not standard or required texts in he vast majority of university English departments” ( Daniel Timmons, Introduction,  in:  Aa. Vv. (a cura di G. Clark e D. Timmons), JRRT and His Literary Resonances : Views of Middle-Earth. Westport, Greenwood Press, 2000 p.3)

                L’universitaria Judith A. Johnson, (JRRT : Six Decades of Criticism, cit., p. 235) scrive : “As one of 500 or so academics given fifteen or twenty choices of sessions to attende at annual meetings of the International Congress of Medieval Studies, I have sat in on Tolkien sessions at which the audience numbered close to one hundred people, rather more than a proportionate share”.

[xix]            Nella lingua inglese vi sono due parole (le quali declinano due significati diversi) per quello che noi italiani chiamiamo “romanzo” : “romance  e “novel”.

[xx]             Benedetto Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, (1902), VIII edizione , Laterza Bari, 1946, pp. 40-44.

[xxi]            Quello stesso pregiudizio che ha fatto sì che, quando nel settembre 2003 è stato assegnato a Stephen King il Book National Award alla carriera (premio precedentemente dato a scrittori come Arthur Miller e Philip Roth), il critico letterario Harold Bloom al “New York Times” abbia dichiarato che “King scrive robaccia terribile” e che “se i giurati del premio ritengono che nei suoi libri vi sia qualcosa di letterario o di estetico, allora sono proprio degli idioti”. Ray Bradbury (autore di Fahrenheit 451 e di Cronache marziane) ha invece dichiarato : “Sono contento che lo abbiano premiato. Non penso che alcun genere letterario debba essere escluso, altrimenti avrebbero dovuto eliminare Edgar Allan Poe, no?” (intervista pubblicata da vari giornali statunitensi e reperibile su internet).

[xxii]            Conoscenza che, invece, deve  avere il critico, ma su un piano di analisi, di studio, un piano distinto – anche se non separato -  da quello del godimento estetico. Di questa conoscenza dà rigorosa  prova proprio Tom Shippey nello scritto Tolkien’s Sources : the True Tradition (appendice a The Road, cit. pp. 296-302), che costituisce un completo elenco delle reali (e non quelle immaginate dai nostalgici neo-medievali o “neopagani”) fonti medievali presenti nell’opera di Tolkien.

[xxiii]           Preface a JRR Tolkien,  Beowulf and the Critics, Arizona Center for Medieval and Renaissance Studies, Tempe, Arizona, 2002, p.XIV, traduzione mia. Questo libro contiene l’edizione critica di due manoscritti di Tolkien che costituiscono due versioni preparatorie -  e considerevolmente più lunghe - del testo della conferenza Beowulf : the Monsters and the Critics del 1936.

[xxiv]           Che da vent’anni sono dedicate a riempire un vuoto nel panorama della narrativa pubblicata in Italia, traducendo i romanzi degli autori Svedesi, Olandesi, Islandesi, Norvegesi, Danesi, Finlandesi, Estoni e Belgi.

[xxv]            Emilia Lodigiani in : Franco Manni (a cura di) , Intervista a Emilia Lodigiani, “Terra di Mezzo”, numero 4, , anno II, settembre 1996, pp. 38-39.

[xxvi]           Vedi un (necessariamente) incompleto ma significativo elenco in Aa. Vv., Introduzione a Tolkien, cit., pp. 421-471. Per giustificare l’avverbio “necessariamente” cito Judith A. Johnson (JRRT : Six Decades of Criticism, cit., p. VI) : “Tolkien criticism continues to appera in newspapers, magazines, scholarly journals, and books. Previously unnoticed references to Tolkien and his secondary world, Middle-Earth, continue to be discovered. For these reasons and others, no bibliography of works about Tolkien can profess to be complete”.

[xxvii]         Per avere sotto mano una panoramica ampia, significativa e aggiornata della critica non ostile  a Tolkien citiamo quattro antologie di critici dell’ultimo decennio, la migliore delle quali sono certamente i Proceedings of the Tolkien Centenary Conference (a cura di P. Reynolds e G. Goodnight), The Tolkien Society and The Mythopoeic Press, Milton Keynes and Altadena, 1995, pp. 458. Il volume è diviso in dieci sezioni : Testimonianze storiche ; Fonti e Influenze ; Il Signore degli Anelli ; Il Silmarillion ; Linguistica e Lessicografia ; Risposte e Reazioni ; Studi particolari sulla Figura di Tolkien ; Studi particolari sulla Terra di mezzo ; il Circolo degli Inklings , Voli della fantasia ; Rapporti con altri Scrittori . Alcuni titoli dei 61 saggi contenuti nel volume : Frodo e il suo spettro : risonanze di Blake in Tolkien ;  Le influenze nordiche di T. ;   La revisione tolkieniana della tradizione romantica ;    Dove vanno gli Elfi ? T. e la tradizione Fantasy ;   Le epifanie morali nel SdA ;   Il paradiso terrestre nel SdA ;   Aspetti della Caduta dei Numenoreani ;   La grammatica delle lingue elfiche ;   Come i Russi vedono Tolkien;   La reazione dei critici alla fiction di T. ;    T. antitotalitario ;    Il Potere ad Arda : fonti, usi e abusi ;    Una mitologia per l’Inghilterra ;    Il Male e il Malvagio nella teologia di T. ;    Esplorazioni nella psiche dei Nani ;    Le tecnologie nella Terra di mezzo ;    In  memoria dei Baggins .  Da questa antologia sulle riviste  “Endòre” e “Terra di Mezzo” sono stati tradotti in italiano i saggi di Ranyer Unwin, Verlyn Flieger, Chris Seeman, Patrick Curry, Alex Lewis, Wayne Hammond, Jessica Yates, Tom Shippey, Nancy Martsch (gli ultimi quattro ripubblicati in Aa. Vv,  Introduzione a Tolkien, cit.)

                Raccomandabile sia per il livello dei singoli contributi sia per l’articolazione dei contenuti (e, tra l’altro, per l’intelligente e utile “selected bibliography “ sulla critica tolkieniana, redatta da Timmons, e che comprende sia libri sia saggi su riviste : pp. 200-206) è :  Aa. Vv. (a cura di G. Clark e Daniel Timmons), JRRT and His Literary Resonances : Views of Middle-Earth. Westport, Greenwood Press, 2000. La maggior parte dei saggi di questa antologia è dedicata alle influenze che su Tolkien hanno avuto altri autori.: il poeta del Beowulf,  il poeta dei Sir Gawain and the Green Knight, i poeti delle “saghe di famiglia” islandesi, William Morris, Geoffrey Chaucer , Sir Philip Sidney, John Milton, C. S. Lewis, Sir Henry Rider Haggard (l’autore de Le miniere di Re Salomone). Essa  contiene anche l’analisi  - a mia conoscenza - più tecnicamente approfondita delle poesie che Tolkien inserì  nei suoi romanzi . 

                Sulla History of Middle-Earth è , fino ad adesso, fondamentale :  Aa. Vv. (a cura di Verlyn Flieger e Carl F. Hostetter), Tolkien’s Legendarium : Essays on the History of Middle-Earth, Greenwood Press, Westport (Connecticut, USA) and London, 2000, pp. 274. Tra i vari contributi segnalo : quello di Christina Scull (sull’accidentata e non lineare storia dei  Silmarils) ;  quello di Wayne G. Hammond (sul metodo di invenzione occasionale e di revisione interminabile di Tolkien, suggerendo che l’arte tolkieniana deve  proprio alla mancanza di un piano prestabilito e alle incessanti varianti ed aggiunte la sua somiglianza alla “intima consistenza della realtà”) ; quello di David Bratman (sul valore letterario di alcune parti della HoME, da leggere con gusto come brani narrativi di per sé) ; quello di Joe Christopher (sulle influenze letterarie presenti nelle poesie di Tolkien) ; quello di Paul Edmund Thomas (che analizza i vari tipi di Narratore usati da Tolkien nelle molteplici varianti del primo  capitolo de Il Signore degli Anelli) ; quello di John D. Rateliff (sui rapporti tra l’incompiuto romanzo tolkieniano The Lost Road e l’incompiuto romanzo di C.S. Lewis The Dark Tower). Il libro contiene anche la bibliografia degli scritti (correlati o non correlati all’opera del padre) di Christopher Tolkien (pp.247-252).

                Sui rapporti con la letteratura fantasy precedente a Tolkien e , soprattutto, a lui successiva , si veda : Aa. Vv. (a cura di Karen Haber), Meditations on Middle-Earth, Saint Martin’s Press, New York, 2001, pagine 235; in questo libro danno conto del loro debito verso Tolkien importanti romanzieri fantasy di oggi : Orson Scott Card, Ursula Le Guin, Terry Pratchett, Charles De Lint, George R.R. Martin, Poul Anderson, Harry Turtledove e altri

[xxviii]          JRRT : Six Decades of Criticism, cit., p. 236 (traduzione mia).

[xxix]           Return of the Heroes : The Lord of the Rings, Starwars and Contemporary Culture, Cybereditions, 2003, pp. 176, il cui nucleo è  in un articolo – apparso sulla rivista del the Australian Institute for Public Policy - citato  da Drout e Wynne, Tom Shippey’s JRRT etc., cit.

[xxx]           Defending Middle-Earth. Tolkien: Myth and Modernity , HarperCollins, London, 1998. Di questo libro una esposizione breve fatta dallo stesso autore è in Less Noise and More Green : Tolkien’s Ideology  for England, in Aa. Vv. , Proceedings, cit., pp. 126-138 (tradotto in italiano : Meno rumore e più verde : l’ideologia di Tolkien per l’Inghilterra, in “Endòre”, numero uno, marzo 1999, pp. 30-43).

[xxxi]           La pubblicazione del capolavoro di  Tolkien nella Italia degli Anni Settanta è merito della casa editrice Rusconi di Milano,  allora unanimemente ritenuta “di destra” , che – e questa fu un’operazione  assai meno meritoria - tolse la Prefazione scritta dallo stesso Tolkien e la sostituì con una prefazione di Elemire Zolla all’insegna della cultura Tradizionale e Antimoderna ; questa prefazione di Zolla  è rimasta in tutte le numerose ristampe dell’edizione italiana , anche dopo che, fallita la Rusconi, Il Signore degli Anelli è passato alla casa editrice Bompiani. Dal novembre del 2003 , però (dopo 50 anni dall’uscita del romanzo di Tolkien e 34 anni dalla traduzione italiana), il lettore italiano può leggere anche la Prefazione (Foreword) scritta da Tolkien. Per molti  dettagli da parte di un testimone diretto di questi eventi si veda :  Quirino Principe, Note sulla  vicenda editoriale di Tolkien in Italia, in Aa. Vv. (a cura di Franco Manni), Tolkien e la Terra di Mezzo, Grafo Editrice, Brescia, 2003, pp. 57-66 ( Q. Principe è tornato sulla vicenda in occasione della morte di Alfredo Cattabiani -   intellettuale di destra e direttore editoriale della Rusconi, al quale in primo luogo si deve la pubblicazione italiana di Tolkien -  in Io, Alfredo e il Signore degli Anelli, supplemento culturale de “Il Sole 24 ore” del 25 Maggio 2003). Attualmente la più  seguita  associazione tolkieniana da noi è la Società Tolkieniana Italiana, costituitasi nel febbraio del 1994 a Udine. Il suo presidente, Paolo Paron, il suo vicepresidente, Adolfo Morganti,  e il direttore della sua principale pubblicazione (la rivista “Minas Tirith”), Gianfranco De Turris, sono membri ( e De Turris è il presidente) della Fondazione “Julius Evola”, dedicata a uno scrittore fascista e antisemita che negli Anni Trenta teorizzò una teoria razzista “originalmente italiana”.

[xxxii]                  Si consideri, per esempio, che il più stimato degli intellettuali di sinistra, Umberto Eco - pur amante e studioso sia del Medioevo, sia di narrativa, sia soprattutto dei fenomeni della società di massa, che così meritoriamente ha contribuito a portare all’attenzione degli studiosi, esortandoli a superare i tabù snobistici dell’accademia -  ha sempre ignorato Tolkien, se non per rivolgergli battutine  come : “una generazione [quella degli Anni Ottanta, NdR] che si diletta sul Silmarillion di Tolkien e decifra una teogonia che gli impone di memorizzare i figli di Iluvatar e i Quendi e gli Atani e i prati fioriti di Valinor e le ferite di Melkor. Tutte cose che, se avesse dovuto studiarle a scuola, la stessa generazione avrebbe occupato l'università o il liceo per protesta contro il nozionismo.” (da "L'Espresso" del 25 marzo 1979) ; o come : “E' nazista ogni vagheggiamento di una forza, eminentemente virile, che non sappia né leggere né scrivere: il Medioevo, con Carlo Magno che appena sapeva fare la propria firma, si presta mirabilmente a questi sogni di un ritorno alla villosità incontaminata. Quanto più peloso il modello, tanto maggiore il vagheggiamento: l'Hobbit sia modello umano per i nuovi aspiranti a nuove e lunghe notti dei lunghi coltelli. “(Dieci modi di sognare il Medioevo, in Sugli specchi, Bompiani, Milano, 1985, pp. 84-85)

                Della “grande opera”  Einaudi diretta da Franco Moretti (fratello del più noto Nanni), intitolata Il Romanzo, sono oramai usciti tutti e cinque i volumi previsti. Nel primo (2001) di 919 pagine Tolkien non è mai citato ; nel secondo (2002)di 748 pagine vi è a pag. 436 una citazione di due righe a proposito dell’immaginare mondi dotati di  un Sole verde e a pag. 174 una citazione di una riga a proposito dei giochi di ruolo ispirati alla fantasy di tipo tolkieniano ; nel terzo (2002) di 812 pagine Tolkien non è mai citato ; nel quarto (2003) di 865 pagine vi è a pag.459 una citazione di una riga sullo scenario del  bosco che entra nei romanzi di Tolkien. ; nel quinto (2003) di 714 pagine Tolkien non è mai citato.

                Se si consultano le annate del principale quotidiano della sinistra italiana, “La Repubblica”, le occorrenze tolkieniane negli anni 1985-2000 (su cui ho potuto fare una ricerca completa, grazie ai CD Gli anni de La Repubblica che contengono tutti i testi delle intere annate) sono : un cenno di recensione lungo 10 righe su I racconti perduti il 19 dicembre 1987; una recensione di 25 righe delle Lettere , il 23 febbraio 1991; un articolo corposo per il centenario della nascita lungo 82 righe,  il 2 gennaio 1992; sempre per il centenario un articolo di 74 righe su un convegno tolkieniano organizzato dal cardinal Biffi , il 29 novembre 1992; un riassunto di 11 righe de Il signore degli anelli, il  26 aprile 2000 ; una breve recensione di Mr. Bliss lunga 17 righe, il 20 novembre 2000. 

                Solo negli ultimi due anni, a seguito del successo popolare  ottenuto dai film di Peter Jackson, anche se sui media della sinistra il disinteresse per lo studio di Tolkien in sé stesso (cioè per le sue storie, i suoi personaggi, i suoi temi, e non per “il fenomeno sociologico-politico” che esso rappresenterebbe) permane, si è ridotto il disprezzo, o almeno la sua espressione esplicita. Per altre opinioni di intellettuali di sinistra su Tolkien si vedano  le mini-interviste fatte da Massimiliano Di Giorgi, giornalista dell’Agenzia Reuters, a Goffredo Fofi, Stefano Benni, Alessandro Baricco, Michele Serra, Agostino Lombardo (sito internet Archivio di Verona Informa,. Giugno 1999-Marzo 2002).

                Invece, sulla  strumentalizzazione di Tolkien operata dalla destra culturale e politica in Italia dagli Anni Settanta fino ad oggi,  attualmente il libro di gran lunga più informativo sull’argomento è quello di Lucio Del Corso e di Paolo Pecere, L’anello che non tiene. Tolkien tra letteratura e mistificazione, Minimum Fax, Roma, 2003, specificamente alle pagine 13-42, 62-106, 161-187. Questo recente saggio , peraltro, mostra in maniera direi istruttiva  l’atteggiamento di molti intellettuali di sinistra quando si occupano di Tolkien, assai simile (nonostante le intenzioni) a quello degli intellettuali di  destra : interessati in primo luogo agli aspetti sociologici e politici, cioè a un contorno extraletterario e secondario ( nella cui descrizione peraltro in questo libro si mostra una buona efficacia dialettica e una incisiva informazione), e solo poco e secondariamente interessati  all’opera in sé di Tolkien. Infatti i due autori mostrano di non avere letto Il Silmarillion,  I Racconti Incompiuti di Numenor e della Terra di Mezzo  e  The History of the Middle-Earth ;  di non avere letto i principali libri di critica  (quelli di Flieger, Lewis, Curry, i Proceedings del centenario  e tutti gli altri, tra cui in primis proprio i libri di Shippey) ; citano come migliore libro italiano di critica tolkieniana il libro di Oriana Palusci che è, in assoluto, il libro italiano più ostile a Tolkien, ai suoi ideali, al valore letterario della sua opera ; irridono  “il fanatismo” delle varie associazioni tolkieniane sparse per il mondo e in generale disprezzano  il valore critico degli studi provenienti dal mondo degli appassionati , quando invece Gary Hunnewell, Tom Shippey, Wayne Hammond più volte hanno sostenuto come la parte più creativa della critica tolkieniana sia venuta non dalla critica professionale ma dagli appassionati  (ai quali, per accidens, può anche capitare di essere docenti universitari, ma studiano Tolkien in quanto appassionati di Tolkien e non in quanto Docenti di Anglistica o di Teoria Letteraria in cerca di un purchessia autore di cui occuparsi ) ; dileggiano lo studio delle lingue  inventate da Tolkien e, citando gli studi sull’elfico di Edouard Kloczko e della rivista  “Vinyar Tengwar” edita da Carl Hostetter, ne  parlano come di un  “documento dell’assurdità della specie umana” ; sostengono  (proprio come i tolkieniani di destra) che il messaggio principale di Tolkien sia  una “laudatio temporis acti” ; definiscono “inquietante” il fatto che studiosi universitari statunitensi abbiano scritto libri su Tolkien  o addirittura insegnino Tolkien nei loro corsi (cose, queste due, peraltro entrambe fatte da Shippey nella sua università statunitense).

                Cito ancora Judith A. Johnson (JRRT : Six Decades of Criticism, cit., p. 135) : “A careful review of the six decades of critical response to Tolkien’s work makes it clear that the supposed chasm between Tolkien’s ‘scholarly’ and ‘popular’ audiences is often nothing more than the same invisible line that Tolkien himself continually criss-crossed during his life”.

[xxxiii]          Come per esempio Paolo Gulisano, Tolkien : il Mito e la Grazia, Editrice Àncora, Milano, 2001 Cfr. le pagine 8, 9, 13-15, 26-27, 70, 144-145, 147, 174, 185-186 (ringrazio Simone Bonechi per la ricerca dei passi topici).

                In realtà nel Signore degli Anelli – con cui si chiude la Terza e si apre la Quarta Era, quella degli Uomini – non si esalta alcuna nostalgia del passato : né per l’orgoglio e la disperazione degli Elfi della Prima Era, né per l’orgoglio e la disperazione degli Uomini della Seconda Era, né per la confusione e l’impotenza della Terza Era. Tolkien varie volte ben descrive l’esistenza della nostalgia, come esperienza realmente presente sia nei popoli sia nei singoli, ma mai la esalta. Conclude il romanzo parlando dell’hobbit Sam che nella sua primogenita Elanor vide viva (e volta al futuro, come oggettivamente è quando consideriamo i giovani) la bellezza elfica che lo aveva affascinato, e non fu inquieto ma fu in pace (devo questa riflessione a un colloquio con fra’ Paolo Maria o.c.d. [Paolo Barbiano di Belgiojoso] nel Settembre 2003). E Tolkien  aveva interpretazioni innovative anche su punti specificamente dogmatici come quello del peccato originale, e sulla morte che da Tolkien non è vista come conseguenza del peccato (qui ringrazio invece fra’ Alberto Quagliaroli c.m. , della congregazione dei Vincenziani, che mi ha parlato di un suo studio sui rapporti tra Tolkien e quella teologia cattolica degli Anni Venti-Cinquanta che stava preparando  il Concilio Vaticano II).

[xxxiv]        Come per esempio Errico Passaro, Tolkien pagano, in “ Minas Tirith”, numero 9, solstizio di estate 2000.

[xxxv]          Il titolo di questa traduzione italiana è quello consigliato da Shippey stesso, io gli avevo obiettato che l’edizione inglese era uscita nel 2000 – ultimo anno del XX secolo – e dunque allora l’espressione “autore del secolo” era inequivocabile, mentre uscendo la traduzione italiana nel 2004 forse qualcuno avrebbe potuto pensare a Tolkien come oracolistico autore dell’ignoto XXI secolo, e dunque suggerivo la possibile modifica “autore del XX secolo”. E Shippey mi ha risposto : “I HOPE that the 21st century will be so much more peaceful than the 20th  that there will  be no chance of Tolkien being its author too!”

[xxxvi]          Per una analisi approfondita di questo e di altri paradossi temporali, si veda il mio Storia reale e storia immaginaria ne Il Signore degli Anelli, “Terra di Mezzo”, numero 4, settembre 1996, pp. 24-35 ; ora anche online sui siti di Tirion e di Girsa Crew.

[xxxvii]         A questo proposito si leggano le pagine intitolate Circa Galadriel e Celeborn, scritte da Tolkien dopo Il Signore degli Anelli, e le relative considerazioni del curatore delle edizioni postume, Christopher Tolkien (Racconti incompiuti di Nùmenor e della Terra di Mezzo, Rusconi, Milano, 1981, pp. 311-346.

[xxxviii]        È questo un importante problema della biografia intellettuale di Tolkien che meriterebbe uno studio sistematico ed apposito, soprattutto ora che – grazie a Christopher Tolkien – disponiamo dei dodici volumi della History of Middle-Earth, e cioè : come la scrittura de Il Signore degli Anelli abbia modificato il corpus de Il Silmarillion fin nelle sue idee più fondamentali, come emerge con evidenza, per esempio, nella sezione Myths Transformed presente in  The Morgoth’s Ring, decimo volume della serie (HarperCollins, London, 1994, pp. 369-431) ; e anche come Tolkien nell’ultimo decennio della sua vita, quando il successo gli avrebbe permesso di pubblicare qualsiasi cosa, decise di non pubblicare il corpus de Il Silmarillion . Un primo passo verso questo studio è stato fatto da Alex Lewis e Elisabeth Currie nel loro libro The Uncharted Realms of Tolkien (Medea Publishing, Wimbledon, 2002, pp. 81-147). Se Shippey chiama Il Silmarillion “appendice”, Stephen King lo chiama quasi allo stesso modo, “epilogo” ( On Writing, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 2001, p. 134).

                Per un lungo e analitico resoconto dei contenuti dei dodici volumi della History of Middle-Earth, rimando al mio La Storia della Terra di Mezzo, in Aa. V., Introduzione a Tolkien, cit., pp. 37-54 (ora anche online sul sito web  italiano di Tirion e su quello statunitense della Valar Guild).

[xxxix]          Come, per citare un esempio minore, il problema linguistico dei “gerghi professionali” che, nel mondo della politica come in quello della cultura, costituisce una problema caratteristico del XX secolo, come già notato da Orwell e come Shippey discute parlando del capitolo tolkieniano La Voce di Saruman .

[xl]              Su tutti questi temi, e su altri, e seguendo la stessa linea che mostra Il Signore degli Anelli nella sua realtà di romanzo del XX secolo, vorrei raccomandare uno degli studi organici migliori che io abbia letto, anche se, dato il  luogo e la casa di edizione è assai malconosciuto, e cioè il colto e profondo libro di Christopher Garbowski, Recovery and Transcendence for the Contemporary Mythmaker. The Spiritual Dimension in the Works of J. R. R. Tolkien, Marie Curie Sklodowska University Press, Lublin, 2000, 230 pagine. L’autore, canadese-polacco, è uno tra gli  studiosi tolkieniani più competenti  in Teologia e in Sacra Scrittura che io conosca, il quale non si limita a una conoscenza esterna e sociologico-giornalistica del fatto religioso come invece fa  , per esempio, Joseph Pearce  (e tanti altri); per la problematica religiosa si vedano particolarmente le pagine 53-57 e 121-175.

[xli]             Fiorenzo Delle Rupi, Il Signore degli Anelli come romanzo moderno, in Aa. Vv., Introduzione a Tolkien, cit., pp. 168-175 ; e anche : Fiorenzo Delle Rupi, Tolkien tra letteratura “di genere” e letteratura mainstream, in Aa. Vv, Tolkien e la Terra di Mezzo, cit., pp. 13-26.

[xlii]            Chris Seeman, Tolkien’s Revision of the Romantic Tradition, in Aa. Vv., Proceedings, cit., pp. 73-83 (Tolkien e la revisione della tradizione romantica, “Endòre” numero 3, Settembre 2000, pp. 4-15)

[xliii]            Pensiamo a questa coppia di figlio e padre, di cui Shippey scrive (The Road, cit., p. 125) : “[Boromir] never touches the Ring, but desire to have it still makes him turn to violence. Obviously his original motive is patriotism and love of Gondor, but when this leads him to exalt ‘strength to defend ourselves, strength in a just cause’, our modern experience of dictators immediately tells us that matters would not stay there. Kind as he is, one can imagine Boromir as a Ringwraith ; his never-quite-stated opinion that ‘the end justifies the means’ adds a credible perspective to corruption. The same could be said of his father Denethor, to whom Gandalf again makes the point that even unhandled the Ring can be dangerous”.

[xliv]            Per esempio Gianfranco De Turris, che,  in un suo articolo (Tolkien in “Il Giornale” di giovedì 10 gennaio 2002), pur avendo poche righe prima correttamente ricordato che lo scopo della Compagnia è quello di distruggere e non di recuperare  l’Anello, poco dopo scrive : “Di fronte ad essa [la Compagnia] si erge un nemico, Sauron Signore Oscuro di Mordor, che intende fare un uso distorto del potere degli Anelli : esso rappresenta simbolicamente la Modernità, l’insieme della dittatura materialista dell’est e del peggiore industrialismo senz’anima dell’ovest”. Così De Turris suggerisce che si possa fare un uso “non distorto” dell’Anello, magari (come già qualcuno, e cioè Hitler,  cercò di fare, proprio ai tempi in cui Tolkien scriveva il romanzo) contrastando la “modernità”, e cioè contrastando il comunismo sovietico a est e il capitalismo anglosassone a ovest. Dobbiamo inoltre osservare che Tolkien stesso nel Foreword alla seconda edizione del  romanzo allude a una cosa del tutto diversa, e cioè che – se il romanzo fosse una allegoria, cosa che non è  - i Popoli Liberi rappresenterebbero  gli Angloamericani, Sauron rappresenterebbe  il Nazifascismo, l’Isengard di Saruman rappresenterebbe  la Unione Sovietica di Stalin e l’Anello la bomba atomica.

                Ancora più evidente è questo fraintendimento in un altro scritto di De Turris (J.R.R. Tolkien e l’evasione del prigioniero, in “L’Officina”, supplemento mensile del quotidiano “Linea”, anno  primo, numero 5, Maggio 2002, pp. 11-12) quando egli scrive : “La storia narrata da Tolkien nella sua opera principale, ma che ha riferimenti con tutte le altre da lui scritte, è quella della ‘Guerra dell’Anello’ (questo, tra parentesi, era il titolo originario del libro), il tentativo di recupero e distruzione dell’Ultimo Anello in possesso dell’Oscuro Signore Sauron, da parte di un gruppo di coraggiosi, la Compagnia dell’Anello”(pag.11) ; “La trama de Il Signore degli Anelli è dunque ‘classica’ e ricalca esattamente quella degli antichi romanzi cavallereschi” (pag.12).  [ringrazio Carlo Stagnaro e Alberto Mingardi per la segnalazione di questi due testi di De Turris]

                Chi ha letto almeno una volta  Il Signore degli Anelli sa che De Turris prende un grosso abbaglio, perché l’Anello non è affatto “in possesso” di Sauron e non deve essere “recuperato” , in quanto esso  è in possesso della Compagnia sin dall’inizio del romanzo. E chi conosce i romanzi del ciclo bretone e la saga dell’Edda sa bene che è    che invece l’Oggetto della quest deve essere recuperato e non deve essere distrutto. Ma questo abbaglio risponde proprio all’ideologia  di chi non riesce a capire la profonda innovazione e modernità del romanzo di Tolkien rispetto ai romanzi cavallereschi “classici” (cioè medievali) cui lo si vorrebbe a forza assimilare. Un’ideologia che potremmo chiamare “anti-Lord Acton”, o “antimoderna” .

[xlv]            Shippey ricorda ( The Road, cit., p. 124 e nota numero 2 a p. 314) che Lord Acton inserì questa frase in una lettera dal contesto fortemente antipapale (dopo la proclamazione dell’infallibilità del Concilio Vaticano I). Lord Acton in effetti era un cattolico sinceramente liberale che era stato costretto a lasciare la direzione del mensile cattolico “The Rambler” a causa delle pressioni romane, perché egli usava un rigoroso metodo storiografico anche in materia religiosa e si opponeva alla proclamazione dogmatica della infallibilità, proprio come il suo amico, il futuro cardinale Newman.

[xlvi]            Il contesto di questa frase di Shippey in  Author of the Century è : “While critics have found fault with almost everything about The Lord of the Rings, on one pretext or another, no one to my knowledge has ever quibbled with what Gandalf says about the Ring. It is far too plausible, and too recognisable. It would not have been so before the many bitter experiences of the twentieth century. If one fits together the three points which Gandalf makes in this early chapter [The Shadow of the Past, NdR], it would be a dull mind, nowadays, which did not reflect, ‘All power corrupts, and absolute power corrupts absolutely’.   Per il parallelo tra il romanzo tolkieniano e le due guerre mondiali del XX secolo si veda anche Christopher Garbowski, Recovery and Transcendence, cit., pp. 208-209.

[xlvii]           Si veda la descrizione della personalità di Adolf Eichmann in : Hannah Arendt, La banalità del male (1963), Feltrinelli, Milano, 2001 ; e si leggano le interessanti pagine sul “Padre di Famiglia” (definito da Charles Peguy “le grand aventurier du 20eme  Siecle”) in : Hannah Arendt, Ebraismo e modernità (1945), Feltrinelli, Milano, 2001, pp. 71-73.

[xlviii]          Tolkien as a Post-War Writer in Proceedings, cit., p. 86 (tradotto in italiano in Tolkien e la letteratura fantastica postbellica, in Aa. Vv., Introduzione a Tolkien, cit., p. 293)

[xlix]            Da Severino Boezio, filosofo cristiano del VI secolo. Ritengo però più esatto l’aggettivo “agostiniano” usato, trattando lo stesso argomento, da Fiorenzo Delle Rupi (Manicheismo e Agostinismo ne Il Signore egli Anelli, in Aa. Vv,. Introduzione a Tolkien, cit., pp. 210-215), in quanto Agostino  precede di un secolo Boezio nel quale  forte è l’eredità agostiniana sia nella forma letteraria (si veda Christine Mohrmann, Introduzione al boeziano De consolatione philosophiae, Rizzoli, Milano, 1988, pp. 21-23) sia soprattutto per le idee di fondo sul Male come privazione di Bene ( si veda Aurelio Agostino, Sulla natura del bene [De Natura Boni], Rusconi, Milano, 1995) e sulla Provvidenza (si veda Etienne Gilson, La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo [1952], La Nuova Italia, Firenze, 1990, p. 173).

[l]               Da Mani (Manes o Manichaeus) figlio di Patek, nato a Babilonia nel III secolo d. C. , fondatore di una religione sincretistica che si rifaceva al buddismo, al cristianesimo e soprattutto alla antica religione persiana dualistica di Zoroastro.

[li]              Shippey individua un possibile candidato a questo ruolo nello Spettro dei Tumuli, nel mentre fa una dettagliata e affascinante analisi di tutti i punti dell’enigmatica sequenza degli hobbit sequestrati dallo Spettro e liberati da Tom Bombadil (Tom Shippey, Orcs Wraiths, Wights , in Aa.Vv., JRR Tolkien and his Literary Resonances, cit., pp. 193-196

[lii]              È come suggerisce chiaramente l’ironia di Voltaire nel capitolo quinto del Candido quando l’anabattista Giacomo cade in mare dalla nave e il professor Pangloss impedisce ai marinai di soccorrerlo,  con questo argomento : la baia di Lisbona è stata fatta da Dio proprio al fine che l’anabattista vi cadesse dentro. Un marinaio più filosofo , però, avrebbe potuto gettarsi in acqua, salvare l’anabattista e poi avrebbe potuto rispondere a Pangloss : “sì, ma questa baia  è stata fatta da Dio anche al fine che un marinaio, cioè io,  soccorresse e salvasse l’anabattista che vi era caduto, come in realtà è successo”.

[liii]             Sulla fede e sul carisma profetico di Gandalf rimando al mio La religione in Tolkien, in Aa. Vv., Introduzione a Tolkien, cit.,  pp. 216-218, 224

[liv]             (1953), in J. R. R. Tolkien, Albero e Foglia, Rusconi, Milano, 1988, pp. 195-229. Un’ottima esposizione di questo punto è in : Emilia Lodigiani, Invito alla lettura di Tolkien, Mursia, Milano, 1882, pp. 169-178.

[lv]              Roger Sale, Tolkien and Frodo Baggins, in Aa. Vv. (a cura di Neil Isaacs and R. Zimbardo), Tolkien and the Critics, University of  Notre Dame, 1968, p. 251, citato da Garbowski, Recovery and Transcendence, cit., p. 106, traduzione mia.

[lvi]             “ For what has Ingeld to do with Christ? The house is narrow. It cannot contain them both. The King of Heaven wishes to have no fellowship with lost and pagan so-called kings; for the eternal King reigns in Heaven, the lost pagan laments in Hell”. Lettera di Alcuino a Speratus, abate del monastero di Lindisfarne, del 797 o 798 d. C. , riportata da Tolkien in Beowulf and the Critics (a c. di M. Drout), cit, p. 123 ; e Tolkien commenta : “

[lvii]            J. R. R. Tolkien, The Lord of the Rings, parte terza, libro quinto, capitolo settimo. Ho usato la traduzione italiana di Vicky Alliata di Villafranca aggiungendo solo la parola “pagani” , traduzione della parola inglese “heathen” che la traduttrice ha omesso.

[lviii]               Fraintende il carattere dei Rohirrim Errico Passaro (in Tolkien pagano, cit.) quando  (citando Marco Paggi e riferendosi all’episodio de Il Signore in cui i guerrieri di Rohan combattono nella battaglia dei Campi del Pelennor) scrive : “l'etica guerriera di tutti i popoli della Terra di Mezzo, hobbit esclusi, appare poco conciliabile con il messaggio di pace del Nuovo Testamento, rimandando piuttosto allo spirito delle Crociate, alla belluina fede del Vecchio Testamento e, prima ancora, all'eroismo berserk di netta marca scandinava, in cui alla cieca furia guerriera si unisce il brivido fanatico del corteggiamento alla morte, di stampo germanico. alla 'gioia della battaglia.' più acre e sanguinosa, che non si adagia nel colorismo cortese preferendogli un feroce simbolismo solare e un'epicità dalle tinte più forti e viscerali ".

     Passaro fraintende, in primo luogo perché, se è vero che lo spirito dei Crociati è assai lontano dal messaggio evangelico, è altrettanto vero che le crociate come molte altre sanguinose guerre di religione sono state fatte da cristiani e non da pagani, e fallace è il sillogizzare che, se un cristiano pecca contro il vangelo, allora smette di essere cristiano e diventa pagano (altrimenti tutti i cristiani, essendo tutti peccatori, sarebbero tutti pagani). In secondo luogo Passaro fraintende  perché quando Eomer, capitano dei Rohirrim, grida “Morte, morte, morte!” nel pieno della battaglia : 1) si trova , appunto nel pieno di una battaglia difficilissima contro un nemico armato e soverchiante ; 2) Tolkien nota esplicitamente che questo è un momento di “follia” (causato dall’inaspettato ritrovamento di Eowyn sul campo di battaglia e dalla sua  presunta morte) nell’altrimenti gentile ed equilibrato Eomer.

[lix]             J. R. R. Tolkien, Beowulf and the Critics (a cura di Michael Drout), Arizona Center for Medieval and Renaissance Studies, Tempe (Arizona), 2002, pp. 123-124, traduzione mia (Tolkien allude al Vangelo di Giovanni capitolo 14 versetto 2 quando – in antitesi alle parole di Alcuino - parla della “casa ampia”).  In questo libro il professor Drout offre l’edizione critica e commentata di due scritti di Tolkien preparatori alla conferenza Beowulf : the Monsters and the Critics , il testo della quale è orami edito da quasi settanta anni. Invece solo poco più di un anno fa il professor Drout ha pubblicato questi studi preparatori (assai interessanti perché considerevolmente più lunghi e dettagliati rispetta alla versione definitiva della conferenza), che nel 1996 aveva reperito manoscritti in un faldone della Bodleian Library di Oxford.

[lx]              Beowulf and the Critics, cit., p. 123, traduzione mia.

[lxi]             J. R. R. Tolkien, Beowulf and the Critics (a cura di Michael Drout), cit., pp. 98-99. Per quanto riguarda Grundtvig, Nils Agøy già nel 1992 aveva argomentato in maniera molto convincente su come Tolkien non potesse non conoscerlo, ma mancava la prova diretta perché in nessuna pubblicazione di Tolkien compariva questo nome. Ora la prova diretta c’è.

[lxii]            Nils Ivar Agøy, Quid Hinieldus cum Christo?, in Aa. Vv., Proceedings, cit. pp. 32-33, traduzione mia. “Sia Tolkien sia Grundtvig credevano fermamente nella Teologia Naturale [diversa da una Teologia Positiva, cioè da una dogmatica particolare di una particolare Rivelazione religiosa, NdR], ma - come sottolineato da Colin Duriez nel caso di Tolkien - entrambi ritenevano che tale Teologia Naturale si fondasse sulla Fantasia (o Immaginazione) piuttosto che sulla Ragione” (p. 34).

[lxiii]            Cfr. la discussione di queste traduzioni della parola ‘Wyrd’  in Shippey, The Road, cit., pp.136-137.

[lxiv]            Tolkien, Beowulf and the Critics, (a cura di Michael Drout) cit., p. 89.

[lxv]            Ibidem, p. 131, traduzione mia.

[lxvi]          Karl Rahner (1904-1984), gesuita, fu ordinario di dogmatica cattolica presso le università di Innsbruck, Monaco e Munster, fu teologo perito nel Concilio Vaticano II, fu tra i fondatori della rivista “Concilium”, fu membro della Commissione Teologica Internazionale. Nella meditazione Attualità e possibilità della fede ai giorni nostri tratta da Saggi di spiritualità, Edizioni Paoline, Milano, 1966, Rahner scrive : “Vedo intorno a me migliaia e migliaia di uomini, vedo interi sistemi culturali, vastissime epoche storiche che esplicitamente non sono affatto cristiani. Guardo con occhi attoniti sorgere un’era in cui il cristianesimo non rappresenta ormai più un elemento ovvio e pacifico in seno all’Europa e al mondo. Ne sono consapevole; ma in fondo in fondo, nemmeno questo fatto riesce a scuotere la mia fede. Perché? Per la semplice ragione che io vedo dappertutto pulsare un cristianesimo anonimo; per il motivo che, nel mio cristianesimo esplicito, non scorgo un’idea affiancata a tante altre ad essa contrastanti, bensì null’altro fuorché la presa di coscienza già attuata di tutta quella fioritura di verità e d’amore che anche fuori dall’aiuola cristiana sboccia e può sbocciare dappertutto. I non cristiani non li considero né creature più ottuse di me, né gente animata da minori buone intenzioni delle mie.”

[lxvii]           Su come è trattato da  questi due autori il problema dell’elevazione soprannaturale creaturale, vedi p. Louis Ladaria s. j. , Antropologia Teologica, Università Gregoriana Editrice, Roma, 1986, pp. 120-131.

[lxviii]          Tradizionale ma poco nota : “Ogni uomo che , pur ignorando il vangelo di Cristo e la sua chiesa, cerca la verità e compie la volontà di Dio come la conosce può essere salvato” (Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, 1993, numero 1258)

[lxix]            Perché la chiesa visibile non esiste ancora o esiste ma non è vicina né è  realisticamente avvicinabile ; perché la chiesa ha annunciato solo in maniera verbale ma in mezzo a  gravi scandali morali che svuotano l’annuncio ; perché la chiesa ha annunciato in maniera gravemente difettosa dal punto di vista della dottrina ; perché la chiesa ha annunciato troppo poco ; perché l’ascoltatore dell’annuncio è in condizioni soggettive gravate da ostacoli psicologici tali che impediscono la consapevolezza , e così via.

[lxx]            Garbowski, Recovery and Transcendence, cit., p. 123, traduzione mia.

[lxxi]            Cfr. T. Luckmann, La religione invisibile, Il Mulino, Bologna, 1969 ; P. L. Berger, Il brusìo degli angeli, Il Mulino, Bologna, 1969 ; P. Vanzan e G. Basso, Bibliografia italiana della secolarizzazione e della ‘morte di Dio’, in “Rassegna di Teologia” numero 11(1970), pp. 120-141 e numero 13 (1972), pp. 195-213. Per una trattazione breve e facilmente accessibile (con ampia bibliografia) si veda la voce Secolarizzazione di A. Milano, in Giuseppe Barbaglio e Severino Dianich (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia, Edizioni Paoline, Roma, 1982, pp. 1438-1466.

[lxxii]           Così chiamata da Costantino il Grande, il quale inizia un (lungo) periodo in cui il cristianesimo è tentato di venire a patti col Potere, o addirittura di cercarlo avidamente.

[lxxiii]          Corso fondamentale della fede,(1976), trad. italiana Edizioni Paoline. Milano, 1984, pp. 512—513.

[lxxiv]          Giovanni : 3,16. Il discorso è lungo , ma il terreno è stato ben dissodato da mezzo secolo di esegesi biblica e di teologia biblica. Ricordo - a chi fosse curioso di vedere quanto all’interno del cattolicesimo i tempi di oggi siano diversi da quelli del nostro recente passato -  di leggere o rileggere la Gaudium et Spes, costituzione pastorale del Concilio Ecumenico Vaticano II riguardante i rapporti tra la chiesa e il mondo contemporaneo.  Ricordo poi di J. B. Metz, Sulla teologia del mondo, Brescia, 1971, e , come trattazioni brevi, la voce Mondo di G. Bof in Nuovo dizionario di teologia, cit., pp.945-961 e la voce Corpo di C. Squarise o.f.m. in Aa. Vv. ( a cura di Leandro Rossi e Ambrogio Valsecchi), Dizionario enciclopedico di teologia morale, Edizioni Paoline, Milano, 1987, pp. 149-166.

[lxxv]           Il quale personalmente è stato educato come anglicano, insegna in una università cattolica e dice di non essere un “cristiano engagée” cioè un cristiano che scriva o parli in pubblico con l’intento di fare un’apologia del cristianesimo (da una e-mail  inviatami da Shippey  il 2 novembre 2003).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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