Franco Manni

 

 

Per una lettura della saga di Harry Potter

 

 

 

 

 

Una saga di sette libri

Ho letto tutti e sette i libri della saga, ma non con lo stesso piacere e soprattutto i primi due me ne hanno dato poco: troppo “bambineschi” per i miei gusti. I gusti sono gusti, come si dice, e anche negli altri libri - che pure mi hanno interessato assai di più - certe parti le ho saltate con impazienza, soprattutto le descrizioni delle partite di Quiddich. La saga della Rowling secondo me è importante: perchè ha venduto più copie di qualsiasi altra creazione letteraria della storia umana, e perchè veicola – con una strategia narrativa molto efficace e non priva di originalità artistica -  dei temi morali di primo rilievo. Specificamente, tali temi morali li chiamerò “educativi” in quanto la saga è stata letta soprattutto (anche se non esclusivamente: vedi per esempio chi scrive!) da bambini, ragazzi e giovani.

Tra i molti aspetti e temi sia artistici sia contenutistici farò in questo mio intervento solo una piccola selezione, a motivo sia dello spazio concessomi  sia dei miei interessi personali.

 

La vita in diretta

Per quanto riguarda gli aspetti artistici l’originalità maggiore in questa saga è la crescita di livello evidente che c’è tra libro e libro: le vicende diventano sempre più drammatiche, il background del passato e del presente sempre più vasto e complesso, le riflessioni morali sempre più profonde. E questo, per così dire, in “tempo reale”: l’autrice segue contemporaneamente sia la crescita anagrafica e psicologica dei suoi protagonisti sia la crescita anagrafica e psicologica dei suoi lettori. Un particolare esempio di questo virtuosismo narrativo è la maniera in cui l’autrice ripesca personaggi che nei libri precedenti avevano un ruolo comico, per dare loro un ruolo drammatico: mi vengono in mente Dobby (l’elfo domestico), Petunia (la zia di Harry), Draco Malfoy e i suoi supporter bulli come Tiger.

Un altro esempio di tale virtuosismo narrativo è la maniera in cui l’autrice intreccia gli eventi, i gesti, le dicerie, le osservazioni che sono stati presentati nei libri precedenti e progressivamente - come fili sparsi e multicolori nell’opera di una sapiente tessitore di un grande arazzo - tutti gli spunti inizialmente slegati tra loro vengono a interconnettersi: l’effetto finale prodotto da questa attento gioco di incastri è l’idea che il lettore riceve di come la Storia sia un’opera corale e complessa , in cui tutti giocano una loro parte essenziale, anche se apparentemente – nel mentre agivano e succedevano – molti personaggi e molti eventi sembravano di piccola importanza, privi di cause e privi di effetti.

 Prova, o lettore, a soffermarti un momento su questo punto: pensa a te stesso, alla tua vita: a volte, passando  gli anni, se per intenzione o per necessità capita di riflettere sul passato, si riesce a capire almeno un po’ come certi fatti e certe persone abbiano giocato un ruolo importante anche se, al momento, non sembravano contare niente. Certo, i romanzi della Rowling, essendo opera di fiction godono della “onniscienza” dell’Autore, che permette una comprensione più vasta e sicura rispetto a  quella che accade di solito nella realtà, però – ecco – questo, anche se esagerato nell’opera letteraria, ci dice qualcosa di vero e importante che c’è nella vita: la nostra vita non è un percorso solitario né è un percorso progettato, ma intuiamo che è come un filo intrecciato con numerosissimi altri in un complesso arazzo.

Un altro pregio artistico della saga - questo però non particolarmente originale in quanto oggigiorno sono molti gli scrittori ad averlo, soprattutto nel mondo anglosassone – è la capacità di avvincere attraverso la suspense della trama, l’intensità delle scene, il pathos dei personaggi. Questo, e la chiarezza (non piattezza!) del linguaggio hanno favorito la grande leggibilità da parte del pubblico giovanile, così contestando il logoro luogo comune che recita “i ragazzi non leggono”. E questo, anche al di là di quanto sto per dire tra poco, è già in sé stesso un merito dell’opera della Rowling: avere fatto sperimentare in prima persona a molti milioni di ragazzi quanto la lettura possa esser qualcosa di bello e non di noioso.

 

 

Messaggi tra le migliaia di pagine

Ma – dopo questo accenno agli aspetti artistici, alle tecniche di quello ”artigiano” che è lo scrittore  - voglio venire a ciò che ritengo la cosa più importante e cioè la valutazione dei contenuti, dei “messaggi”. Come ho detto, questi libri presentano molti temi educativi: 1) l’antirazzismo e l’ anticlassismo (tutta la saga mostra quanto male viene alla comunità dei Maghi dal disprezzo per i Babbani, i Sanguemisto, gli Elfi domestici); 2) l’analisi della psicologia dell’adolescenza con  la presentazione realistica dei rapporti reciproci tra adolescenti e del ruolo degli adulti; 3) l’importanza di virtù fondamentali come il coraggio, l’altruismo, la lealtà, la modestia e l’umiltà, il desiderio di conoscenza, lo spirito critico, il perdono, la compassione, la forza di volontà, la memoria del passato; 4) l’insostituibile aiuto che viene dall’Amicizia sia per sopravvivere, sia per maturare, sia per compiere le importanti Imprese della vita. Ciascuno di questi temi meriterebbe dettagliati commenti attraverso l’analisi di queste migliaia di pagine, e speriamo che  i critici letterari (accademici o amatoriali che siano, purché bravi!) tali analisi facciano e faranno. Io qui scelgo alcuni argomenti e li tratterò in ordine sparso e solo a grandi linee, in maniera non dettagliata, lanciando come degli spunti per quei critici futuri (e uno di loro potrei anche essere  io, perché no?) che volessero affrontare l’analisi in maniera circostanziata, con spogli e citazioni da tutti i libri e - dunque - sobbarcandosi un lavoro di una certa mole.

 

 

La tunica non fa il mago

Un tema è quello della “apparenza che inganna”: il ragazzo (l’uomo) naviga nella vita e fino alla fine della navigazione deve vigilare per non farsi confondere dalle Sirene, dai Fuochi di Sant’Elmo, dai velieri “amici”, dalle calme piatte, dalle brezze promettenti, dalle isole ospitali, dagli scogli vicini, dai porti sicuri, dai litorali lontani e dalle mappe del tesoro. Fuor di metafora, da piccoli come da grandi dobbiamo lottare per liberarci di quelle ideologie, schemi mentali, luoghi comuni, pregiudizi che ci fanno apparire cose, fatti e persone diversamente da come sono.

In questa saga il tema della apparenza che inganna è ben sviluppato: il “principe mezzosangue” Severus Piton appare a Harry come un professore rompiscatole, come un uomo freddo e anche sadico, come un alleato di Voi Sapete Chi, come uno spietato omicida, ma poi scopre che invece egli era uno dei più fedeli e efficaci alleati di Silente. Qui Harry è indotto in errore dal luogo comune secondo il quale una persona rompiscatole, fredda e antipatica debba poi anche essere – riguardo alle scelte fondamentali – cieca, interessata e perversa. Allora – se questo luogo comune fosse vero – noi dovremmo odiare tutti i professori severi e i politici rigorosi e amare tutti i professori “amiconi” che ci danno il “sei politico” e i politici demagoghi e populisti che promettono sicurezza, ordine, pace e prosperità senza chiederci sacrifici e senza farli loro stessi (come l’Omino di Burro che porta i ragazzini nel Paese dei Balocchi, nel romanzo di Collodi Pinocchio).  Poi c’è l’esempio del padre di Harry, James Potter, idealizzato dal ragazzo che pesca frammenti di fatti riferiti da altre persone e li impasta con la sua fantasia e il suo desiderio (di origine anche narcisistica) di avere un padre ideale coraggioso, disinvolto, popolare, etc. In effetti James quel che aveva di meglio lo aveva dato - per quanto poteva - al figlio, e per questo James è il “Patronus” di Harry, però James aveva anche altri lati, negativi, come la vanità, la freddezza emotiva, la crudeltà, la superficialità. La scoperta di questi altri lati da parte di Harry in qualche modo contrasta il luogo comune che recita: una persona che amo è per forza buona (visto che anche io mi sento buono ad amarla), e Harry abbassa un po’ la cresta. Poi c’è l’esempio di Albus Silente, altra persona che Harry idealizza: lo avrebbe voluto Ministro della Magia, ma Silente gli dice con sicurezza che ciò sarebbe stato un male, perché egli era vulnerabile alla tentazione del Potere, era in grado di essere un buon insegnante, ma niente di più (tra parentesi, penso che la Rowling avrebbe fatto bene a esplicitare l’innamoramento di Silente per Grunewald nel racconto, e non solo commentandolo di fronte ai giornalisti, perché così Harry avrebbe potuto vedere meglio i bisogni umani di Silente e capire che anche lui – come tutti – era dipendente affettivamente dalle altre persone, anche se di solito “appariva” olimpico e senza bisogni: avrebbe fatto fare a Silente un passo avanti rispetto al Gandalf di Tolkien).

 

 

La via degli orfani

Un altro tema è quella della condizione di orfano: non è certo un tema originale anzi è un  “classico” nelle fiabe e nei romanzi che il protagonista sia senza i propri genitori e sia allevato da altre persone; per limitarci al XX secolo pensiamo a Frodo, Superman, Batman, Anakin Skywalker, Naruto. La morte degli amorevoli genitori e l’allevamento da parte – nel caso di Harry come in quello di Cenerentola – di “matrigne e sorellastre” (la famiglia Dursley) che funzione narrativa ricoprono?  Credo che questi accorgimenti narrativi servano ad esplicitare (estremizzandoli) dei fenomeni che qualunque persona - nel mentre  cresce ed è allevata da una famiglia -  sperimenta: le idealizzazioni, le demitizzazioni, la separazione e la tristezza, la frustrazione, la ribellione, la solitudine…il pensiero critico dell’individuo posto di fronte alla vita la quale  – prima o poi bisogna “scoprirlo”! - non è certo un idillio… Forse dal XIX secolo a oggi nella cosiddetta famiglia nucleare (cioè non allargata, non patriarcale) “borghese” il romanticismo idealizzante, che continuamente viene spruzzato sull’idea di famiglia ( pensiamo agli spot pubblicitari televisivi e, qui da noi in Italia, una certa retorica familistica della chiesa cattolica), tende ad anestetizzare tutti quei fenomeni sopraelencati, rende più difficile l’accettarne la naturale e necessaria  esistenza : si pensa (perché dalla propaganda familistica si è indotti a pensare) che la famiglia sia un luogo di amore ideale, saggezza ideale, serenità ideale, e magari si tende a non riconoscer con lucidità che separazioni e lutti, conflitti e ribellioni sono naturali, non possono non esserci. Ed ecco che – soggiogati da questa propaganda ideologica - i genitori non riescono a staccarsi dai figli perché se no diventano depressi, o i figli non riescono a staccarsi dai genitori perché si sentono sperduti e  incapaci di autonomia. Il trucco narrativo del “protagonista orfano” pone invece subito di fronte i lettori alla difficoltà dell’amore, alla presenza del dolore, alla importanza di conquistare con dei percorsi attivi una comunicazione interpersonale profonda,  alla fatica e agli errori che si interpongono nell’acquistare quel tot (poco!) di saggezza.

 

 

C'erano una volta le public schools (e la atemporalità di Qui, Quo e Qua)

Un altro tema è quello della scuola. Tra le tante lettere di rifiuto che la Rowling ricevette dalle case editrici quando cercava inutilmente di pubblicare il primo libro della saga una è particolarmente grottesca (almeno guardando a posteriori) : all’autrice veniva detto che il romanzo non aveva chance di vendere “perché da molto tempo le storie ambientate nelle public schools non interessano più a nessuno”. Cosa sono le public schools? Nonostante la ingannevole parola esse sono private e non statali, sono “esclusive” sia per classe sociale sia per livello intellettuale (a Hogwarts per la presenza della capacità magica: Lily viene presa, Petunia no, e ciò la fa disperare): le più note nel mondo sono Eton e Winchester. Inoltre esse sono “boarding schools” cioè sono quelli che noi italiani una volta chiamavamo “collegi”, dove gli studenti non solo frequentavano le lezioni ma erano anche convittori residenziali. Nel 1939 George Orwell scriveva una interessante e corposo saggio che analizzava alcune riviste per ragazzi (una decina, tra cui le più note si chiamavano “Gem” e “Magnet”) che orami da trent’anni vendevano tantissime copie in tutto il mondo di lingua inglese, così che “si può dire che non ci sia bambino in Inghilterra che non ne compri o legga più di una alla settimana”. Erano avventure di ragazzi adolescenti residenti nella  immaginarie public schools chiamate Greyfriars e St. Jim’s, il più famoso dei personaggi si chiamava Billy Bunter, e le avventure variavano dal comico, al melodrammatico (bullismo, litigi, riappacificazioni, amicizie), alla spy-story o mistery-story. Il saggio di Orwell è molto intelligente e consiglio di leggerlo (si trova nella bella antologia di saggi critici: George Orwell, Nel ventre della balena, Bompiani, Milano, 1996); in esso egli notava come vi fossero varie motivazioni del successo, una certamente quella di descrivere un luogo socialmente “esclusivo”, un’altra quella di descrivere una società di ragazzi in cui l’adolescente impara sul campo quali sono i “caratteri” delle persone e i “trucchi” della vita. Tutti i ragazzi sono diversi tra loro e ciascuno, anche il più apparentemente sfigato, imbranato e anche “cattivo”, ha qualche dote particolare che nel momento critico riesce benefica per tutti. Tre differenze però in queste Greyfriars e St. Jim’s rispetto a Hogwarts: 1) c’erano solo maschi, 2) solo di classe sociale alta, 3) sempre della stessa età (nella atemporalità di Qui, Quo e Qua) per 50 anni.

Ora, dopo la Seconda Guerra Mondiale questo genere di letteratura “scolastica” è declinata, è vero, le riviste in questione hanno venduto sempre meno copie e infine sono cessate, e il loro autore factotum – Frank Richards – è andato in pensione e poi è morto quasi dimenticato (anche se ancora alcune migliaia di anziani nostalgici lo ricordano sparsi qua e là per il mondo: vedere su internet per curiosità). Ma bisogna pensare al fatto che i decenni seguenti alla Seconda Guerra Mondiale hanno cambiato profondamente la Civiltà Occidentale: i movimenti laburisti, democristiani, socialisti e comunisti hanno criticato a fondo la società classista basata sulla nobiltà e sulla ricchezza; i movimenti femministi e sessantottini hanno criticato a fondo la società basata sui privilegi dei maschi; e infine (e questo è un fenomeno più sottile da rilevare, ma ancora più profondo) la diffusione della istruzione e della cultura a livello di massa hanno abituato il pubblico popolare (o almeno una sua  parte significativa) a un tipo di letteratura più evoluta e profonda. Il romanzo “serio”, mainstream (come si dice) del XIX e XX  secolo (quello di Hugo, Flaubert, Tolstoi, Zola, Proust, Thomas Mann, etc. ) ha lasciato dei semi di qualità i quali –  nei dinamici decenni successivi alla seconda Guerra Mondiale, attraverso la scuola, il cinema e i movimenti politico-ideologici – hanno fatto lentamente progredire anche la sensibilità e i gusti estetici popolari. I personaggi di fiction fuori dal tempo sono diventati via via sempre meno credibili: ancora negli Anni Sessanta James Bond poteva essere sempre giovane e bello e fare sempre le stesse cose, ma ai nostri tempi Indiana Jones no, e il suo cappello non può esser raccolto dal nuovo “attor giovane”, ma è solo suo come solo sua è la vita;  i supereroi come Superman, Spiderman o Batman sono oggi raccontati nel mentre nascono, crescono, incontrano amici e nemici e poi li perdono, invecchiano e – è successo nei fumetti per Superman – muoiono. La saga di Guerre Stellari esemplifica bene questa nuova sensibilità estetica popolare: le storie dei personaggi sono irreversibili e non c’è nessuna atemporalità, possono esservi prequel o sequel, ma gli snodi dell’esistenza sono irreversibili, magari la Storia prosegue seguendo le storie degli antenati e dei discendenti, e allora il cosiddetto “polpettone” popolare snobbato dai critici elitari in realtà diventa la versione di massa dei Buddembrook di Thomas Mann.

Ecco dunque che fare quello che ha fatto la Rowling, e cioè tornare al tema della public school oggi, avendo sfrondato trame e personaggi dai pesi primonovecenteschi dei pregiudizi di classe e di razza presenti nella saga richardsiana di Billy Bunter, e togliendo l’atemporalità delle storie da comic strips popolaresche, è risultata una strategia vincente. Perché? La scuola come comunità di vita a sé stante – anche se certo non separata dalle altre realtà del mondo – possiede un fascino potente: la persona giovane percepisce come nella scuola le sue potenzialità individuali trovano il terreno in cui svilupparsi, in grande parte indipendentemente dai vincoli famigliari e dai retaggi della classe sociale. Nella scuola la persona si percepisce propriamente come individuo, percepisce una libertà prospettica che nella famiglia e nella classe sociale o nella comunità di paese non poteva trovare. La persona – inoltre -  è giovane e vuole distanziarsi dalla generazione precedente, dagli adulti della famiglia, della classe sociale, della comunità locale: nella scuola si trova a vivere in una comunità di coetanei della propria (e nuova) generazione, certo, assieme a quegli adulti che sono i professori, ma che sono adulti di tipo speciale. Essi si rivolgono a te non per chiederti testimonianza di affetto o prestazioni economiche o solidarietà politiche, ma per farti crescere. Ecco dunque che la persona percepisce la tematizzazione della crescita delle proprie capacità: la scuola serve in primo luogo a questo.

 

 

Una scuola sì... ma di Magia

Ecco che nella saga della Rowling appare il tema della “magia”, che i ragazzi fuori dalla scuola non possono esercitare, ma a scuola sì : Hogwarts è una scuola di magia. Cosa significa questo?

“Magia” significa conoscenza, scienza. Quegli incantesimi che il ragazzo memorizza e “lancia” sono gli stessi dei professori, degli adulti, l’allievo può superare il maestro perché il maestro gli ha dato qualcosa che non è suo proprio, non è un distintivo di status o di ruolo, ma è universale, come universale è la verità. Quando nella battaglia finale a Hogwarts combattono gli individui di tutte le generazioni questo diventa particolarmente evidente.

Ma che tipo di conoscenza è la magia? Essa è una conoscenza diversa da quella religiosa, come notava il grande antropologo primonovecentesco James Frazer in The Golden Bough: la magia è una conoscenza volta alla azione, e dunque al potere sulla natura e sulle altre persone; essa serve a fare sì che la persona diventi principio causale nel mondo. Invece la religione è una conoscenza solo teoretica, volta a contemplare la necessaria Origine e il necessario Destino, essa serve a far sì che la persona riconosca da quale principio causale deriva e verso quale meta finale tende. La magia è “attiva”, la religione è “passiva” (a meno che sia trasformata in maniera superstiziosa in un “attivo” compiere riti o altro per ingraziarsi la divinità). La magia dunque assomiglia piuttosto ad alcune scienze naturali applicate alla tecnologia (per esempio la termodinamica e la biochimica, e non invece per esempio  la astronomia o la paleontologia), conoscenze che si acquisiscono per agire sul mondo esterno.

 

Tra religione e politica

Vorrei osservare che nella saga della Rowling la religione in senso stretto è assente: non sono citati Dei, Culti, Preti, Templi, Preghiere, Liturgie, Libri Sacri dotati di Tavole Morali. Proprio come Tolkien – che qui è un modello – aveva fatto per la sua Terra di Mezzo. E dunque analogamente come per Tolkien qui noterei – sulla scorta di quanto scritto da Tom Shippey nel suo Tolkien autore del secolo – che questo evitare qualsiasi accenno esplicito all’esistenza di  una religione organizzata (sia tra i Maghi sia tra i Babbani) serve a produrre una fiction che risulti accettabile da un mondo occidentale odierno il quale è largamente post-cristiano, nel senso che la grande maggioranza degli occidentali (sia protestanti sia cattolici) non frequenta i riti religiosi, non prega individualmente, non conosce la Bibbia. Eppure, se è post-cristiana, questa società di oggi  non è né anti-cristiana né a-cristiana, e cioè sul piano morale tale maggioranza accetta quei valori che il cristianesimo per millenni ha diffuso, come l’umiltà, la lealtà, l’amore, il sacrificio, etc.

Un’altra tematica che chiamerei educativa (non solo per i ragazzi!) è quella della politica: nella saga appare in maniera abbastanza approfondita il Ministero (della Magia), coi suoi uffici, ministri, funzionari, poliziotti, leggi e tribunali. E compare anche una Opinione Pubblica che è animata da giornali come la “Gazzetta del Profeta” e “Il Cavillo”, che è schierata per o contro varie ideologie come quella pro-Babbani o quella anti-Babbani (e così per i Sanguemisto e per gli Elfi Domestici), e che è attraversata da lobby come i Mangiamorte o l’Ordine della Fenice. Compare il problema politico per eccellenza che è quello del Bene Comune o - detto in maniera più aulica -  il problema del Destino del Mondo, problema che Silente e Voldemort, per esempio, vedono in maniera assai diversa. Siccome molti ragazzi (ma non solo loro!) non hanno mai ricevuto un’educazione alla politica e dunque ad essere sensibili alle tematiche del Bene Comune, questi libri mi sembrano educativi. E ancora mi richiamo a Tom Shippey (nel suo saggio già citato) che osservava come nel XX secolo la letteratura di genere fantastico si sia occupata del problema “politico” del Destino del Mondo molto più della letteratura cosiddetta “mainstream” (quella valutata dalla critica accademica e insegnata nei manuali di letteratura), la quale in tale secolo si è occupata soprattutto delle problematiche (esistenziali, amorose, etc.) del singolo individuo. Paradossalmente, la letteratura mainstream  ha fatto questo proprio in un secolo in cui la dimensione pubblica è stata invece così emergente (guerre mondiali, genocidi, migrazioni di massa, economia globale). Siccome l’educazione famigliare e spesso anche quella scolastica sui problemi pubblici o politici sono spesso così carenti (e pensiamo specificamente alla nostra Italia…) ben vengano allora romanzi come questi della Rowling!

 

 

Le libere scelte di Tom e di Harry

Un altro tema è quello del Male e della scelta morale: in questi romanzi si tratta molto (in maniera complessa) del cosiddetto “libero arbitrio”: i due protagonisti Tom Riddle e Harry Potter, orfani precoci,  in un certo senso sono stati entrambi “traumatizzati” da eventi “esterni”. Se si approfondisce, però, si vede che il trauma è stato di intensità e qualità diverse: Tom ha avuto dei genitori molto problematici, sia la madre, sia in maniera diversa il padre; invece Harry ha avuto dei genitori che, pur non essendo ideali o perfetti, sono stati però molto più positivi e in grado di dargli un più sostanzioso e autentico amore. Se accettiamo la teoria ambientalistico-determinista dovremmo dunque dire che Tom dagli eventi esterni è stato indirizzato verso il male e Harry invece verso il bene. Però si torna al problema del libero arbitrio (“arbitrio” è un latinismo che significa “scelta”) quando Tom preadolescente all’orfanotrofio incontra Silente e – attraverso di lui - la scuola di Hogwarts, cioè una persona e un ambiente umano buoni,  e potrebbe aprirsi a (“scegliere”) vie diverse… ma non lo fa. Perché? Coloro che ritengono che la libera scelta sia una specie di onnipotente forza che permette di adottare qualsiasi comportamento indipendentemente dalla serie causale del concreto vissuto precedente, penseranno che Tom rifiuta Silente e non beneficia degli amici che potrebbe trovare a Hogwarts perché “non vuole” (anche se “avrebbe potuto” volerlo), perché egli è “cattivo” (anche se “avrebbe potuto” essere “buono”). Io invece sarei portato a dire che ciò accade perché in Tom l’amore è già morto da troppo tempo e l’innesto amoroso da parte di Silente è tardivo e insufficiente… sono problemi molto difficili e non ho certezze granitiche su di essi: propongo solo la mia (fallibile) opinione al dibattito!

Nell’ultima scena nel bosco Tom/Voldemort uccide in Harry la penultima parte di sé ancora viva, e poi uccide l’ultima in sé stesso: aveva almeno in quel momento libertà di scelta? Secondo l’opinione comune sì, secondo me no…il problema della libertà secondo me andrebbe visto in maniera diversa, come Conoscenza (conoscenza della realtà e del bene in essa)  la quale conoscenza c’è o non c’è. O meglio ci può essere in parte e in parte no, ma nella misura in cui non c’è proprio non c’è, e -  se tale misura di ignoranza è troppo grande - il bene non si può perseguire. Coloro che dissentono da una visone come la mia a volte dicono che però l’Amore è qualcosa che si può creare come dal niente (indipendentemente dalla conoscenza) e che permette comunque la scelta del bene…secondo me però l’amore non è solo un sentimento, ma è anche e soprattutto un rapporto interpersonale in cui incisivo fino ad essere eventualmente  decisivo è il ruolo giocato dall’Altro: nelle ultime due scene Harry (che qui è l’Altro) fa a favore del pentimento di Tom/Voldemort tutto quanto può fare, ma questo “quanto” non è sufficiente…chi poteva ancora esser “Altro” in maniera decisiva e sufficiente  per salvare Tom/Voldemort? Forse nessuna creatura (come ammette Silente a King’Cross Station indicando il bambino frignante sotto al tavolo) …qui siamo di fronte a una reale esperienza umana: noi da un punto di vista cristiano non sappiamo come Dio operi la salvezza, però possiamo credere che la operi verso di tutti, nessuno escluso, non però come semplice sommatoria degli individui, ma come qualcosa che è un “più” rispetto alla somma, e cioè un “popolo”.

L’individuo (qui Tom/Voldemort) non è da solo il Destinatario della Salvezza, lo è il Popolo, in questo caso la comunità di Maghi e Babbani della storia della Rowling…questo Popolo ora ha imparato – non per sempre, ok!, ma almeno per ora – qualcosa in più riguardo al Potere, riguardo alla Purità Razziale e ai Babbani, qualcosa che senza Tom/Voldemort, non avrebbe potuto imparare né vivere. Proprio come – passando alla storia reale – è successo col nazifascismo e con la Seconda Guerra Mondiale: questi eventi sono stati come una gigantesca  “lezione” fatta al mondo rispetto al tema della Razza e dello schema mentale del Superiore/Inferiore: dopo la sconfitta del nazifascismo nella guerra mondiale queste mentalità, anche se non sono state sconfitte completamente, sono state grandemente indebolite. 

 

 

Sensibilità ed Ideologia dell'autrice

Personalmente a me non piace la fine (ed uscita dal romanzo)  di Tom/Voldemort così come realizzato dalla Rowling: è molto simile alla fine  di Saruman e di Sauron nel Signore degli Anelli…avrei preferito che l’autrice si soffermasse sul “non sappiamo” del destino individuale di Tom/Voldemort, lo compiangesse e ci indicasse che comunque anche egli “serve” alla Storia di Tutti. Voglio dire che, rispetto a Tolkien, la Rowling ha fatto un passo avanti nella sensibilità: ci mostra infatti in maniera abbastanza dettagliata la vicenda individuale di Tom, come egli diventa quello che è alla fine (Fine?), e in qualcuno di noi il seguire questo processo individuale non può che suscitarci compassione. Mentre poca ne proviamo per Saruman e nessuna per Sauron.

La sensibilità della Rowling è diversa (e , su questo punto, secondo me, migliore) da quella di Tolkien perché il 2007 è diverso dal 1949 (quando Tolkien ha finito di scrivere il suo romanzo). In questi quasi sessanta anni le cose sono mutate nel mondo, per dirne solo cinque: 1) le legislazioni “sociali” degli Stati occidentali a favore dei poveri, dei lavoratori, dei malati, dei disabili, delle donne; 2) l’opera per i diritti dell’uomo e del bambino dell’ONU e delle altre organizzazioni umanitarie; 3) il cristianesimo più aperto e tollerante e laicizzato emerso dal Concilio Vaticano II; 4) i vari movimenti antiautoritari cominciati negli USA e poi continuati nell’Europa Occidentale col cosiddetto Sessantotto; 5) la diffusione nel mondo occidentale – anche se, certo, a vari livelli – della cultura psicanalitica, molto meno moralistica rispetto a quelle passate nel comprendere i profondi processi mentali che portano gli individui a compiere azioni malvagie e “folli”.

Però la ideologia (il sistema di idee esplicito) della Rowling è in difetto parziale o parziale ritardo rispetto alla sua sensibilità.  Cioè mi sembra che la scrittrice non disponga di una “teoria”, di una “filosofia” più evoluta rispetta a quella di Tolkien, pur avendo rispetto a lui una più evoluta sensibilità. Ed allora ecco che la scrittrice produce quell’exit insoddisfacente di Tom/Voldemort. Come sarebbe stato meglio se avesse aggiunto delle pagine in cui Tom, in una scena da solo, senza Harry e senza Silente,  sia fatto vedere  nel Limbo (King’Cross Station) mentre incontra i suoi propri genitori, ora purificati, che gli indicano la conoscenza giusta e anche gli rivelano come nel Dolore e nel Male si è realizzato – attraverso la povera storia del povero piccolo Tom e quella terribile del terribile Lord Voldemort – una salvezza imprevista, imprevedibile e meravigliosa per Tutti, Maghi e Babbani! Scena di struggente bellezza, alla quale in parte arriva Tolkien quando (ma solo genericamente, senza includere le storie individuali dei Cattivi) scrive del Terzo tema Musicale di Iluvatar all’inizio del Silmarillion.

 

 

L'Epilogo: un finale “hollywoodiano” ?

La Rowling poi preferisce finire il romanzo all’insegna della continuità, senza che emerga granché il cambiamento : Harry, Ermione e Ron, oramai adulti, mandano i loro figli a Hogwarts etc….. Mi viene da dire: certo, la Continuità esiste! Ma anche il Cambiamento esiste! È troppo simile alla reverie di un bambino questo pensare che l’ultima parola sia la Continuità, quel “tutto è come prima”. È come se Tolkien avesse finito Il Signore degli Anelli con Sam che manda i suoi figli adolescenti fuori da Hobbiton verso Granburrone a trovare gli Elfi e a fare un’altra Quest verso Mordor! (tra parentesi ricordo che Tolkien ebbe una tentazione del genere quando scrisse l’abbozzo – The New Shadow – di un racconto ambientato dopo la Guerra dell’Anello, in cui cominciava a risorgere il Male etc. Ma capì l’errore e interruppe dopo poche pagine il racconto).

Quale avrebbe potuto essere una scena alternativa o meglio integrativa per concludere la saga della Rowling in maniera meno “hollywoodiana” (nel significato un po' trito ed obsoleto - a dire il vero – di “buonista”, “rassicurante”)? Dovrei pensarci e non mi viene in mente, anche perché non sono un romanziere… chissà se qualche lettore avesse una proposta?

 

 

 

 

 

 

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