Franco Manni

 

 

Il concetto filosofico di felicità

 

 

Tradizioni 

·                     Le parole: “eu-daimonìa”, “felicitas”, “happiness”... tutte e tre hanno a che fare con un qualche elemento “esterno” di “Fortuna”. Invece la parola “beatitudo” riguarda solo uno stato psicologico soggettivo.

·                     una premessa necessaria: la differenza (non opposizione!) tra concetto di  piacere e concetto di bene (e dunque anche di felicità se si intende che essa è il “sommo bene”)

·                     Platone: la felicità esiste ma non è di questo mondo, essa è attingibile in un “al di là” successivo alla separazione tra anima e corpo, e cioè alla morte. Cosa possa esser tale “al di là” non è comprensibile alla ragione umana e possiamo saperlo solo grazie a una “divina rivelazione”.

·                     Aristotele: ogni uomo agisce per un fine, ci deve esser un fine ultimo e questo causa l'intenzione dei fini intermedi, e tale ultimo fine deve esser il sommo bene. Data l'unicità della natura umana il sommo bene deve essere unico per tutti gli uomini, anche se – in linea di fatto – ciascun uomo può sbagliarsi o in tutto o in parte nell'individuarlo. Esso - pur avendo bisogno di tutte queste cose - non consiste nelle ricchezze, né negli onori, né nel potere, né nel piacere, né nella salute del corpo, né nell'amicizia, né nelle virtù morali, ma esso consiste nella conoscenza. L'atto della felicità è però un atto dell'intelligenza teoretica e non di quella pratica, perchè l'uomo non è fine a sé stesso ma è finalizzato a qualcosa di altro da sè. Tale atto (quello della felicità, che, per Aristotele, è appunto un “atto” e non un “abito”) è “più stabile delle scienze” ed è (anche, ma non solo!) un “contemplare la virtù che è stata compiuta”. Ma non è del tutto stabile perchè bisogna di una quantità, benché moderata, dei beni detti sopra, e perchè non può resistere alla grandi sventure come quelle accadute a Priamo. Ecco perchè diciamo che la felicità è qualcosa di “superiore alla condizione umana” , essa è “divina” e, nell'uomo, presente solo in parte. Gli uomini infatti “sono felici come possono esserlo gli uomini”.

·                     Tommaso d'Aquino: tale conoscenza o contemplazione  non è quella conoscenza propria delle scienze né della filosofia, conoscenze troppo astratte e povere, né della fede, conoscenza troppo oscura. Inoltre scienze, filosofia e fede sono frammentarie (non continue) e precarie (cioè soggette alla perdita), per i limiti che bisogni materiali, occupazioni, preoccupazioni, malattie e vizi impongono. Dunque questa contemplazione deve essere qualcosa di altro, che si raggiunge in una “altra vita”. Cosa può mai essere la “conoscenza di Dio”?...forse la conoscenza delle azioni di salvezza e di guida che modellano la storia della mia vita e di quelle delle altre persone? E che cosa sarebbe poi la “altra vita”? In un punto egli scrive che la “vita eterna” è “la Grazia”... cosa potrebbe significare? E – inoltre – esiste questa “altra vita”? In un suo scritto (Summa contra gentiles, libro 3, capitolo 48, nn. 11-12) così ragiona: il desiderio umano di felicità consistente in tale forma di conoscenza è un desiderio “naturale”, ma esso non può essere raggiunto in “questa vita”, e, siccome la natura non fa mai le cose invano, deve esistere una “altra vita”.

·                     Una domanda importante è questa: la “Altra Vita” coincide con lo “Al di Là”? Una risposta possibile è: “No! Lo Al di Là è un ipotetico segmento temporale successivo a questo che stiamo vivendo, mentre la Altra Vita è una dimensione o aspetto di questa unica vita, dimensione o aspetto  di tipo diverso ed inconsueto rispetto ad altre dimensioni o aspetti”.

·                     Epicuro (che non credeva in un “al di là”): la felicità possibile all'uomo è solo una forma di atarassìa cioè  “serenità” (mancanza di turbamenti, provenienti dai dolori e dai piaceri eccitati)   L'uomo saggio ha una fede: che - se si diminuiscono in maniera umile le proprie esigenze rivolte alla Vita - ciò che di esse rimane sarà soddisfatto facilmente. I beni fondamentali sono sia umili sia accessibili.

·                     Gli Stoici (che – anche loro! - non credevano in un “al di là”): la felicità possibile all'uomo è solo una coerenza personale nell'esercizio della virtù, una forma di autarchia (mancanza di dipendenze). L'uomo saggio non pensa al futuro né contempla il passato, ma si concentra sull'azione giusta da fare adesso.

Sigmund Freud (che – anche lui! - non credeva in un “al di là”): riguardo allo scopo della vita non c'è una ricetta uguale per tutti: il tipo erotico , il tipo narcisista e il tipo dell'uomo di azione cercheranno strade diverse per realizzarsi: eppure non è saggio essere unilaterali e l'esperienza accorta mescolerà, caso per caso, le proporzioni. E inoltre, anche se ciascuno, per quanto può, persegue gli scopi adatti alla propria personalità, la vita rimane purtuttavia troppo dura e misera: i dolori provenienti dagli eventi esterni e dai  rapporti interpersonali e i mali del corpo e della psiche sono troppo tanti. Per sopportare la vita allora, prima o poi, abbiamo bisogno di tre palliativi: 1) diversivi che ci distraggono dalla miseria, 2) soddisfazioni sostitutive che la riducano, 3) sostanze inebrianti che ci rendano insensibili ad essa. E – di regola – dobbiamo anche ed addirittura scendere a patti con la malattia mentale: sin dalla giovane età contraendo alcune nevrosi, e, andando verso la vecchiaia, dipendendo da alcuni tipi di intossicazione.

·                     Benedetto Croce (che – anche lui! - non credeva in un “al di là”): si concentra su ciò che Freud chiama i “diversivi” (e Pascal chiamava il “divertissement”), le cosiddette “opere”. Per lui le opere che ciascuno di noi fa nella sua vita, in qualsiasi campo (affettivo, caritativo, politico, lavorativo, scientifico, artistico ecc.) sono la “storia della nostra felicità”. Non c’è superiorità della vita teoretica su quella pratica né viceversa, non c’è superiorità della giovinezza sulla vecchiaia o viceversa, non c’è superiorità del piacere sul dolore o viceversa, non c’è superiorità di un uomo sull’altro. Lo Spirito è “democratico” (egalitario) e “organico” (ciascuno dà il suo contributo unico, diversa da quello degli altri, ma necessario allo sviluppo della storia comune).

 

Esperienze 

·                     una contraddizione diffusa nella nostra società di oggi: 1) la paura  di non potere più cambiare le cose della propria vita; 2) la paura di doverle cambiare nel senso di perdere esse o qualcosa di esse

·                     Guardiamo il primo punto: esso si basa su alcune idee non dimostrate e probabilmente indimostrabili: a) che il futuro sia conoscibile; b) che i cambiamenti della propria vita derivino soprattutto da sé stessi; c) che il proprio Sé non sia creativo e cioè non possegga la capacità di conoscere ed amare cose nuove.

·                     Guardiamo il secondo punto: in effetti, diversamente dalla catalogazione aristotelico-tomista dei tre tipi di beni (esterni, del corpo, dell'anima) , la “salute del corpo” oggi è qualcosa di più complesso, e riguarda – se paragoniamo i nostri tempi all'Antichità e al Medioevo - il prolungarsi della lunghezza della vita, l'aumentare della ricchezza media nei beni materiali e il diminuire di frequenza degli sconvolgimenti esterni come epidemie, morte dei cari, guerre. Quella “salute del corpo” si potrebbe forse chiamare oggi “stabilità delle abitudini” (non degli “abiti”!) e forse è la causa prima della paura di “perdere” qualcosa di valore nella vita futura....

·                     I Superio sociali e la felicità come adeguamento del proprio percorso di vita ad essi. Se non è affatto facile capire cosa sia la felicità, è assai facile capire come  tale pressione o tendenza ad adeguarsi  ai Superio sociali allontani dalla felicità, e porti piuttosto all'infelicità. Ciascuna persona è individuale (unica, irripetibile); e dunque è fuorviante, dannoso e a volte devastante il confronto con gli altri.

·                     Un luogo comune che non regge l’analisi del pensiero è questo: che la felicità, pur riguardando l'individuo, sia una faccenda solamente dell’individuo (in un mondo precristiano: “essere benestante”, “diventare virtuoso”; in un mondo cristiano: “salvarsi l'anima”, “andare in paradiso”). Invece la felicità, se esiste,  riguarda in primo luogo un soggetto comunitario (un organismo), e in secondo luogo un soggetto individuale (un organo). Altrimenti non riusciremmo  a capire il senso delle nostre vite. Per un approccio metodologico utile ai due aspetti della questione (l'aspetto comunitario e l'aspetto individuale), bisognerebbe ricordare la distinzione aristotelica tra “più noto in sé” (in questo caso l'organismo sociale) e “più noto per noi” (in questo caso l'organo individuale).... 

 

Bibliografia 

Ø                   PLATONE, Gorgia

Ø                   PLATONE, Fedone

Ø                   ARISTOTELE, capitoli 5-10 del libro primo e capitoli 6-12 del libro decimo della Etica Nicomachea

Ø                   EPICURO, Lettera a Meneceo

Ø                   MARCO AURELIO,  A sé stesso

Ø                   TOMMASO D'AQUINO,  le questioni 1-5 della prima parte della seconda parte della Somma Teologica

Ø                   SIGMUND FREUD, Il disagio della civiltà

Ø                   BENEDETTO CROCE, la sezione seconda della parte seconda della Filosofia della pratica

Ø                   BENEDETTO CROCE, i numeri 3, 4, 11, 18, 27, 31, 47, 48 dei Frammenti di etica

Ø                   SOFIA VANNI ROVIGHI, capitolo 5 della sezione “Etica generale” nel volume 3 degli Elementi di filosofia

Ø                   FRANCO MANNI, la parte quinta della  Lettera ad un amico della Terra di Mezzo  

 

 

 

 

W. Churchill 8 maggio 1945

 

 

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