Franco Manni

 

 

Elogio della finitezza

antropologia, escatologia e filosofia della storia in Tolkien

 

 

 

 

Un amore inconfessato e una latente polemica

“I'm not a philosopher, but an experimenter”

Tolkien, Notion Club Papers

 

Nelle sue opere Tolkien non nomina mai[1] i nomi dei filosofi, né dei classici come Socrate, Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso d'Aquino, Descartes, Kant, Hegel, Schopenauer, Marx, né dei suoi contemporanei come Freud, Bergson, Croce, Dewey, Wittgenstein, Husserl, Popper o Ryle. Però: se non cita Kant, eppure cita il neologismo kantiano “noumeno”[2]; e soprattutto le idee della perennis philosophia (e cioè del sincretismo della tradizione antico-medievale) sono ben presenti, ma non sono citate le fonti. Tom Shippey pensa che  Tolkien non nominò filosofi come Platone, Boezio e altri - che pur aveva letto e conosceva - a causa dei suoi pregiudizi anti-classicisti, e inoltre perchè, volendo valorizzare la negletta  nativa produzione letteraria inglese, non trovava filosofi inglesi nel Medioevo prima di Chaucer[3].

Un esempio chiaro di questo “scagliare i sasso e ritirare la mano” lo troviamo nella Nota 8 dell'autocommento che Tolkien fece alla Athrabeth Finrod ah Andreth (Dibattito tra Finrod ed Andreth); la nota parla del “desiderio” e ne distingue tre specie: il desiderio “naturale” e dunque proprio di tutti i membri di una specie, quello “personale” che concerne la propria situazione individuale, e quello “illusionale” che non fa riconoscere che le cose non sono come dovrebbero essere e porta all'inganno di credere che esse siano come uno vorrebbe che siano[4]. Questa distinzione è la stessa fatta da Tommaso d'Aquino in un articolo[5] di quella Summa Theologiae che Carpenter ci dice esser presente negli scaffali di Lewis nelle serate degli Inklings[6] e che Claudio Testi mi dice di avere accertato che Tolkien possedesse[7].

Un altro esempio tomista non dichiarato: la differenza tra le due forme di Speranza - “Admir” e “Estel” - distinte da Andreth nella Athrabeth[8], e similmente nella Summa Theologiae viene distinta la “spes” sentimento premorale presente anche negli ubriachi e negli animali bruti il cui oggetto è “il bene futuro difficile, ma possibile da raggiungere”[9], dalla “spes” virtù teologale per la quale viene detto che “ La speranza si fonda principalmente non sulla grazia già posseduta, ma sulla divina onnipotenza e misericordia, con la quale può conseguire la grazia anche chi non la possiede ancora, in modo da giungere alla vita eterna. Ora, chiunque abbia la fede ha certezza dell'onnipotenza e misericordia di Dio/.../ Il fatto che alcuni, pur avendo la speranza, mancano di raggiungere la felicità, deriva da una mancanza del libero arbitrio, che mette l'ostacolo del peccato: non già da una mancanza della divina onnipotenza, o misericordia, su cui si fonda la speranza. Perciò questo fatto non pregiudica la certezza della speranza.”[10]

Altri riferimenti alla filosofia antica e medievale sono stati osservati dagli studiosi tolkieniani: Platone[11], Plotino e Agostino[12], Boezio[13].

Però Tolkien nella sua fiction non usa mai la parola “filosofia” e tra le opere pubblicate solo tre volte  nella conferenza Sulle Fiabe e tre volte in quella su  Beowulf. Questo ostracismo lessicale - io sono sicuro che sia stato consapevole – si trasla agli studiosi tolkieniani, come si vede nelle erudite, voluminose e aggiornate “enciclopedie” tolkieniane curate da Michael Drout e da Wayne Hammond e Christina Scull, in cui non c'è posto - tra le mille altre -  per una voce Filosofia[14].

Negli scritti non intesi per la pubblicazione questa parola compare poche volte nelle Letters, di solito come sinonimo di “religione”[15] o generico di “teoria”[16], ma a volte con un senso più proprio come quando scrive che la parola “Ent” ha un leggero sentore filosofico, o quando dice di non credere vi siano filosofi che possano negare la possibilità della reincarnazione[17], o quando spiega il significato dell'Anello del Potere, o quando parla della corruzione morale presente nei romanzi di Eddison[18]. Alcune volte – invece - esplicitamente la filosofia è distinta dalla religione in quanto conoscenza razionale, per es. quando dice che gli Hobbit potevano fraintendere le guarigioni miracolose di Aragorn perché mancavano di conoscenze filosofiche e scientifiche, o quando precisa che, se tra i Fedeli di Nùmenor la religione aveva un piccolo ruolo, così forse non era per la filosofia e la metafisica, o quando osserva che ne Il Signore degli Anelli (SdA) il male e il falso vengono rappresentati in maniera mitica, il bene e la verità invece vengono rappresentati in maniera più “storica e filosofica” che “religiosa”[19]. La filosofia ha comunque – secondo lui -  “casa” nella Grecia antica[20] (e non in Germania, per lui “casa” della filologia[21]), e questo perchè la mitologia “meridionale” si poggiava su un pensiero più profondo di quella settentrionale, e perciò doveva portare “o alla filosofia o all'anarchia”[22]. Nell'abortito The Notion Club Papers la parola compare due volte: una riferita al personaggio di Rupert Dolbear (che si interessa anche alla psicanalisi e spesso durante le discussioni si addormenta), e un'altra riferita al personaggio Michael Ramer (filologo alter-ego di Tolkien) che dice di non esser filosofo ma bensì uno “sperimentatore”[23].

Queste occorrenze o meglio non occorrenze dei nomi dei filosofi[24] e della parola “filosofia” mi fa pensare  alla ricostruzione fatta da Carpenter di una seduta-tipo degli Inklings[25]: riunendosi tra loro gli amici parlano ad ampio raggio: della guerra in corso, dello SdA, di filosofia della storia, di critica letteraria, di Shakespeare, di religione, di etica. Ma quando citano nomi di pensatori lo fanno polemicamente, disprezzando il “pensiero contemporaneo”[26]. Penso anche a Tom Shippey – intellettuale spesso identificato nel suo eroe Tolkien – che si dichiara del tutto ignorante di filosofia, ma anche, verso essa mostra una certa qual (latente) polemica, e se chiama “tough minded” i filologi, definisce “tender minded” i filosofi[27]. Forse sia Tolkien sia Shippey hanno avuto in mente da una parte la astrusa e spesso effettivamente vuota filosofia dell'idealismo tedesco del XIX secolo e dell'esistenzialismo tedesco e francese del XX, e dall'altra la diversamente astrusa e diversamente vuota “oxbridge analytical philosophy” già forte prima della Seconda Guerra Mondiale e dopo di essa imperante  nel mondo accademico anglosassone[28]. Dunque: vediamo in Tolkien un rispetto (anche se non un amore dichiarato) per la filosofia antica e medievale, ma uno scetticismo o almeno  un disinteresse per quella moderna e contemporanea.

E questo forse - appunto -  per circostanze abbastanza estrinseche e cioè di ambiente e di relazioni, come ritiene Shippey: Tolkien non menziona la “filosofia” perchè non la aveva studiata sistematicamente e si sentiva poco equipaggiato, diversamente dal suo amico Lewis[29]. E anche Ross Smith[30] scrive che, pur se non troviamo cenni di Tolkien alla filosofia analitica, egli però era stretto amico di Lewis, il quale avversò essa e specialmente il suo importante rappresentante A. J. Ayer.

Ma, come già abbiamo visto e vedremo soprattutto poi, troviamo  in Tolkien  un'attrazione per alcuni temi – centrali nella tradizione dei filosofi – dell'etica, dell'estetica, dell'antropologia, della storia, della religione.

Insomma: un forte interesse per alcuni temi filosofici[31], ma una polemica latente verso come essi siano trattati dai filosofi recenti e contemporanei!

 

 

Antropologia

Quali temi, comunque? Verlyn Flieger sottoscrive l'affermazione di Tolkien: il tema principale è morte; Charles Nelson ritiene che anche altri temi siano centrali[32]; W. A. Senior pensa che il centro sia il “senso di perdita” di cui la morte è solo una delle forme[33]; Shippey osserva che se a Tolkien “sembrava che il tema centrale fosse la morte”[34], lui invece pensa che il nucleo “ideologico” e “filosofico” dell'opera tolkieniana  sia la provvidenza[35].

Peraltro Tolkien è un grande narratore e – per es. sul tema della morte - ci presenta immagini icastiche come quella di Gildor Inglorion e gli altri Alti Elfi che nei boschi della Contea osservano di stare incontrando dei “mortali” (gli hobbit), ma ama anche filosofare pur se “dietro le quinte” come nelle Lettere e negli scritti non destinati alla pubblicazione come in Laws and Customs among the Eldar e in Athrabeth Finrod ah Andreth e nei suoi vari commenti esplicatori a tali scritti di fiction[36]. E qui discute i tradizionali temi antropologici e teologici dell'anima e del corpo e del piano di Dio per essi: la morte è per lui sempre “separazione” dei due “componenti”, e questi però dovrebbero rimanere uniti. L'Elfo Finrod dice alla Donna Andreth: voi non pensate che la separazione tra anima e corpo possa essere vissuta come una liberazione, un ritorno a casa; e Andreth: no, non lo pensiamo perchè questo sarebbe disprezzo del corpo ed è invece un pensiero dell'Oscurità, perchè negli incarnati è innaturale.[37]

Come scrive Ralph C. Wood questa è una “radicale svolta non-platonica”[38] E anche Claudio Testi che – filosoficamente - questa sembra essere un’istanza aristotelica entro un contesto platonico[39]. E Damien Casey che -  teologicamente - Tolkien ha presente come  il cuore del cristianesimo sia l'Incarnazione, per quanto la tradizione platonica abbia atrofizzato tale retaggio[40].

Questo “svolta non-platonica” - spiega Wood -  è anche una implicita – ma interessante e fondata – spiegazione delle motivazioni del dualismo platonico: parrebbe che gli Uomini o meglio le loro “anime” abbiano la memoria di “un'altra vita”, un “altro mondo” da cui sono stati estraniati e a cui cercano di tornare (l'anima platonica che tende alla sua originaria patria iperuranica), ma  Andreth nega ciò, per lei anima e corpo sono essenziali l'una all'altro, per questo la loro separazione è una calamità causata da Melkor. Dunque quella “nostalgia” che gli Elfi hanno notato negli Uomini non è il desiderio per un mondo diverso da questo, ma è piuttosto uno sforzo per tornare all'armonia e unità tra anima e corpo che furono perse dagli Uomini nella ribellione a Ilùvatar, e perse esse rimangono in Arda Corrotta. Platone, cioè, confonde il problema morale e teologico con quello antropologico e metafisico, indica come patria per la “Anima” un “altro mondo” quando invece dovrebbe indicare allo “Uomo” una conversione morale[41]. E Casey commenta con simile acutezza che la “salvezza” platonica verso un “altro mondo”  è solamente una fuga dal male e dal dolore, ma non salva affatto la propria storia, la propria identità, la propria unica e irripetibile (e voluta da Dio) realtà umana; per salvare tali cose bisogna includere la salvezza di questo mondo che altrimenti rimane “Anello di Morgoth”[42].

Se l'originale messaggio ebraico-cristiano è sia non-platonico sia per certi aspetti anche anti-platonico, tuttavia per molti secoli esso è stato abbondantemente veicolato attraverso categorie platoniche. Tolkien però è un cristiano del XX secolo, secolo in cui  la teologia e la spiritualità cristiane fortemente hanno criticato la categoria  nucleare del platonismo, cioè il cosiddetto “dualismo” (categoria – filosoficamente – già contrastata, anche se per vie molto diverse, sia dall'idealismo hegeliano sia dal materialismo marxista e positivista del XIX secolo), e segue tale dibattito a lui contemporaneo: osserva esplicitamente, per es., che il suo amico Lewis come filosofo non è “dualista”, però ha un'immaginazione “dualista”[43]. E questo perchè, nota Christopher Garbowski, “un generale movimento filosofico”  ha influenzato Tolkien: in esso la valorizzazione dei fenomeni psicosomatici ha reso obsoleta una concezione sostanzializzata della “anima”separata e ha permesso il ritorno all'unitarismo biblico[44].

In “questo” mondo la Felicità è ardua e - in concreto - si sperimenta solo come “salvezza”. Shippey ricorda un'antica storia scozzese – che Tolkien conosceva – in cui un'Elfa chiede a un anziano Uomo se può esserci salvezza per un essere come lei, e lui risponde no, la salvezza è solo per i “peccaminosi” figli di Adamo[45]. Perchè solo per i peccatori? Si potrebbe dire: per definizione, come dice Gesù (“Non sono venuto a salvare i giusti, ma  i peccatori”, cioè  tutti), e ricordare che per molti secoli il cristianesimo ha messo al centro la “seconda morte” e non la “prima”(“Chi cerca di salvare la sua vita la perderà...”): la morte della “anima”, la morte psichica.

In effetti gli uomini possono pensare alla morte solo come quia est, non come quod est, sappiamo che esiste ma non sappiamo cosa sia, perchè non possiamo farcene una idea in base alla esperienza, né una idea conscia né un'idea inconscia. Freud – in tutte le fasi del suo pensiero -  fu convinto di questo. Riassumendo e commentando il pensiero Freud sulla morte, lo psicanalista Franco De Masi scrive: la “idea” che abbiamo della morte la possiamo affabulare solo in base alle esperienze della vita, per es. in base alle nostre esperienze relazionali che – tutte – sono prima o poi contrassegnate dalla separazione e dal lutto[46]: questo ci fa immaginare la morte come una specie di vita in cui noi percepiamo di essere isolati da tutti gli altri esseri umani, cioè la “idea” che abbiamo della morte è quella della “morte psichica”, dato che la vita psichica si forma, sviluppa e mantiene attraverso la relazione interpersonale. Tale “idea” di morte - hanno osservato molti psicanalisti nei loro casi clinici – assume una concretezza  devastante  nei pazienti psicotici; in queste persone la morte fisica diventa terribile  perchè per loro  essa è quel “limite” che termina la possibilità di “riparare” la morte psichica, cioè l'idea di esser inconsistenti e privi di significato per gli altri[47]. E giustamente Vincent Ferré, nella sezione L'Aliénation et la Folie del suo libro, osserva che in SdA l'Anello o fa diventare pazze le persone o tenta di farlo (Boromir, Gandalf, Galadriel, Aragorn, Bilbo, Frodo, Gollum)[48].

Tra gli psicotici delle storie tolkieniane vi sono i Re Numenoreani tipo Ar-Pharazon e i Nazgûl (ex-Re)[49], accomunati sia dalla ricerca del potere sia dalla ricerca della immortalità, e in entrambi i gruppi di “Re” la seconda ricerca pare connessa alla prima: il non-morire è ricercato a causa dell'intima e non conscia  idea che la ricerca del potere abbia svuotato la propria vita, le abbia tolto senso, e la persona – allora – cerca per sé ancora “tempo” perchè non riesce ad accettare il proprio compimento, non riesce a “finire”. Infatti, come scriveva Tolkien in una lettera: la morte non è un nemico, e bisogna denunciare l'odioso pericolo di confusione tra la “vera immortalità” e la “longevità seriale”, la prima libera dal Tempo, la seconda ne rende schiavi[50] . La paradossale implicazione logica di questo passo è che la “vera immortalità” coincide con la morte.

Subito dopo Tolkien aggiunge: gli Elfi chiamano “morte” il Dono di Dio agli Uomini, e la loro differente tentazione è quella di una melanconia appesantita dalla memoria. Essi dunque non cercano  di  avere più tempo – come invece fanno  Ar-Pharazon e i Nazgûl -  ma piuttosto di fermare il tempo. Ci sono dunque due distinte “fughe” da quella “Morte” che coincide con la “vera immortalità”: la “longevità seriale” (quella dei Re umani assetati di potere), e la “memoria tesoreggiante” (quella degli Elfi)[51]. In effetti, nonostante il pomposo titolo di “Immortali” che da altri meno longevi popoli della Terra di Mezzo viene attribuito agli Elfi, questi in realtà non lo sono, la loro è una longevità naturale coestensiva con la vita di Arda[52].

Queste due “fughe” - attraverso la longevità “seriale” o “naturale” che sia  - dalla Morte/Immortalità hanno scopi distinti: per gli Schiavi del Potere un “volere avere più futuro” (anche se un “futuro” non incognito, non aperto e nuovo, ma “seriale”) per aumentare il Potere ( e in tal modo inconsciamente illudersi di riuscire a dare un senso alla propria vita);  per gli Elfi invece si tratta di un “volere non avere più futuro”, a causa della idealizzazione del passato, perchè per loro il ricordo del passato  non è uno strumento funzionale al futuro, ma è piuttosto  un tesoreggiamento avido. Gli Schiavi del Potere non hanno memoria del passato, gli Elfi hanno una memoria “appesantita”, che è zavorra. L'aspetto comune ai due gruppi è che entrambi non credono e non sperano  in un futuro incognito, aperto e nuovo. Ed entrambi sono attratti dal potere! Anche gli Elfi infatti cercano un “potere”, quello di arrestare il “cambiamento”, che poi specificamente è l'invecchiamento, perchè essi vorrebbero mantenere le cose “fresche e belle”. E questo loro minore “potere” è legato al maggiore “Potere” di Sauron e degli Schiavi, quando infatti questo cade, si esaurisce anche il loro [53]. Come a dire che quando crolla la forza che tende sempre più a dominare le altre “volontà” (e che necessita della longevità per riuscirci), ecco che crolla anche l'idealizzazione del passato e il rifiuto del “cambiamento” (dell'invecchiamento)[54].

La memoria del passato – potremmo allora riassumere - è buona solo se essa serve a chiarificare l'azione morale futura (“historia magistra vitae”), come già Nietzsche e Croce sottolineavano nella loro critica alla storiografia antiquaria[55]. E, visto che gli Elfi nella fiction tolkieniana rappresentano un aspetto dell'Antropologia reale[56], potremmo dire che Tolkien, attraverso la longevità naturale degli Elfi e quella seriale degli Schiavi, voglia rappresentare – non unicamente, ma tra l'altro! - un aspetto patologico (al limite “psicotico”) della natura umana , e cioè le distorsioni che la vita può avere nel suo perdurare “troppo” a lungo, evitando così l'incontro con la Morte (che è l'unica “vera immortalità”)[57]. Tale pensiero sulle distorsioni del “troppo”, credo, può esser stato motivato da caratteri propri della vita di Tolkien stesso, come poi cercherò di mostrare. Ora, però, mi soffermo sulle conseguenze filosofiche di tale antropologia, e per esempio sulla cosiddetta “escatologia”, e cioè la riflessione sulle “cose ultime”[58], o – come anche si dice - sullo ”ultimo fine”[59] della vita umana.

 

Escatologia

“Prendere su serio la vita vuol dire accettare fermamente,

 rigorosamente, il più serenamente possibile, la sua finitezza”

Norberto Bobbio, De Senectute

 

Giustamente osserva Franco De Masi che non è facile discernere quanto il pensiero della morte ostacoli a vivere e quanto invece aiuti la riflessione sul valore e sul senso della vita[60]. Più chiaro è il vedere come la negazione della morte porti a una cecità verso l'esperienza reale del trascorrere del tempo; e però questa negazione non coincide con la fede religiosa nella “immortalità”, bisogna infatti vedere cosa si intenda col concetto di “immortalità”[61]. Infatti le stesse grandi religioni storiche hanno almeno due aspetti: uno profondo ed autentico, e uno superficiale ed escapista. Giustamente Garbowski osserva che una visione molto semplicistica dell'aldilà nel comune immaginario religioso fa sì che molti pensino all'immortalità come ciò che Tolkien chiamava vita seriale, e cioè una continuazione della vita così come la conosciamo; forse è per questo che, invece di trattare direttamente il tema dell'aldilà, Tolkien fa vedere artisticamente negli Elfi l'immortalità come semplice mancanza di morte, e la loro invidia per la mortalità si capisce come invidia per un riposo da una vita piena di sofferenza e che non offre piene risposte. [62]. E Shippey osserva che se per es. nel suo  Paradiso Perduto Milton ritiene che  la morte sia una giusta punizione per il peccato,  invece “il Silmarillion sembra volerci persuadere a vedere la morte potenzialmente come dono o una ricompensa”[63].

Paradosso! Per Tolkien la “ricompensa” non è una una sorta di “risveglio” seguito da una sorta di continuazione della vita in mezzo a luci, a musiche celestiali e all'abbraccio delle persone care, come vuole l'immaginazione popolare sulla “immortalità”, ma è la morte (la “vera immortalità”)!

Potremmo qui ricordare che nella tradizione filosofica - anche cristiana come in Tommaso d'Aquino[64] - la cosiddetta “eternità” non coincide affatto con un “tempo infinito”: il tempo riguarda il mutamento, mentre l'eternità riguarda l'immutabilità, “tota simul existens”, e – dunque – se l'immortalità si concepisce come “vita eterna”, essa non è una vita che duri un tempo infinito. Opportunamente Renée Vink osserva:  proprio come la vera immortalità è stata confusa con la longevità seriale, così l'eternità si confonde col tempo infinito: la Morte può non esser un nemico, ma il tempo sicuramente lo è [65].

Tolkien scrive che la morte non è punizione per un peccato, ma è inerente alla natura umana (biologica e psicologica), e il tentativo di evitarla è sia malvagio (perchè va contro la natura) sia stupido “perchè la morte libera dalla stanchezza del tempo”[66]. Queste due cause dell'escapismo, invero, sembrano più adatte a sorgere nella mente di una persona già di “una certa età”: infatti un giovane potrebbe facilmente non approvare nessuna delle due, certamente non la seconda. Eppure muoiono anche i giovani. John Garth così commenta la poesia Kortirion che Tolkien ventitreenne scrisse nel 1915: essa possiede la tipica malinconia tolkieniana per un mondo che scivola via, l'estate cui egli guarda con nostalgia può esser vista sia come come la sua infanzia sia come il passato prima della Guerra, e l'inverno può essere visto come l'unico letale futuro offerto alla generazione dei giovani come lui[67].

Sappiamo però che il futuro per Tolkien non sarà la morte in guerra ma il matrimonio con Edith, i figli, la filologia a Oxford, la scrittura dei suoi romanzi e il successo letterario mondiale. Una cosa dunque è ciò che ci immaginiamo del futuro, un'altra è ciò che esso è. Due filosofi contemporanei di Tolkien – Croce nato nel 1866 e Popper nato nel 1902 - hanno molte volte sottolineato che il futuro è del tutto inconoscibile, esso non è campo per la conoscenza ma bensì per la volontà, per il progetto della nostra azione[68]. Shippey commentando i passi di SdA relativi allo Specchio di Galadriel e ai Palantìri, osserva che Tolkien vuole avvertirci contro un grande pericolo: “troppo speculare sul futuro può erodere la volontà di agire nel presente”; non bisogna “speculare”, ma “fare il proprio lavoro” con decisione e perseveranza, e “tale attitudine mentale può esser ricompensata oltre ogni speranza”[69]

Le “cose ultime” sono la Morte (termine della vita), il Giudizio (sul significato della mia vita), l'Inferno (il non averne avuto), il Paradiso (l'averne avuto), e riguardano sempre e solo il futuro. E – questo – è vero sia per un vecchio sia per un giovane. Nella canzone che Frodo (che era un giovane hobbit, “appena uscito dall'adolescenza”) canta  nella Vecchia Foresta viene detto – per incoraggiare il viandante non per scoraggiarlo! - che “a est e a ovest ogni bosco finisce”; e Shippey commenta che in queste parole è difficile fare a meno di pensare alla vita e alla morte, e che nella morte ( cioè la “fine” del bosco) i viaggiatori si faranno strada verso la luce del sole[70]. In effetti, ciascuna vita non c'è sempre stata, e non ci sarà per  sempre. Essa è  de-finita da “confini”! E perchè secondo Tolkien tale “finitezza” serve a dare speranza? Se fosse solo perchè con la morte i mali presenti cesseranno, questa sarebbe appena un'idea di atarassia epicurea, e non varrebbe per un giovane in buona salute fisica e psicologica.  Più interessante la motivazione che dà Bill Davis: la finitezza della tua vita può essere un bene perchè ti prospetta un'uscita dalla ripetizione del già noto, sia che tu tale uscita la veda da lontano se sei giovane o che la veda da vicino se sei vecchio[71] .

Più nel profondo,  ci potrebbe essere il messaggio che proprio la non-transitorietà in sé stessa sarebbe un male, perchè comporterebbe una necessaria fissazione della superbia: ogni cosa che crediamo di tenere “per sempre” infatti ci rende superbi o almeno dimentichi dei nostri limiti[72], dei nostri difetti, e chiusi a guardare altre e nuove cose. Ciò che è “altro” e “nuovo” capita ogni giorno, e però è difficile da vedere e - se visto - da accogliere; varie paure e varie superbie ce lo impediscono. Alla fine del suo libro sui filosofi e la morte (i loro pensieri sulla morte e le loro morti!) Simon Critchley osserva che la vita di ciascuno è come chiusa nelle strette di strutture precostituite: l'evoluzione della specie, la situazione storica, il proprio freudiano “romanzo famigliare”; e i desideri sollevati in noi da tali strutture rischiano di soffocarci. Noi non possiamo rifiutare tali non richiesti doni della natura e della cultura, ma possiamo trasformare la maniera con cui  accettiamo tali doni e possiamo stare più pienamente nella luce che getta l'ombra della nostra mortalità: “sono convinto che, se noi accettiamo la nostra finitezza, allora potremo sbarazzarci delle fantasie infantili onnipotenti; essere una creatura significa accettare la nostra finitezza in maniera tale da non disaffezionarci né disperarci, ma piuttosto traendo da essa coraggio e perseveranza ”[73].

Un senso di umiltà dunque ci potrebbe aprire alle “cose ultime” (a vedere ciò che è altro e nuovo); e la consapevolezza della morte può favorire tale umiltà, come la tradizione ascetica del cristianesimo e del buddismo per secoli ha sottolineato. Shippey, a proposito di due episodi di SdA, osserva: cosa significa che Frodo nelle Paludi Morte veda i visi degli Elfi e degli Orchi ugualmente pieni di alghe e sporcizia? E cosa significa che Merry nel Tumulo veda sovrapporsi il viso del Nobile morto a quello dello Spettro? Forse  questo: che tutta la gloria si decompone[74]? Sembrerebbe di sì, almeno per Tolkien, quando in una lettera egli scrive che i vincitori non possano godere della vittoria come avevano immaginato, e tanto più hanno lottato per goderne, tanto più la vittoria li deluderà[75].

Forse però nella morte non c'è solo l'umiltà (e il sollievo) della finitezza. Avendo ben presente l'ideologia cristiana di Tolkien, Shippey collega alla tematica della Resurrezione un momento di SdA: quando Gandalf sta per esser colpito da Signore degli Schiavi (che chiama sé stesso “Morte”) e - ecco! - in quel preciso momento un gallo canta e come in risposta si ode un suono di corni di guerra. È un richiamo al canto del gallo che – nel racconto evangelico - ode Pietro e subito ricorda le parole di Gesù e piange amaramente: questo canto significa che c'è stata una Resurrezione e dopo questo momento la disperazione di Pietro e la sua paura per la morte sarebbero state sconfitte; questo canto significa il giorno dopo la notte e la vita dopo la morte, afferma l'esistenza di un ciclo più grande al di sopra di uno più piccolo; significa che colui che teme per la propria vita la perderà, e che morire da impavidi non è una sconfitta[76].

Qui Shippey suggerisce che la Resurrezione coincida – nell'intimo reale, e non nella fantasia mitica – con la stessa scelta della morte (il futuro martirio di Pietro) per amore (di Gesù). E Davis osserva che Arwen preferisce una  vita finita ma con l'amore a una infinita senza di esso, quasi Tolkien dicesse così che è impossibile avere l'amore senza avere la morte, anche se non si sceglie la morte per sé stessa,  ma si sceglie l'amore,  e si accetta la morte come prezzo per averlo[77]. Anche Sam - osserva Shippey – torna a casa nella Contea, non per obbligo, ma forse avendo avuto un'altra opzione  - che però rifiuta - e cioè quella di andare con Frodo nelle Terre Immortali, ma lui, proprio come Arwen, sceglie la mortalità per amore (amore per Rosie, Elanor e gli hobbit della Contea); questa scelta renderebbe – secondo Shippey – così “triste” il finale di SdA : “ma mentre, da una parte, Sam è venuto alla Morte, per amore, egli, dall'altra, è tornato alla Vita, perchè ha davanti a sé un'esistenza lunga e di successo ”[78]. Arwen avrebbe potuto andare nelle Terre Immortali portandovi il ricordo del suo amore per Aragorn, ma – osserva Richard C. West - sceglie l'amore vissuto e con esso la morte che la farà fuoriuscire “dai confini del mondo”[79]. Ma, allora, queste Terre Immortali sembrano sì essere un riposo e una fuga dal dolore, però esse sono prive della “finitezza”, perchè sono dentro e non fuori dai “confini del mondo”; la Morte invece sembra essere legata sia alla finitezza (all'uscire dai “confini del mondo”), sia  all'amore.

La parola “amore” ha molti significati, di regola non incompatibili tra loro, però variegati. Spesso nella tradizione filosofica e religiosa è stato sottolineato che l'amore non è solo un sentimento ma è anche azione concreta verso il bene, cioè che l'amore ha un contenuto e uno scopo: l'amore per la propria famiglia, o l'amor di patria, o l'amore per la scienza sono collegati all'idea di dovere svolgere un compito, una missione. Se “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio per esso” (Gv. 3, 16), allora  l'idea platonica della vita come “esilio” è sbagliata, piuttosto la vita è una “missione”. Osserva Casey che la fuga platonica ha l'inconveniente di lasciare intatto l'Anello di Morgoth, di non divinizzare il Mondo.[80]

E Shippey - commentando le “canzoni di via” che appaiono lungo SdA  fino alla fine quando Frodo ne canta una prima di lasciare  la Terra di Mezzo – osserva che esse parlano di un dolore antico anche se sopito dalla bellezza terrena[81]. Ma dolore per cosa? Per un mondo che non muore ? E cosa sarebbe poi tale mondo? Platonicamente è qualcosa di “altro” rispetto a questo in cui viviamo. Ma, se ci distanziamo da Platone, potremmo forse veder che il “mondo che non muore” - per i quale proviamo quel dolore nostalgico – non è “altro” da questo, ma è qualcosa “in” questo: i valori morali da perseguire in questo mondo, valori per cui abbiamo nostalgia dato che ne siamo lontani a causa dei nostri variegati difetti. La nostra missione è perseguirli per amore verso essi e per amore verso il mondo che di essi ha bisogno[82].

Quando morì in guerra Robert Gilson, amico di adolescenza suo e di Tolkien, Geoffrey Smith scrisse a Tolkien che non gli importava che il loro sodalizio amicale e intellettuale  avesse  successi sociali, riconoscimenti espliciti, esso era di carattere “spirituale” e come tale trascendeva la mortalità, era “permanentemente inseparabile come Thor e il suo martello”; l'influenza da esercitare nel mondo era “una tradizione che per noi tra 40 anni sarà ancora così forte (se saremo vivi e se non lo saremo) quanto lo è oggi”[83]. D'altra parte – a ben vedere -   una missione  la abbiamo tutti, anche i cosiddetti “cattivi”: Tolkien in una lettera scriveva che ci sono persone che appaiono”dannabili” ma la loro “dannabilità” non è misurabile in termini di macrocosmo (infatti può lavorare per il bene)[84]. E, se c'è una missione anche per coloro che a noi appaiono malvagi, come possiamo visualizzare, comprendere la nostra missione nella vita? Tolkien in una lettera a una sua nipotina scrisse: perchè Dio ci ha inclusi nel suo disegno? Possiamo dire solo che lo ha fatto, e perciò non possiamo rispondere alla domanda su quale sia lo scopo della vita[85].

Frase - questa di Tolkien - piena di umiltà, limpidamente socratica ed aperta riguardo alle “cose ultime”, allo “ultimo fine”. Anna Mathie osserva che i capitoli finali del SdA sono un ritratto della mortalità, la Compagnia dell'Anello ha compiuto la sua missione, Gandalf e gli Alti Elfi hanno vinto la guerra, Frodo ha salvato il mondo, e ora essi se ne vanno dalla Terra di Mezzo e molte cose belle saranno dimenticate[86]. Cioè il missionario va via, ma gli effetti della missione  rimangono nel mondo. E Shippey si sofferma sull'esile ruscelletto che scorre a Mordor e sembra scorrere inutilmente, ma  invece esso  porta la massima utilità che qualsiasi acqua potrebbe dare (per Frodo, per Sam e per la Terra di Mezzo): fallimento apparente e successo effettivo[87]. Quella che sembra la morte del ruscelletto diventa invece causa di vita; la morte di ciascuno di noi – forse qui Tolkien sostiene o allude – sembra rendere inutile la vita di ciascuno di noi e invece  è quel chicco di grano che se non muore non dà frutto. La nostra vita individuale in quanto individuale è “finita”, delimitata da tante cose e soprattutto dalla morte; però essa  - forse! - è inclusa in un Disegno che la comprende ma che va oltre di essa. 

 

 

Filosofia della Storia 

 

“Io ho una forma mentis storica, la Terra di Mezzo non è un mondo immaginario.”

Tolkien, Lettera n. 183

 

 A proposito del TCBS, il loro club amicale e intellettuale, Smith aveva scritto al suo amico Tolkien poco prima di morire in guerra: “la morte di uno dei suoi membri non può, sono convinto, dissolvere il TCBS /.../ la morte può renderci disgustosi e indifesi come individui, ma non può mettere fine agli immortali quattro! /.../ Dio ti benedica, mio caro Ronald, e che tu possa dire le cose che per tanto tempo ho cercato di dire dopo che io non sarò più  qui per farlo”[88]. E analogamente Christopher Weisman dopo la morte dell'amico Rob Gilson scrisse a Smith: “io credo che noi ora non stiamo proseguendo senza Rob, ma anzi che proseguiamo con Rob; non è un'assurdità, anche se non abbiamo nessun motivo per supporlo, dire che Rob è ancora nel TCBS”[89]. Nelle parole di questi giovani è come  se le aspirazioni ideali e le esperienze di amicizia fossero una “X” immortale al di là degli individui umani.

Questa idea Tolkien la fa passare nel SdA: col suo senso di “profondità” dato dal continuo ricordo di persone ed episodi del passato che hanno impostato e contribuito alla storia che i protagonisti della vicenda presente stanno vivendo, come osserva Shippey;[90] e con la sua intenzione di consegnare alle generazioni future (il 'Libro Rosso dei Confini Occidentali'!) il ricordo della vicenda presente che diverrà passata, come osserva Ferré[91]. E non si tratta solo del ricordo: sia l'intreccio della storia sia i rapporti interpersonali tra i protagonisti ci comunicano continuamente e in atto come i destini degli individui siano strettamente e necessariamente legati, per la vita e per la morte; il rapporto tra Frodo e Sam (e Gollum!) è in questo senso esemplare[92]. Un'idea, questa dell'interpersonalità della salvezza, che è tipica della teologia cristiana  novecentesca – non a caso Weisman nella lettera sopra citata menzionava la “comunione dei santi” - la quale  così fortemente lungo tutto il XX secolo ha sottolineato il messaggio biblico e patristico della “escatologia collettiva”[93]. Shippey osserva che tutta la storia della Terra di Mezzo è stretta da un vincolo di interpersonalità: essa è come un Limbo in cui i morti non battezzati (perchè Tolkien pensava che le vicende da lui narrate fossero ambientate in tempi precristiani) aspettano il giorno del giudizio nel quale raggiungeranno i loro discendenti salvati e battezzati[94].

Ma – lungo il XX secolo - al di fuori delle chiese visibili (e forse prima che in esse) in molti altri campi si è manifestata la generale sensibilità di questo secolo per la “interpersonalità”: nei movimenti politici, nella pedagogia, nella psicologia clinica, nelle ricerche storiografiche, nella filosofia. Un filosofo che, pur non citandolo, Tolkien certamente conosceva era Robin G. Collingwood[95], sia per i luoghi e i tempi (erano entrambi colleghi del Pembroke College negli stessi anni) , sia per la buona fama non solo accademica  dei suoi scritti sulla filosofia della storia, sia per le sue ricerche storiche specifiche sulla Britannia Romana. Il libro principale di Collingwood[96] è The Idea of History del 1946, la cui idea centrale è quella del “re-enactment”: il pensiero storico (non solo negli storici di professione, ma in tutti gli uomini) è un rivivere i pensieri delle persone del passato[97]. Questa idea del “rivivere” ispira quei due romanzi sul “viaggio nel tempo” che Tolkien lasciò incompiuti: The Lost Road e The Notion Club Papers[98]; e Flieger ha scoperto che per questi scritti Tolkien direttamente si ispirò a un libro del 1927, An Experiment with Time del filosofo non accademico J. W. Dunne[99]. L'idea di “immortalità” che qui si può trovare è quella  - abbandonata però da Tolkien nei suoi romanzi – di persone che, in stati sognanti o eccitati della mente, rivivono o reincarnano persone e avvenimenti del passato comunque remoto. L'influenza delle idee di Collingwood su Tolkien – se mai potesse esser provata – mostrerebbe rispetto a quella  di Dunne qualcosa di diverso, perchè si riferirebbe non a stati eccitati o sognanti della mente ma al pensiero pienamente conscio e razionale, anzi al pensiero “critico”: Aragorn e Arwen “rivivono” le storie di Beren e Luthien in quanto le ricordano e le pensano ma anche le giudicano, così integrandole in maniera originale e creativa.

Ma, alla radice della Filosofia della Storia, bisogna decidersi tra alcune opzioni da base: bisognerebbe decidere per esempio se la storia è ciclica e allora “nihil sub sole novum” come – più che Qohèlet - pensavano gli antichi Gentili (per esempio con grande chiarezza l'imperatore e filosofo Marco Aurelio); oppure decidere, come gli antichi Ebrei, e poi, per la nostra civiltà cristianizzata dell'Occidente, che la storia procede verso una qualche direzione, non sapendo magari quale, però senza tornare e ritornare, e allora qualcosa di nuovo sotto il sole c'è.

Questa seconda opzione accosta il tema della immortalità non tanto al tema della reincarnazione o del “re-enactment”, ma piuttosto all'idea della staffetta generazionale: ciascuna persona e ciascuna generazione lascia il suo unico e irripetibile segno, il quale irreversibilmente cambia ciò che seguirà, inglobato per sempre nel nuovo che  - come nuovo – purtuttavia emerge.

Tolkien scriveva che ogni evento ha almeno due aspetti: uno riguarda la storia dell'individuo, l'altro la storia del mondo[100]. E della “storia del mondo” Tolkien si occupò, almeno nella sua fiction. Con alle spalle le forti filosofie della storia del XIX secolo (hegeliana, marxista, positivista), Tolkien si trovava a vivere in un periodo – la prima metà del XX secolo – in cui la lezione ottocentesca fu replicata e variata con sovrabbondanza: alcune filosofie della storia classiche e molto influenti[101] come quelle di Oswald Spengler[102] e di Arnold Toynbee[103], ma anche altre intellettualistiche e stravaganti come quella di Edmund Husserl[104] o terribili ed oscure come quella di Alfred Rosenberg[105]. Tutte  piuttosto pessimistiche, cosa invero non sorprendente dato quello che stava succedendo e quello che stava per succedere in Europa e nel Mondo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale questa superfetazione di filosofie della storia si sgonfiò e sparì. Per la selezione e lo sviluppo delle eredità del XIX secolo, l'immane dramma costituì infatti un discrimine: questa eredità (come tante altre) non fu più seguita, e le cose presero un altro corso.

Ma Tolkien fu un uomo pienamente d'anteguerra e  i suoi Silmarillion e SdA sono - tra l'altro – dei racconti di filosofia della storia. E nelle sue lettere  ha esplicitato alcuni dei rapporti tra questa e la reale storia del mondo[106]. Shippey scrive che si potrebbe pensare che Tolkien coi genitori e gli amici morti e in mezzo alla Grande Guerra, egli  volesse elaborare un mito per giustificare un suo sogno di fuga dalla morte, ma lui aveva “motivi molto più che personali” per fare questo e cioè elaborare una mitologia dell’Inghilterra (per l’Inghilterra)[107]. Come a dire – penso io - che questa mitologia doveva dare nobiltà (come a Roma l’Eneide nel critico momento della fine della Repubblica) all'Inghilterra dei suoi tempi, quella della “ora più bella” churchilliana; in cui il problema della morte e vita personali si innestano e cercano un senso nella funzione dei popoli nella Storia[108]. La  “filosofia della storia” tolkieniana non è pessimista come quelle di moda ai suoi tempi[109] e che ho citato sopra: nell'Età degli Uomini Tolkien prospetta sì malinconia per lo svanire della Bellezza Elfica, ma non un'idea di decadenza morale o d'altro tipo! Quando parla dello svanire della Bellezza Elfica (o degli Ent) e del sopravvenire dell'Età degli Uomini, Tolkien – diversamente da Spengler, Rosemberg, Husserl – non ci dà un messaggio di “decadenza” ma un messaggio di “finitezza”: questo suo rifiuto di accodarsi ai tanti “tramonti dell'Occidente” di moda ai suoi tempi  è per esempio esplicitato nel dialogo tra Gimli e Legolas a Minas Tirith.

Come qualcuno ha osservato, la morte di un individuo per preservare il suo popolo è sentita da molti come tollerabile e anche giusta, e come giovane soldato Tolkien vide l'incerto fato delle nazioni europee in guerra attraverso lo specchio dell'Alto Medioevo, quando la sorte dei piccoli popoli barbarici – come i Geti del Beowulf - era appesa a un filo, e cominciò a pensare che l'estinzione dei popoli nella storia è la normalità e non l'eccezione, e nella sua Terra di Mezzo, come nella Grande Guerra europea, il tema principale non è la mortalità (e il desiderio di immortalità) degli individui – diversamente che nel Faust di Goethe – ma quella dei popoli; nella prima metà del XX secolo le Nazioni Europee, dimenticandosi l'idea dell'impero universale cristiano, con nazionalismo wagneriano cercarono “l'immortalità nel reame della mortalità” proprio come Feanor, Galadriel e gli Eldar ribelli nella Prima Età[110].

E io commenterei così tale opinione: questo lo fecero tutte le Nazioni nella Prima Guerra Mondiale, mentre nella Seconda solo alcune: per esempio l'Inghilterra non lo fece : si difese, e difendendo sé stessa difese il Mondo e - poi - accettò di buon grado di perdere, nel Mondo oramai mutato, il suo Impero mondano. Così anche pensa W. A. Senior: nella tolkieniana “storia del mondo” assistiamo alla distruzione del Beleriand, Gondolin, Nargothrond, Doriath; la macelleria che Morgoth fa dei Noldor lasciando viva solo Galadriel richiama la strage di due generazioni di uomini britannici nelle due guerre mondiali, una perdita che ha  dissanguato il British Empire e lo ha portato alla sua graduale dissoluzione[111]. Una dissoluzione che Tolkien ( e molti inglesi con lui) non guardava certo con sfavore![112] La finitezza delle storie dei popoli così come la finitezza delle vite degli individui è vista con tristezza ma non con sfavore: la “vera immortalità”, ricordiamo!, coincide con la finitezza, con la morte.

Questo significato di “immortalità” come inserzione del contributo proprio e unico – e finito! - che sia i popoli sia le persone danno alla storia del mondo si applica – nella fiction tolkieniana – sia agli Elfi sia agli Uomini. Ma c'è un altro significato di “immortalità” che riguarda solo gli Elfi. Come altrove ho cercato di dimostrare in dettaglio[113] nel Mondo tolkieniano  accadono molti “avvenimenti” ( guerre, cadute di regni, tradimenti, etc.) ma non si producono “cambiamenti”: permane per migliaia di anni un “Medioevo Generico”, privo di quelle dinamiche profonde (cristianizzazione, rinascimento, rivoluzione scientifica, nascita degli stati nazionali, illuminismo, rivoluzioni politiche e industriali, etc.) che rendono la nostra storia reale un vero sviluppo. Ma questo Mondo tolkieniano è quello delle tre Età dominate dagli “immortali” ( rectius: longevi) Elfi: infatti delle Età degli Uomini la fiction tolkieniana non ci dice nulla.

Perchè questa immobilità storica?, mi sono chiesto.  L'immobilità storica - credo - ha un senso perchè riferita al Tempo degli Elfi. Una storia degli Uomini senza mutamenti culturali e sociali risulterebbe senza senso e porterebbe allo scetticismo teologico e alla disperazione: perchè innumerevoli generazioni di individui nascerebbero e morirebbero, se ciò non servisse in nulla alle generazioni successive, se non facesse procedere in nessun cammino, se non adempisse nessuna “missione”? L'Antichità reale ha certamente avuto mutamenti storici, ma la storiografia antica (nei Gentili, non negli Ebrei) ) di essi non era cosciente; per essa la natura umana era immutabile e il tempo era ciclico; da qui il profondo scetticismo verso gli Dei della tradizione e il penoso senso di disperazione che - come un fiume carsico – riemergono, nonostante le intenzioni, in un Polibio o in un Tacito.

   Invece gli Elfi di Tolkien vivono migliaia di anni, ed ecco allora che un senso del passare del tempo lo possono trovare nelle loro esperienze individuali : esperienze di persone che, nel corso della propria vita, a fatica e lentamente imparano, lasciano gli errori passati, hanno una maturazione morale. Tolkien attraverso la “immortalità” degli Elfi vuole parlare di un aspetto dell'esperienza umana[114]. Non l'esperienza collettiva dell'umanità, ciò che propriamente chiamiamo Storia, ma l'esperienza singola dell'individuo, ciò che chiamiamo Vita. Infatti proprio come per gli Elfi nel loro insieme durante le Tre Età non vi sono mutamenti culturali e sociali, così accade nella vita di ciascun singolo uomo : il carattere non cambia, perchè non possono cambiare i dati culturali e sociali del mondo che lo ha formato : un uomo del XIII secolo - che sia Dante Alighieri o il più umile servo della gleba - non potrà mai pensare e sentire e agire come un uomo del XVIII o del XX secolo, come sanno bene gli storici delle "mentalità"[115].

Se però il carattere non cambia, la vita di un individuo ha senso perchè cambia la risposta che egli dà al suo carattere. Il “libero arbitrio” non sta nel cercare di essere un'altra persona e di vivere una realtà esterna/interna diversa da quella che il Destino ha dato; ma sta nel cercare di comprenderla ("conosci te stesso") e così fare una critica - quali gli aspetti buoni, quali quelli cattivi? - e nel comportarsi di conseguenza. L'esempio chiaro è in Galadriel: nella Prima Età è un'orgogliosa principessa dei Noldor che va nella Terra di Mezzo contro il volere dei Valar, non per recuperare i Silmaril come Feanor, ma neanche per moderarne la leadership sul popolo come Fingolfin. Ella nella Terra di Mezzo cerca "un dominio suo"[116]. Galadriel alla fine della Terza Età è la donna che più non si allontana dal suo sposo Celeborn[117], che conserva in segreto l'anello Nenya, che sorveglia i movimenti del Nemico, che ospita e incoraggia la Compagnia dell'Anello, che rifiuta - nella memorabile scena con Frodo - ogni prospettiva di dominio, che va con Elrond e con Gandalf ai Rifugi Oscuri e lascia per sempre la Terra di Mezzo.

E questa è la maturazione morale, che per Tolkien è l'unico mutamento nella storia degli Elfi, in quanto - ritengo - tale "storia" non vuol parlare (almeno non in primo luogo) della Storia, ma della Vita. E, siccome la vita degli Uomini è tanto più breve di quella degli Elfi, essi sono assai maggiormente “inquieti”, perchè più urgentemente appellati dalla  conscia e inconscia richiesta di una maturazione morale da compiere prima di morire. Garbowski sottolinea come, nella Athrabeth, Andreth interpreti negativamente la inquietudine umana: diversamente dalla Ainulindale, per la donna la morte è la causa di tale inquietudine e non è un dono di Iluvatar, tutte le risorse umane compresa la ragione non possono penetrare la morte e rimane solo oscurità[118]. Ma – secondo Tolkien - Andreth ha torto! Come osserva Matthew Dickerson,[119]  gli Uomini in qualche modo hanno una libertà più significativa degli Elfi, per i quali la musica degli Ainur è Fato, mentre gli Uomini hanno il potere di “dar forma alla propria vita” oltre la musica. Infatti per Tolkien  la libera volontà è associata alla mortalità: “il dono della libertà va di conserva col fatto che gli Uomini dimorino nel mondo solo per breve tempo”.[120]

Anche qui dunque troviamo il tema della “finitezza”: è finito il tempo della vita degli individui, è finito il tempo della vita dei popoli, ed è finita (pur se non è nulla) anche la capacità di una persona di trattare col proprio destino (o “carattere”).

 

 

Un momento della vita di Tolkien

 

“I giorni sembrano vuoti, e non riesco a concentrarmi su niente.

 Trovo la vita così noiosa in questo imprigionamento”

Tolkien (in pensione)

 

“Qual è il momento di uscire dal mondo? Essere filosofi è imparare a morire”

Marco Aurelio, A sé stesso

 

Fonti e temi ispirativi di uno scrittore possono – giustamente – essere studiati per sé stessi, ma Tolkien – che pur antivedeva quanto a lungo gli accademici lo avrebbero fatto riguardo alle sue opere - pensava che “è l'uso particolare in una situazione particolare quale che sia, o inventata o presa volutamente in prestito, o ricordata inconsciamente, che è la cosa più importante da considerare”[121]. Proviamo dunque a guardare più da vicino la “situazione particolare” in cui Tolkien trattò maggiormente il tema della morte e dell'immortalità.

Testi chiama gli anni 1956-1960 “l'apice della riflessione tolkieniana”[122], e in effetti sia negli scritti di fiction allora inediti (e ora pubblicati nel volume The Morgoth's Ring) sia nelle sue lettere  - specificamente del 1957-58 -  vediamo un Tolkien “filosofo” come non mai. Gli scritti “di fiction” di questo periodo sono in realtà in buona parte discussioni e analisi filosofiche su temi come la natura del male, l'amore e la speranza, la sessualità e la fedeltà, la morte e l'immortalità. Su questo ultimo tema il culmine è la  Athrabeth che è del 1959, anno in cui Tolkien andò in pensione. Humphrey Carpenter nella sua biografia scrive che dalla  metà degli Anni Cinquanta egli smise di incontrare gli amici regolarmente: gli ultimi anni degli Inklings erano ruotati soprattutto attorno alla lettura di SdA che però adesso era finito, pubblicato e stava riscuotendo un crescente successo internazionale. Ora egli passava la sua vita soprattutto da solo a casa, desiderava dedicarsi al suo amato Silmarillion. Però era depresso, e trovava la sua vita noiosa, quasi una prigione[123].

Quando in guerra era morto il suo giovane amico Rob Gilson, Tolkien aveva scritto all'altro amico Smith che il “destino”del loro TCBS era la “grandezza”, quella di esser uno strumento nelle mani di Dio, di potere promuovere, fare e anche ottenere “grandi cose”; ora che Rob è morto la sua “grandezza” si è rivelata esser specificamente quella di un amico verso i suoi amici, ma Tolkien per sé stesso ritiene di avere ancora quelle speranze ed ambizioni; però ora si sente un individuo e non più membro di quel gruppo, che ritiene finito[124]. In questa lettera nel Tolkien 24enne vediamo una persona sensibile ed affettiva, ma non nostalgica, egli si volge al futuro e non al passato della propria adolescenza[125]. Alla fine degli Anni Cinquanta il Tolkien quasi settantenne aveva “mosso, fatto e anche ottenuto grandi cose”: il suo SdA aveva incontrato molte persone entusiaste di esso e ne avrebbe incontrate tante di più. Egli aveva inoltre sposato la sua “Luthien”, aveva avuto quella famiglia cui tanto aspirava, aveva incontrato nuovi e congeniali amici, in primo luogo C. S. Lewis, aveva potuto esprimere la sua vocazione di filologo come professore alla università di Oxford. Allora perchè quella noia, quella prigione?

Guardiamo le cose  da un altro punto di vista: ora il magnum opus di SdA era concluso e da esso Tolkien si era congedato, ora era in pensione e non faceva più l'insegnante, i figli erano cresciuti ed erano fuori casa, con gli amici e con Lewis si incontrava molto raramente, Edith e lui stesso cominciavano a provare in concreto i problemi dell'invecchiamento. Negli scritti filosofici di quegli anni egli riassume il suo pensiero sulla immortalità; ne esistono tre specie: 1) quella “vera” che coincide con la morte di chi, come gli Uomini,  ha un “breve spazio di vita”; 2) quella “folle” di chi è longevo ma diventa Schiavo del Potere come i  Nazgûl; 3) quella malinconica di chi è longevo ma è sempre meno interessato al futuro e sempre più al passato, come gli Elfi. Tolkien sta pensando a tre tipi di vita, uno breve e due lunghi. Cosa ha in mente? Quella breve gli ricorda i propri genitori e gli amici del TCBS morti giovani, verso cui si sente come “in colpa” di essere sopravvissuto così a lungo? Quella lunga e folle gli presenta la – invero in lui assai debole – tentazione di compiacersi del successo di SdA e di cercare di accrescere la propria popolarità? Quella lunga e malinconica gli ricorda che le cose importanti della sua vita sono dietro le sue spalle e ora ha davanti solo un progressivo invecchiamento e una maggiore solitudine?

Tolkien non era un narcisista come Heidegger (che diede precise disposizioni testamentarie affinché i propri inediti fossero pubblicati postumi a cadenze regolari, al fine di far continuare a parlare di sé, infesto “Spettro Seriale” della cultura![126]) e chiamava piuttosto “deplorevole culto” la popolarità datagli da SdA. Probabilmente il terzo tipo di vita – la malinconica longevità elfica – era quello che sentiva maggiormente come rischio per sé stesso, quella vita di cui scriveva in una lettera di quegli anni: l'immortalità elfica ha anch'essa una debolezza, perchè gli Elfi rimpiangono il passato e non hanno voglia di affrontare il cambiamento, e dunque anche loro cercano un (limitato) Potere, quello di preservare le cose dal cambiamento[127].

Shippey sottolinea come Tolkien avesse sempre cercato di fermare un cambiamento importante nel proprio ambito di interesse e attività: la progressiva estinzione accademica della Venerabile Filologia Comparata[128]. Ma nella lettera che ho appena citato Tolkien scriveva che con la caduta del Potere di Sauron  gli sforzi elfici di preservare il passato dal cambiamento caddero a pezzi anche essi! Cosa può significare questa sua idea? viene in mente che con la caduta del nazionalismo hitleriano gli sforzi dei filologi di preservare il rango sia accademico sia sostanziale della filologia - che era nata ed era stata coltivata ai suoi tempi d'oro proprio con scopi nazionalistici![129] - caddero in pezzi anche essi, o comunque cominciarono a farlo[130].

Mi viene anche da pensare che Tolkien “in quanto Elfo” (cioè artista e studioso[131]) abbia trovato “naturale” la propria longevità: e Carpenter ci racconta che in quegli anni e dopo, fino alla fine, Tolkien continuò indefessamente a lavorare sia nella fiction sia nella filologia. Ma, “in quanto Uomo”, la vide proprio così “naturale” (o, piuttosto, “seriale”?) al pensiero di essere un sopravvissuto sia ai lontani amici del TCBS sia ai tanti morti della Seconda Guerra Mondiale (tra cui il più grande medievista del XX secolo, Marc Bloch, assassinato dalla Gestapo perchè membro della Resistenza francese )? Sono domande a cui è difficile dare una risposta, ma sembra necessario almeno il porsele, allo scopo di prendere sul serio le “sperimentazioni artistiche” e le “riflessioni filosofiche” di Tolkien su Morte e Immortalità !

In una lettera del 1958 Tolkien precisa che la cosiddetta immortalità elfica non è la “vera immortalità” ma è “precisamente una longevità coestensiva alla vita di Arda”[132]. Arda: cioè questo Mondo! E il Mondo ha continuato ad esistere anche negli Anni Sessanta e nei primi Settanta: Tolkien certo almeno a quegli anni era “coestensivo”, ma forse si sentì “svanire” o “sbiadire” come speculava negli ultimi suoi scritti riguardo agli Elfi durante le Età degli Uomini?

Un sentimento, una tentazione, credo di sì. Ma – credo - non fu il nerbo della sua vita: Carpenter ci racconta che gli ultimi anni della vita di Tolkien furono pieni, se non di relazioni, certamente però  di desiderio di relazioni interpersonali con la moglie, coi figli, con i fan, con gli ex colleghi, addirittura con gli effimeri ospiti dell'Hotel Miramar. Cioè credo che egli, in quanto Uomo, fosse riuscito fino all'ultimo a uscire da sé stesso e dai suoi ricordi, e – attraverso l'amore delle persone e per le persone  – a proiettarsi nel presente!

Ma, prima di concludere, dobbiamo brevemente volgerci anche a Tolkien “in quanto Elfo”, e cioè studioso di scienze umane e – soprattutto – grande artista. Se egli aveva vagheggiato di comporre una “mitologia per l'Inghilterra” - osserva John Rateliff – il risultato ottenuto è stata una “mitologia per i Nostri tempi”, perchè SdA è stato tradotto in 38 lingue, la maggior parte dei suoi lettori non è mai stata in Inghilterra, e perfino quelli della Germania – la mortale nemica dell'Inghilterra di sessant'anni fa – preferiscono questo libro alla Bibbia e ai libri dell'autore nazionale Thomas Mann[133]. Ma già Tolkien poteva percepire l'intenso gradimento del pubblico e se ne meravigliava, anche perchè in primo luogo aveva scritto SdA per dare piacere a sé stesso, e per fare un “esperimento” di induzione di “credenza secondaria”[134].

Cosa significava “esperimento” per Tolkien? Carpenter fa dire a Tolkien in un tipico giovedì sera degli Inklings: certi libri risvegliano desideri che non andrebbero risvegliati, come fanno i libri pornografici, ma i desideri risvegliati dai libri sulle Fate sono di tipo diverso; chi legge la pornografia vorrebbe vivere nella realtà situazioni simili a quelle descritte dai libri (e, quando lo fa, rimane deluso), chi invece legge il capitolo su Moria di SdA non vuole realmente “sperimentare” i pericoli di quelle miniere. Gli risponde Lewis: l'immaginazione pornografica svuota la realtà e la rende meno appetibile, invece il racconto di un bosco incantato fa sì che un bambino poi apprezzi maggiormente i boschi reali.[135] 

E Shippey scrive una cosa molto interessante a proposito della filologia nel suo percorso storico: il fiorente sviluppo di questa disciplina nel XIX secolo permise di scoprire Goti e Unni e altre culture nordiche, e  ai filologi di allora e anche a Tolkien sembrò che si potesse arrivare almeno vicini a ricostruire i “Mondi Perduti” di quei popoli, e la tecnica stessa della filologia, che “ricostruisce”, li portava verso questo desiderio di tipo romantico, che però i filologi di oggi, tra cui Shippey stesso, giudicano essere di impossibile realizzazione: troppo pochi sono infatti i documenti rimasti! Se ricostruzione vi può esser di quei “Secoli Bui”, essa può esser fatta solo con l’immaginazione romanzesca, come fecero prima William Morris e poi Tolkien stesso.[136] Qui mi viene da pensare che nella misura in cui Tolkien si accorse dei limiti della filologia, non solo nel suo declinante ruolo accademico e sociale di cui si è detto sopra, ma anche  di quelli strutturali ed intrinseci cui si accenna ora, cercò sempre di più un'altra via per il “re-enactment”di cui sentiva bisogno nella sua fiction , quella fiction  che a volte chiamava “il mio vero lavoro”.

Ma le cose non sono così semplici: da una parte ancora nel 1961 lavorava come filologo per l'edizione critica di Ancrene Wisse, e dall'altra le continue aggiunte e modifiche all'infinito Silmarillion non avevano più per Tolkien il significato che avevano avuto la composizione di SdA e quella stessa del Silmarillion quando ancora, anni prima, pensava di pubblicarlo assieme a SdA. La giovinezza non è come la vecchiata! Tutto cambia (e passa! ): Tolkien era sempre più cosciente – e lo esprimeva – che anche come autore di fiction, qualcosa era cambiato, e le sue risorse non  erano infinite. Shippey, nella sua analisi della fiaba-allegoria Fabbro di Wootton Major (del 1965), sottolineando che in essa Tolkien si identifica nel fabbro protagonista, indica come Tolkien in quegli anni percepisse che sia la filologia sia il Mondo di Feeria (la fiction, la subcreazione artistica)  avessero oramai terminato di dare il loro contributo a Tolkien come individuo, anche se non ad altre persone che in altri tempi e in altri modi le potranno coltivare e portare avanti a modo loro[137]. Cioè – rispetto agli Anni Trenta quando Tolkien, nel saggio sul Beowulf e in quello Sulle Fiabe, baldanzosamente indicava la potenza rispettivamente della filologia e della fiction subcreativa – ora, nel 1965,  pur continuando a lodarne i benefici, ne indica invece i “limiti”, sia come risorse salvifiche per un singolo individuo, sia in sé stesse, in quanto caratterizzate da limiti intrinseci. È anche questo – penso -  un tolkieniano Elogio della Finitezza: la filologia e la fiction sono sì dei beni, ma sono dei beni “finiti”, dunque esse sono certamente da apprezzare, ma  non sono da idealizzare.

Ecco, concluderei, questo convincimento guadagnato in forma esplicita con la riflessione (con la “filosofia”) solo in tarda età, è stato però “agito” cioè vissuto, pur senza un'uguale esplicita consapevolezza, da Tolkien  lungo tutta la sua esistenza. In Tolkien la costruzione fantastica non è mai stata un sostituto della vita reale (una forma di “pornografia per intellettuali”): non dei rapporti interpersonali, non dei doveri del lavoro, non della serietà della ricerca negli studi. Luthien non ha sostituito Edith, la Terra di Mezzo non ha sostituito la storia d'Europa che egli attraversava, e gli Annali del Silmarillion non hanno sostituito le congetture oggettive sui testi medievali. Ma quelle creazioni (“subcreazioni”!) fantastiche lo hanno aiutato a coinvolgersi maggiormente in queste esperienze della sua vita. E ciò avvenne anche nell'ultimo tratto di essa – quello della vecchiaia e della solitudine - quando Tolkien, purtuttavia,  continuava a filosofare e a scrivere sulla longevità degli Elfi e sulla mortalità degli Uomini. De te fabula docet!



[1]              Mai in quelle pubblicate in vita, nelle postume una volta cita Platone in The Notion Club Papers a proposito del mito di Atlantide  che rimanderebbe a quello di Nùmenor (Sauron Defeated, HarperCollins Publishers, London, 1993, p. 249) e una volta di sfuggita ( a proposito della struttura linguistica del Latino) nelle lettere il poco noto filosofo tedesco Theodor Haecker (Letters, George Allen & Unwin Ltd., London, 1981, n. 338 p. 419), che fu uno dei pochissimi esempi di intellettuale tedesco antinazista, in  contatto  con la Rosa Bianca; ma il contesto della citazione fa pensare che Tolkien si riferisca al libro di Haecker  su Virgilio, letterario e non filosofico (Virgil, Father of the West, trans. by Arthur Wesley Wheen, Sheed & Ward, London, 1934 ).

[2]              Letters, cit, n. 131, p. 151.

[3]              Email, 21.08.09.

[4]              J.R.R. Tolkien, The Morgoth's Ring, HarperCollins Publishers, London, 1994, p. 343.

[5]              Summa Theologiae, Ia-IIae, quaestio 34, art. 2: Tommaso distingue tre tipi di piacere (il piacere è il sentimento che segue il desiderio di un qualcosa ritenuto essere un bene [bonum]) che sono  basati su tre tipi di “bonum”: a) “bonum per se”, cioè “per suam naturam” e dunque universalmente tale; b) “bonum conveniens secundum dispositionem” (dunque non universalmente tale) ma tale in relazione ad alcune circostanze “non naturali”, per esempio per un uomo malato alcune piante sono per lui medicinali mentre sono velenose per gli uomini sani; c) “apparens bonum”, quando un uomo è in errore e pensa esser bene ciò che in realtà è un male” . Mi sembra evidente il parallelismo tra il “natural desire”e il “bonum per se”, tra il “personal desire” e il “bonum conveniens secundum dispositionem”, tra lo “illusionary desire”e lo “apparens bonum”.

[6]              Humphrey Carpenter, The Inklings, Jaca Book, Milano, 1985, p. 149.

[7]              Claudio Testi ha acquistato la copia di Tolkien sul mercato del collezionismo e ha ricevuto una perizia positiva da Carl Hostetter.

[8]              The Morgoth's Ring, cit, p. 320.

[9]              Summa Theologiae, Ia-IIae, quaestio 40, artt. 1,3,6.

[10]             Summa Theologiae, pars secunda secundae partis, quaestio 18, art, 4, ad secundum et ad tertium. Su Tomamso d'Aquino come fonte per Tolkien si veda di Bredley J. Birzer, Aquinas in Michael Drout (editor), J. R. R. Tolkien Encyclopedia. Scholarship and Critical Assessment, Routledge, New York and London, 2007, p. 21.

[11]             Vedi Gergely Nagy, Plato, in  J. R. R. Tolkien Encyclopedia, cit, p. 513. E Gregory Bassham ricorda l'uso tolkieniano del termine “demiurgico” riferito ai Valar e preso dal Timeo, Nùmenor ispirata all'Atlantide del Crizia, l'Anello ispirato da quello di Gige ne La repubblica, la reincarnaziondegli Elfi ispirata al Fedone (email, 15.06.09)

[12]             John William Houghton, Augustine in the Cottage of the Lost Play, in Jane Chance (editor), Tolkien the Medievalist, Routledge, New York London,2003, pp.171-182. E anche dello stesso Augustine of Hippo, in  J. R. R. Tolkien Encyclopedia, cit, p. 43.

[13]             Tom Shippey,Tolkien Autore del secolo, Simonelli, Milano, 2004, pp. 162-173. E Gregory Bassham argomenta i motivi per cui è sicuro che Tolkien possedesse il De consolatione philosophiae  (email, 15.06.09).

[14]             Michale Drout (editor), J. R. R. Tolkien Encyclopedia, cit. ;  Wayne Hammond & Christina Scull, J. R. R. Tolkien Companion and Guide. Reader's Guide, HarperCollins, London, 2006.

[15]                    Letters, cit., , n. 26, n. 49, n. 153, n. 156, n. 183.

[16]             Ibidem, cit, n. 15, n. 49, n. 52,

[17]             Ibidem, n. 153, p. 189 (mostrando così implicitamente, mi sembra, di conoscerne qualcuno!).

[18]             n. 157, n. 211, n. 199

[19]             n. 155, n. 84, n. 156: in quest'ultima interessante è notare che “religione” equivale a “mito” (“racconto”, in greco) e a “rappresentabilità” sensibile, come anche dice più volte (senza però mai esplicitarne la spiegazione)  nel suo saggio Sulle Fiabe.

[20]             n. 84.

[21]             Cfr. Tom Shippey Goths and Huns: the Rediscovery of Northern Cultures in the 19th Century, in Roots and Branches. Selected Papers in Tolkien, Walking Tree Publisher, Zollikofen (Switzerland), 2007, pp.114-136.

[22]             Beowulf:  the Monsters and the Critics, in The Monsters and the Critics and other Essays, George Allen and Unwin,London, 1983

[23]             J.R.R. Tolkien, Sauron Defeated, cit.,  pp. 159, 178.

[24]             Secondo me del tutto voluta: per esempio nelle versioni preparatorie del saggio Sulle fiabe Tolkien cita Carl G. Jung, ma in quella definitiva cita solo la parola 'archetipo' ma non il nome dello psichiatra zurighese, vedi Tolkien on Fairy Stories, edited by V. Flieger e D. A. Anderson, HarperCollins, London, 2008, pp. 129, 170, 307.

[25]             Ambientata al Magdalene College la sera di un giorno tra l'autunno del 1940 e il dicembre del 1941; vedi I Giovedì sera in Humphrey Carpenter, The Inklings, cit., pp. 147-172

[26]             Contro Karl Marx e il teologo Karl Barth., ibidem, p.154.

[27]             Da ripetute comunicazioni fattemi da Shippey .

[28]             Vedi il commento (secondo me giustamente) critico di Shippey  verso il padre della filosofia analitica anglosassone G. M. Moore nel suo  Tolkien Autore del secolo, cit, p. 185, e anche una sua testimonianza personale su una disputa coi “filosofi” di Oxford (email, 14.07.09).

[29]             ibidem

[30]         Inside Language. Linguistic and Aesthetic Theory in Tolkien, Walking Tree Publishers, 2007, pp. 140-141

[31]             Simile (anche se non identica alla mia) l'opinione di Patrick Curry: l'opera di Tolkien ha profonde implicazioni filosofiche, ma non si possono trovare dirette connessioni con testi filosofici (email. 21.03.09). E John Garth scrive di non avere mai visto negli inediti tolkieniani alla Bodleian Library nomi di filosofi o temi filosofici  e che non vi sono titoli filosofici nelle liste di libri posseduti da Tolkien (email, 26.03.09). E Dimitra Fimi afferma le stesse cose  (email, 05.04.09). E questo risulta anche a me essendo andato poi personalmente alla Bodleian e alla English Faculty Library.

[32]             Come ricorda W. A. Senior, Loss Eternal in Tolkien's Middle-earth, in George Clark and Daniel Timmons (editors), J.R.R. Tolkien and His Literary Resonances, Greenwood Press, Westport – Connecticut, 2000, p. 173.

[33]             Ibidem.

[34]             Tom Shippey, La Via per la Terra di Mezzo, Marietti 1820,  Genova-Milano, 2005 (The Road to Middle-earth, HarperCollins Publishers, London, 2005), p. 418.

[35]             Tom Shippey, Roots and Branches. Selected Papers in Tolkien, Walking Tree Publisher, Zollikofen (Switzerland), 2007, pp. 317, 383.

[36]            J.R.R. Tolkien, The Morgoth's Ring, cit.: questo libro assieme a quello delle Letters sono i due volumi tolkieniani più “filosofici”.

[37]             Ibidem, p. 317.

[38]             Ralph C. Wood. The Gospel According to Tolkien. Visions of the Kingdom in Middle-earth, Westminster John Knox Press, 2003, p.  159. E Anne Mathie (Tolkien and the Gift of Mortality in www.firstthings.com , November 2003) commenta che per Tolkien il “mondo materiale” e il “corpo” non possono essere fuggiti, pena conseguenze terribili.

[39]             Vedi il saggio di Claudio Testi nel presente volume.

[40]             The Gift of Ilùvatar, in “The Australian Journal of Theology”, Febr. 2004, issue 2, online. E Shippey osserva che la teologia su “anima  e corpo” ci ha messo tempo a svilupparsi e in una delle più popolari raccolte di sermoni anglosassoni si afferma semplicisticamente che l'anima è buona e il corpo è cattivo, nonostante la teologia di Tommaso fosse già nota al tempo, e Tolkien che conosceva questi testi è molto attento a dare pieno valore alla Incarnazione (email, 27.06.09). In effetti ho verificato che tra i libri posseduti da Tolkien (e ora consultabili alla English Faculty Library di Oxford) c'è un Old English Homilies (edited by R. Morris), London, N. Trübner & Co, 1868, tra le quali omelie  per es. c'è una intitolata Hic Dicendum est de Quadragesima  in cui un concetto fondamentale è  “il corpo ama ciò che l'anima odia”,  pp. 11-25.

[41]             Wood, The Gospel, cit, pp. 158-160

[42]             Casey, The Gift, cit.

[43]             Letters, cit., n. 291, p.371.

[44]            Christopher Garbowski, Recovery and Transcendence for the Contemporary Mithmaker, Maria Curie – Sklodowska University Press, Lublino, 2000, p. 168.

[45]             La via per la Terra di Mezzo, cit., p.337

[46]             Cfr. Franco De Masi, Il limite dell’esistenza. Un contributo psicanalitico al problema della caducità della vita, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 21; sull'idea freudiana dell'assenza di una rappresentazione oggettiva della morte nella mente umana, si veda anche il saggio di Roberto Arduini nel presente volume. E sui temi del dolore fisico e morale e sulla differenza tra paura e timore, si vedo in questo volume il saggio di Giampaolo Canzonieri. E scrive W. A. Senior, ( Loss Eternal, cit., p. 173) che l'idea principale in Tolkien è quella del doloroso senso di perdita, di cui la morte è solo una delle forme.

[47]             Franco De Masi, Il limite dell’esistenza, cit., pp. 107-109,129, 96.

[48]            Vincent Ferré, La Mort dans Le Seigneur des Anneaux, « seconde partie » del libro  Tolkien: sur les rivages de la terre du milieu, Christian Bourgois Éditeur, Paris, 2001, pp. 253-255.

[49]             Vedi il saggio di Alberto Ladavas nel presente volume.

[50]             Letters, cit., n. 208, p. 267.

[51]             Ibidem, n. 211, p. 284. Su questo punto - pur se in maniera un po' confusa – vedi anche Peter Kreeft : in Tolkien ci sono due Immortalità: quella falsa è la “longevità seriale” , quella vera è un naturale desiderio di Fuga dalla Morte  e questa è l'eucatastrofe descritta in Leaf by Niggle, la vera immortalità è un'autopurgazione, autosacrificio; ci sono anche due Morti: quella cattiva è la morte della coscienza ed è legata alla falsa immortalità, quella buona è la morte dell'egoismo ed è legata alla vera immortalità; e Tolkien scrive che gli atti più grandi dello spirito umano sono atti di abnegazione ( The Philosophy of Tolkien, Ignatius Press, San Francisco, 2005, p. 96-100).

[52]             Letters, n. 212, p. 285. Vedi i saggi di Alberto Quagliaroli e  di Andrea Monda nel presente volume.

[53]             Ibidem, n. 181, p.236

[54]             Così John D. Rateliff  (“And All the Days of her Life are Forgotten”, in Wayne Hammond & Christina Scull [editors], The Lord of the Rings 1954-2004, Marquette University Press, Milwaukee, 2006, pp. 87-88) riassume questo punto: la proprietà comune a tutti gli Anelli del Potere era il rallentare i decadimento di ciò che è amato e Tolkien lo giudica un errore fondamentale degli Elfi: se i Numenorani vogliono vivere per sempre in un infinito presente, gli Elfi invece vogliono che il passato duri per sempre, entrambi gli errori cercano di frustrare la capacità del futuro di dare i sui propri contributi; ma Iluvatar dà agli Uomini il tempo e la morte che gli permettono di creare, il presente non è una lavagna vergine ma una lavagna che è stata cancellata (perchè il passato deve cedere al presente) mentre gli Elfi aggrappati al passato sono costretti a svanire assieme con esso.

[55]             Vedi di Nietzsche le Considerazioni inattuali (1873-1876) e di Croce La storia come pensiero e come azione (1938).

[56]             Tolkien, Letters, cit., n. 153, p.189: gli Elfi rappresentano alcuni aspetti degli uomini reali.

[57]             Nel Panel Discussion on Mortality and Immortality fatta a Birmingham nel 2005, alla domanda sul perchè gli Uomini giusti (come Aragorn e i primi Re di Nùmenor) vivano a lungo, Harm Scelhaas ha risposto che tanto più una persona può sostenere la vita tanto più apprezza il dono della mortalità alla fine (Tolkien 2005.The Ring Goes Ever On. Proceedings, The Tolkien Society, Coventry, 2008, p. 46). Io dissento e risponderei invece: questa idea della longevità come “premio” è un residuo veterotestamentario in Tolkien (i patriarchi) ed è presente forse  nella idea stessa della longevità degli Elfi, stirpe che mai si allea con Melkor e con Sauron; ma è un'idea abortita e anodina, infatti nelle storie di Tolkien vari Uomini giusti (ed Elfi giusti) muoiono prematuramente, e Tolkien non poteva dimenticarsi le vite di molti Santi cristiani o quelle di vari protagonisti del Nuovo Testamento a cominciare da quella di Gesù: l'esser longevi non è affatto una precondizione per apprezzare il dono della mortalità!

[58]             Nella tradizione del cristianesimo le “cose ultime” sono: la Morte, Il Giudizio, l'Inferno, il Paradiso.

[59]             Lo “ultimo fine” è detto anche – da un altro punto di vista  - “sommo bene”: si tratta sempre della Felicità, vista o come principio (causa finale) delle azioni umane, o come criterio di preferenza nella comparazione dei vari beni tra loro quando sono in conflitto e bisogna scegliere.

[60]             I limiti dell'esistenza, cit,. p. 23

[61]             Ibidem, p. 101.

[62]             Recovery and Transcendence, cit., p. 168, corsivo mio.

[63]             La Via per la Terra di Mezzo, cit., p. 336. Ma Gregory Bassham dissente da chi pensa che la morte non sia punizione del peccato e sia invece inerente alla natura umana; per lui Tolkien ritiene gli Uomini originariamente immortali anche se cambiarono dopo il peccato; si sbaglia Shippey e non c'è contraddizione tra l'essere “dono” (in quanto cura della stanchezza data dal mondo)  e l'essere “punizione”(email, 15.06.09)

[64]             Summa Theologiae, pars prima , quaestio 10, articulus 1.

[65]             Immortality and the Death of Love: Tolkien and Simone de Beauvoir, in  Tolkien 2005.The Ring Goes Ever On. Proceedings, cit., p. 127.

[66]             Letters, cit., n. 156, p. 205.

[67]            John Garth, Tolkien e la Grande Guerra (2003), Marietti1820, Genova-Milano, 2007, p. 149. Si impone un confronto con la poetica nota scritta da Freud proprio nel 1915, che gli valse il prestigioso premio  “Goethe” e intitolata Caducità: in essa Freud racconta di una passeggiata fatta in montagna assieme a un giovane poeta che, nel mentre ammirava la bellezza della natura circostante, esprimeva una profonda tristezza al pensiero della  caducità di tale bellezza  (Freud, Opere, Boringhieri, Torino, 1976, vol. 8, pp.173-176).

[68]             Benedetto Croce, Zur Theorie und Geschichte der Historiographie, Tübingen Mohr, 1915 ; Karl R. Popper, Miseria dello storicismo (1957), Feltrinelli, Milano1997; Popper scrive che pervenne a questa tesi sull'impossibilità di prevedere il futuro nell'inverno 1919-1920 “attraverso una disanima del mitico, impellente avvento della Rivoluzione comunista mondiale”, p. 7.

[69]             Another Road to Middle-earth, in Roots and Branches, cit., p. 380-383.

[70]             La Via per la Terra di Mezzo, cit., p. 274

[71]            Bill Davis , Choosing to Die: the Gift of Mortality in Middle-earth, in Gregory Bassham (editor), The Lord of the Rings and Philosophy, Open Court, Chicago and La Salle, 2003, p. 127 : Davis presenta la metafora di una casa in cui non c'è una porta di uscita (vita degli Elfi) e di un'altra casa in cui tale porta c'è (vita degli Uomini), e si domanda dove conduca quella porta, in un posto degno? Nel nulla? E conclude : sentendosi intrappolati in un mondo senza via di fuga, gli Elfi invidiano la possibilità dell'annichilimento; sentendosi incerti e disperati, gli Uomini invece temono che la propria vita si annichili.

[72]             Avvicinandosi alla fine della sua lunga vita, Norberto Bobbio scriveva: “Tutto ciò che ha avuto un principio ha una fine. Perchè non dovrebbe averla la mia vita?” (De senectute e altri scritti autobiografici, Einaudi, Torino, 1996, p. 41).

[73]             Simon Critchley, The Book of the Dead Philosophers, Granta Books, London, 2008, pp. 280-281

[74]             La Via per la Terra di Mezzo, cit., p. 310.

[75]             Letters, cit., n. 181, p. 235.

[76]             Shippey, La Via per la Terra di Mezzo, cit. , pp.  307-308.

[77]             Davis, Choosing to Die, cit., p. 135

[78]            Shippey, email del 05.10.08, in cui aggiunge che Tolkien non avrebbe dovuto far andare Sam nelle Terre Immortali dopo la morte di Rosie, meglio sarebbe stato farlo morire nella Terra di Mezzo come nel viaggio di s. Brendano .

[79]             Richard C. West, “Her Choice was Made and her Doom was Appointed”, in  Wayne Hammond & Christina Scull [editors], The Lord of the Rings 1954-2004, cit., pp. 326-327.

[80]             Casey, The Gift of Ilùvatar, cit.  E Amaranth (Death in Tolkien's Legendarium, sito web della Valar Guild, 2007) sottolinea come gli Elfi reincarnati normalmente rimangono in Aman, e tornano nella Terra di Mezzo solo  se hanno una particolare missione da svolgere.

[81]             La Via per la Terra di Mezzo, cit., pp. 271-273.

[82]             Vorrei rimandare in questa nota delle frasi di Benedetto Croce  sui temi della morte, dell'immortalità, dell'individuo e della sua missione (vedi Frammenti di etica [1922] Laterza, Bari, 1981, pp. 23, 25).

[83]             In John Garth, Tolkien e la Grande Guerra, cit., p. 242

[84]             Letters, cit., n. 181, p. 234.

[85]             Ibidem, n. 310, pp. 399-400. Sul tema della “missione” interpersonale e ancora più specificamente patriottica che dà senso alla vita e alla morte individuali, si veda il saggio di Simone Bonechi nel presente volume

[86]             E aggiunge: “è uno dei più tristi finali nella letteratura”  ( Tolkien and the Gift of Mortality , www.firstthings.com, November 2003).

[87]             La Via per la Terra di Mezzo, cit., p. 312.

[88]             Lettera del 3 Febbraio 1916 citata in Garth, Tolkien e la Grande Guerra, cit., p. 163.

[89]             Lettera del 30 Agosto 1916 che poi Smith inoltrò a Tolkien, ibidem, p. 247.

[90]             La Via per la Terra di Mezzo, cit., pp. 427-439.

[91]             Vincent Ferré, Tolkien, sur le rivages de la Terre du Milieu, cit., p. 274: tomba e monumento, il romanzo perpetua la memoria delle vittime della Guerra dell'Anello, passate alla Storia.

[92]             Ibidem, pp. 197-199: alleanze e gruppi servono per vivere, le coppie sopravvivono e i soli muoiono, perchè l'individuo si fa prendere dalla ùbris, “la solitude conduit avec certitude à la mort”. E Anna Mathie (The Gift of Mortality, cit.) osserva che invece di desiderare un vita immortale per sè, gli Hobbit (come dovrebbero gli Uomini!) umilmente sperano di passare la vita alle nuove generazioni.

[93]             Per una sintesi di questo percorso – che nel magistero cattolico è culminato con il capitolo VII (L'indole escatologica della chiesa peregrinante) della costituzione Lumen Gentium del Concilio Vaticano II sul “popolo di Dio” - vedi il bel libro di teologia storica e sistematica di p. Ruiz de la Peña, L'altra dimensione. Escatologia cristiana, Borla, Roma, 1981, nei capitoli 5°- 8° e 11°.

[94]             La Via per la Terra di Mezzo, cit., pp. 291-292.

[95]             Cfr.  Alex Lewis, The Ogre in the Dungeon, “Mallorn” issue 47, Spring 2009, p. 15, dove l'autore ipotizza che la “Andrew Lang Lecture” del 1939 (Sulle fiabe) fu procurata a Tolkien da Collingwood stesso attraverso  un ex studente del Pembroke College. E anche Shippey ritiene che, pur Tolkien non essendo un esperto di filosofia, conosceva però Collingwood e magari aveva interesse per lui (email, 07.02.09). E anche Dimitra Fimi argomenta la sua convinzione che i due si conoscessero bene (email, 05.04.09). E anche Douglas Anderson ritiene che i due sia fossero amici sia condividessero alcuni interessi (email, 08.04.09). E Claudio Testi mi segnala un manoscritto catalogato come A 14/2 alla Bodleian Library; in cui Tolkien, dopo aver citato Beda a proposito del nome 'Britain', cita anche Collingwood e osserva che Collingwood sta scrivendo sulla Britannia romana e, essendo filosofo non meno che storico,  si interessa solamente delle fonti scritte di tipo filosofico, ma non di quelle letterarie nè dei problemi linguistici (email. 07.08.09). Io personalmente osservo che nel suo  libro Philosophy of Enchantment (Clarendon Press, Oxford, 2005), una sezione del quale si intitola Fairy Tales, scritto nello stesso momento in cui Tolkien preparava la conferenza Sulle Fiabe, Collingwood si occupa di temi quali la diffusione geografica e temporale  delle fiabe, del loro riferirsi ad “archetipi”, del significato della magia, della loro funzione per gli adulti e non per i bambini. Tutti temi trattati anche da Tolkien. Credo che la recente biografia di Collingwood (Fred Inglis, History Man, Princeton University Press, Princeton e Oxford, 2009, pp. 105, 201, 223), pur, citando tre volte Tolkien, sia molto insufficiente su questo punto delle relazioni tra i due autori.

[96]             Tra i filosofi suoi contemporanei  Collingwood trovò corrispondenza di idee soprattutto con l'italiano Benedetto Croce sul quale scrisse più volte e di cui direttamente e indirettamente diffuse le idee (soprattutto di filosofia della storia) nel mondo anglosassone, come ricorda  William H. Dray, l'autore del  più recente e più completo studio complessivo studio su Collingwood  (History  as Re-Enactment, Oxford University Press, Oxford, 1995, p. 26). Nella sua biografia intellettuale di Croce, Fausto Nicolini afferma che il filosofo inglese col quale Croce ebbe più stretti e frequenti rapporti epistolari e personali fu  Collingwood e ne racconta i particolari  ( Croce, UTET, Torino, 1962, p. 485).

[97]             Vedi The Idea of History. Oxford: Oxford University Press , 1946, pp. 215-216, 287, 300.

[98]             History of Middle-earth, voll. 5 e 9.

[99]             Verlyn Flieger, Tolkien’s Experiment  with Time in Aa.Vv. (a c. di P.Reynolds e G. Goodnight), Proceedings of the JRR Tolkien Centenary Conference, The Tolkien Society & The Mythopoeic Press, Milton Keynes and Altadena, 1995, pp. 39 - 44, tradotto in italiano da Roberto di Scala in “Terra di Mezzo” n. 7, primavera 1998, pp. 7-14.

[100]            Letters, cit., n. 181, p. 233.

[101]            Che difficilmente, data la loro diffusione in molti ambienti diversi, Tolkien avrebbe potuto ignorare, come pensa anche Michael Drout: “il rapporto tra Tolkien e i filosofi non è stato ancora esplorato sufficientemente, dunque questa ricerca è importante, purtroppo non abbiamo ancora la lista completa dei libri posseduti da Tolkien; io sarei personalmente scioccato se Tolkien non avesse conosciuto Spengler e Toynbee, ma provarlo è altra faccenda” (email, 22.03.09).

[102]            Der Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell'Occidente), del 1918.

[103]            A Study of History del 1934.

[104]            Die Philosophie in der Krisis der europäischen Menschheit (La filosofia nella crisi della umanità europea) del 1935.

[105]            Der Mythus des 20° Jahrhunderts  (Il mito del XX secolo) del 1934. Si veda una interessante comparazione tra la filosofia della storia di Rosenberg e quella di Tolkien in: Christine Chism, Myth and History in World War II, in Jane Chance (editor), Tolkien the Medievalist, cit, pp. 72-75.

[106]            Per esempio:  n. 13 pp. 144, 157; n. 211 p. 283, n. 294 p. 376, n. 183 p. 244. Si veda, di chi scrive, una sintesi e un'interpretazione in Storia reale e storia immaginaria nel Signore degli Anelli, in “Terra di Mezzo” n. 4, settembre 1996, pp. 24-35, ristampato in Franco Manni (a cura di), Mitopoiesi. Fantasia e Storia in Tolkien, Grafo Editore, Brescia, 2005, pp. 85-104. In inglese: Real and Imaginary History in The Lord of the Rings,  “Mallorn”, issue 47, Spring 2009, pp. 28-37.

[107]            La Via per la Terra di Mezzo, cit., p.  420.

[108]            Per queste relazioni tra la “finest hour” dell'Inghilterra e la composizione del SdA, si veda di me e Simone Bonechi The Complexity of Tolkien's Attitude Towards the Second World War, in The Ring Goes Ever On. Proceedings of the Tolkien 2005 Conference, 50 Years of the Lord of the Rings, The Tolkien Society, Coventry, 2008, vol. 1, pp. 33-51.

[109]            Meno pessimista anche di quella di Christopher Dawson, che dal canto suo  era meno pessimista di Spengler & C. Tolkien cita più volte Dawson nel saggio Sulle fiabe e il rapporto tra i due viene segnalato da Bradley J. Birzer (J R R Tolkien's Sanctifying Myth: Understanding Middle Earth, Intercollegiate Studies Institute, 2002) e da Gregory Bassham (email, 15.06.09).

[110]            “Spengler” (pseudonimo), Tolkien's Ring: When immortality is not enough, inAsia Times Online Ltd.” 2003.

[111]           W. A. Senior, Loss Eternal in Tolkien's Middle-earth, cit., p. 176. Sulla morte collettiva dei popoli e delle istituzioni nella fiction tolkieniana vedi anche il capitolo intitolato Le Déclin in Vincent Ferré, Tolkien: sur les rivages de la terre du milieu, cit., pp. 253-255.

[112]            Letters, cit., n. 53 p. 65, n. 77 p.  89.

[113]            Franco Manni, Storia reale e storia immaginaria, in Mitopoiesi, cit. p 91.

[114]           Letters,cit., n.153, p. 189.

[115]           Si definisce "mentalità" quel nucleo di convinzioni che accomunano tutti gli uomini di un certo contesto storico-geografico, indipendentemente dall'istruzione, dalla genialità personale, dal sesso, dalla professione, dalla ricchezza, dall'età. Vedi per es. Michel Vovelle, Ideologies and Mentalities, Polity Press, Cambridge, 1990.

[116]           Il Silmarillion, Bompiani, Milano, 2000, p. 97; Racconti incompiuti, Rusconi, Milano, 1981, pp. 311-317: "Dei figli di Finarfin, sono l'ultima. Ma il mio cuore è ancora pieno di orgoglio. Quale mai torto ha commesso la dorata casa di Finarfin che io debba chiedere il perdono dei Valar o accontentarmi di un'isola in mezzo al Mare, in origine Aman la Beata? Qui sono più potente."

[117]           Diversamente che nei tempi precedenti. Cfr.  Racconti Incompiuti, cit., pp. 323-327, 332.

[118]            Garbowski, Recovery and Transcendence, cit., p.   167

[119]           Following Gandalf, Brazos Press, Grand Rapids , 2003, p. 109.

[120]           Silmarillion, cit., p. 44

[121]            Letters, cit., n. 337 p. 418.

[122]            Cfr. il saggio di Testi nel presente volume.

[123]            Humphrey Carpenter, JRR Tolkien. A Biography, HarperCollins Publishers, London, 1977, pp. 239-243.

[124]            Letters, cit., n. 5 pp. 9-10.

[125]            Su questo punto cruciale della sua vita, Tolkien ha un orientamento sostanzialmente diverso dai tanti poeti della Grande Guerra, idealizzanti e nostalgici, che molto bene analizza Paul Fussell nel suo interessante e acuto libro  The Great War and Modern Memory (1975), Oxford University Press, , 2000.

[126]            Vedi quanto documenta Enrico Berti nel suo  Una metafisica problematica e dialettica, in Aa. Vv., Metafisica. Il mondo nascosto, Laterza, Bari, 1997, p. 45.

[127]            Letters, cit., n. 181 p. 236.

[128]            Fighting the Long Defeat: Philology in Tolkien's Life and Fiction, in Roots and Branches, cit., pp. 139-156.

[129]            Cfr. di Shippey:  Grimm, Grundtvig, Tolkien: Nationalisms and the Invention of Mythologies, in Roots and Branches, cit., pp. 80-96.

[130]            Shippey mi diceva che nel mondo anglosassone la Filologia Germanica è talmente decaduta che al giorno d'oggi non ci sono più giovani filologi in grado di redarre “edizioni critiche” dei testi medievali di quella famiglia di lingue. E il mio vecchio amico della Normale e discepolo di Gianfranco Contini –  p. Saverio Cannistrà o.c.d. - mi ha detto che lo stesso vale oggi in Italia e Francia per la Filologia Romanza!

[131]            Letters, cit., n. 181 p. 236: “gli Elfi rappresentano gli aspetti artistici, estetici e puramente scientifici della natura umana”.

[132]            Ibidem, n. 212, p. 285.

[133]            Così in un sondaggio del 2004 presso 250.000 lettori tedeschi: John D. Rateliff,“And All the Days of her Life are Forgotten”, cit., p. 89.

[134]            Letters, cit., n. 328 p. 412.

[135]            Gli Inklings, cit., pp. 165-166.

[136]            Goths and Huns , cit., pp. 115-136. Ora, appena pubblicato, abbiamo il più esplicito tentativo che Tolkien fece in questo senso: The Legend of Sigurd & Gudrùn (HarperCollins, London, 2009), in cui egli cerca di risolvere – con la sua arte – il Königsproblem  della Filologia Germanica.

[137]            La Via per la Terra di Mezzo, cit., pp. 379-392; leggiamo questo passo: “Su Fabbro di Wootton Major grava una pesante sensazione di sconfitta: Fabbro deve restituire la stella e non tornerà più a Feeria/.../Fabbro è un 'libro di un vecchio' scrive infatti Tolkien (Lettere, n. 299). Alf esiste, però, per inserire Fabbro in una storia più ampia: ci sono stati uomini prima di lui che hanno portato la stella dell'ispirazione prima di lui, in età successive ce ne saranno altri; in ogni caso quella stella, quell'ispirazione è solo un frammento di un mondo che si espande al di fuori della piccola radura di Wootton.”, p. 387. Per un'altra analisi di Fabbro, si veda il saggio di Lorenzo Gammarelli nel presente volume.

 

 

 

 

 

 

Franco Manni indice degli scritti

 

 

 

 

Maurilio Lovatti main list of online papers