Franco Manni

 

Norberto Bobbio e Benedetto Croce

 

Tratto da Benedetto Croce. Teoria e Orizzonti, a cura di Ivan Pozzoni, Limina Mentis, Milano 2010, pag. 229 - 279

 

 

 

1. Il mio incontro coi due filosofi

 

Nei miei ventennali rapporti con Bobbio[1] ha avuto una sua magna pars Benedetto Croce: ne parlavamo quando andavo in Via Sacchi, dicendo assieme “è stupefacente!” (la sua attività di filosofo, di erudito, di animatore culturale ed editoriale, la sua importanza nella storia politica italiana). Egli mi consigliò sia nei contenuti sia nella tattica editoriale quando vagheggiavo un mio non mai realizzato libro su Croce, e soprattutto si meravigliava e compiaceva che uno come me nato nel 1959[2] fosse di Croce devoto ammiratore e appassionato studioso. E fu Bobbio – essendo io un giovane – il primo “professore” e “intellettuale” che incontrai personalmente ad essere grande conoscitore dell'opera crociana e ammiratore della personalità intellettuale e morale di Croce.

Io al liceo-ginnasio avevo avuto tre diversi insegnanti di filosofia nei tre anni del corso e nessuno mi aveva parlato di Croce, però avevo dalla casa di mio nonno materno alcune vecchie edizioni laterziane tra cui una Estetica e me la portai nella “tre giorni” che feci 18enne a Terni per la visita di leva. Fu un colpo di fulmine: la sistematicità, la chiarezza espositiva, la bellezza della lingua e le persuasività delle tesi teoriche, quasi sempre accompagnate da esempi tratti sia dalla vita sia da una vasta e variegata cultura, mi conquistarono; non avevo mai letto nulla del genere nei manuali liceali e nelle pagine antologiche dei filosofi che mi erano state proposte, né nei libri di filosofia e scienze umane che sporadicamente durante l'adolescenza compravo da me, seguendo ciò che si sentiva in giro (allora – seconda metà degli Anni Settanta - andavano di moda gli strutturalisti, e mi ero comprato – in edicola! - Tristi tropici e Antropologia strutturale di Claude Levi Strauss).

Quando frequentai per un anno filosofia presso la università cattolica di Milano andavo sempre alle lezioni (erano gli ultimissimi anni, da professore emerito) di Sofia Vanni Rovighi, una vera maestra, insuperabile sistematica, aliena da ogni latinorum, grande conoscitrice della scolastica e della neoscolastica e impregnata di quel “metodo storico” in filosofia che solo qualche anno dopo capii essere – in Italia – diretto retaggio del magistero crociano. Però lei risentiva molto del contesto apologetico delle scuole cattoliche primonovecentesche e, quando citava Croce, lo faceva in pars destruens. Se non altro non lo aveva dimenticato.

Quando l'anno dopo entrai alla Scuola Normale di Pisa, lì c'erano Nicola Badaloni, Remo Bodei, Gianfranco Contini, Furio Diaz, Giovanni Nencioni e soprattutto Eugenio Garin. Nessuno di loro ci parlava di Croce. E Garin  - che solo poi,  leggendolo nei suoi libri, vidi grande conoscitore di Croce perlomeno nel suo aspetto di organizzatore della cultura (non in quello teoretico) – piuttosto polemizzava indirettamente con la “filosofia delle quattro parole”  come del resto faceva contro ogni filosofia che volesse esser  “teoria” e non – come egli sosteneva – filologia testuale e cronaca culturale.[3] Lì a Pisa – era il 1979 - il marxismo già non era più “fashionable”, mentre gli argomenti valutati erano Nietzsche e i Presocratici di Giorgio Colli (morto da poco) e di Severino (che proprio allora stava, lui, diventando “fashionable”)  e Chomsky con la sua grammatica “generativistico-trasformazionale” e il Wittgenstein di Aldo Gargani  (meno lo era il Popper di Marcello Pera).

Quando dovetti scegliere l'argomento per il “colloquio” (l'esposizione di una ricerca personale annuale) ai professori interni della Normale il secondo anno (il primo avevo scelto il libro delta della Metafisica di Aristotele), mi immersi nell'opera di Croce e nella cultura italiana del primo Novecento e presentai a loro tali ricerche[4], ma li  lasciai tutti indifferenti o comunque silenziosi. A pensarci oggi, dopo tanti anni, interpreterei tale  silenzio come dovuto più ad una qualche forma di ostilità che alla indifferenza.

Ecco, tutto cambiò molto quando, decidendo di fare una tesi di laurea su Piero Gobetti[5] e avendo scelto come relatore e correlatore due professori del dipartimento di Storia dell'università – Franco Sbarberi e Claudio Pavone[6] - vidi tutta un'altra aria[7]. Entrato in contatto col Centro Studi Piero Gobetti di Torino per le mie ricerche, conobbi la direttrice Carla Gobetti e il presidente Norberto Bobbio, con entrambi i quali i rapporti sono durati per molti anni. Lì a Torino il ricordo di Croce era stato – almeno nel passato -  molto più di casa che nella gentiliana Pisa: per l'ammirazione che Piero Gobetti aveva per lui, perchè Croce veniva spesso lì di persona, per l'amicizia che aveva avuto con Ada Gobetti, e – ora - per la presenza di un intellettuale come Bobbio, alieno dalle mode culturali, e che venerava la memoria storica in generale e quella dei “maestri e compagni” in particolare.[8]

Se la Vanni Rovighi amava la filosofia ma non amava Croce, e se Garin non amava né la filosofia né Croce, con Bobbio incontrai di persona qualcuno che amava sia Croce sia la filosofia[9].

 

2.L'incontro di Bobbio con Croce

“Croce era la voce del tempo:

stare dalla parte di Croce voleva dire essere nella corrente della storia.

L'adesione a Croce dava sicurezza, infondeva fiducia, apriva nuovi orizzonti di ricerca”

Norberto Bobbio, 1964

 

Nel 1978 Bobbio scrisse un articolo in cui celebrò “il suo piccolo anniversario crociano”, il primo incontro intellettuale con gli scritti di Croce; Leone Ginzburg nel 1927 gli aveva regalato i Nuovi saggi di estetica, nel 1928 da sé comprò la Storia d'Italia:

poi via via, le altre opere, tutte o quasi tutte. In questi cinquant'anni non ho mai smesso di leggere e rileggere. In questo senso ho ragione, credo, di parlare di un mio personale anniversario. Leggo e rileggo Croce nelle occasioni più diverse. Per esempio per trarne un'ispirazione: alcuni anni or sono dovendo scrivere un'introduzione ai saggi di un filosofo della mia generazione ucciso dai tedeschi, rilessi le bellissime pagine dedicate da Croce ai Poerio, “una famiglia di patrioti”. Due anni fa ripresi la monografia di Vico per un corso di lezioni e riprovai nella rilettura il senso della sorpresa e l'eccitazione intellettuale che avevo provato la prima volta. Recentemente, essendomi lasciato impegolare in una polemica su ottimismo e pessimismo, ho chiesto soccorso a una pagina dei Frammenti di etica. Una lezione durata cinquant'anni. Croce maestro, dunque.[10]

Una volta negli Anni Trenta, quando aveva poco più o poco meno di vent'anni, Bobbio incontrò Croce di persona  a villa Germano a Sordevolo, e – intimidito – non ci scambiò una parola.[11] Un'altra volta invece a Torino, sempre in quegli anni: “non ho mai dimenticato il breve tratto di strada compiuto al suo fianco uscendo dalla Biblioteca Nazionale”. Croce gli chiese di quali studi si occupasse e Bobbio rispose di Husserl, ma Croce non sembrò interessato[12].

“Non aveva mai dimenticato” perchè in quel momento si trovava  a parlare, di persona, col suo Mito:

appartengo a una generazione che fu, almeno all'Università di Torino, naturaliter crociana. Eravamo crociani (dico con intenzione crociani, non idealisti) con la stessa sicurezza e con la stessa ingenuità con cui la generazione dei nostri padri era stata positivista. Quali fossero le molteplici componenti di questo nostro crocianesimo, riesco a veder chiaro soltanto ora, dopo tanti anni. /../ distinguerei una componente generale, ovvero un crocianesimo come atteggiamento di vita, e una componente specifica, ovvero un crocianesimo inteso come metodologia della ricerca cui ciascuno si era, per proprio conto, quasi sempre in conflitto coi propri professori, avviato.[13]

Torino era allora la città più “crociana” d'Italia, a parte Napoli.[14] E Bobbio ce lo ha raccontato in concreto, in quel suo trittico sui “maestri e compagni, “l'Italia civile, e “l'Italia fedele”[15]: in questi precisi e coinvolgenti ritratti di intellettuali e militanti politici della prima metà del XX secolo, che per un verso o per l'altro sono stati ammirati maestri o amici suoi, quasi sempre vi sono riferimenti diretti o almeno confronti ideali con Benedetto Croce. Per esempio nel commosso ritratto di Leone Ginzburg:

                  L'iniziazione a Croce offriva un criterio indiscutibile per distinguere/.../ gli illuminati dai brancolanti nelle tenebre, gli spiriti moderni dai sorpassati, i liberati dai vari sonni dogmatici, da coloro che erano ancora avviluppati nelle ragnatele del conformismo religioso, del positivismo, dello scientismo, del filologismo e via dicendo. Più che una dottrina /.../ il crocianesimo era un metodo, nel senso pregnante della via regia della vera conoscenza/.../ L'autorità di Croce era indiscussa: armati dei suoi concetti ci sentivamo superiori ai nostri stessi maestri, che non li avevano accolti o li avevano sdegnosamente rifiutati[16]  

In molti altri scritti di Bobbio molte volte compaiono ammirati riferimenti a Croce in maniera sparsa, e diverse volte, invece, in maniera tematica come in Politica e cultura, Profilo ideologico del Novecento, Italia civile. Bobbio fu grato a Croce per molti motivi, tra i quali la tutela dalla “rozzezza e superficialità del positivismo naturalistico” e dallo “irrazionalismo proprio della filosofia esistenzialistica”, come scrisse nel necrologio:

Tra l'uno e l'altro estremo, il pensiero di Croce è stato un modello di saggezza, di equilibrio mentale e morale, di invincibile coerenza, che non vuol dire staticità; filosofia del mondo e per il mondo ma senza compiacimenti o debolezze mondane, anzi ispirata a severità, a un senso che ben si potrebbe dire religioso della vita, e per questo formatrice ed educatrice, suscitatrice di alte vocazioni intellettuali, ispiratrice di virtù morali e civili[17].

Specificamente come filosofo Croce è stato da Bobbio “invidiosamente ammirato”.[18]Ma vediamo un aspetto (non certo il più rilevante)  di tale “invidia” anche nell'ammirazione per la prolificità letteraria di Croce; recensendo  il lavoro di Fausto Nicolini sulla bibliografia crociana, scriveva:

come bandita di caccia per un bibliografo, l'opera di Croce è, anzitutto, sterminata. Croce ebbe la rara ventura di essere (proprio come Thomas Mann) precoce e longevo: il suo primo scritto pubblicato è un'edizione delle Stanze del Poliziano, uscita in Napoli nel 1883 (aveva allora 17 anni); gli ultimi scritti appartengono allo stesso anno della morte, avvenuta all'età di 86 anni (1952): tra l'uno gli altri corrono nientemeno che settant'anni! Oltre che eccezionalmente lunga nel tempo, la sua attività di scrittore fu incessante per severa dedizione al lavoro/.../ e fecondissima per prodigiosa rapidità di concezione e di esecuzione/.../ Quando sarà uscita “tra non molto” la bibliografia “minutissima” dei suoi scritti, redatta dall'istituto italiano per gli studi storici, speriamo di potere seguire anche anno per anno il lavoro compiuto dal Croce: prevedo che ci sarà di esser sbalorditi[19]

 Queste righe di Bobbio sono del 1960... c'è un tot di paradosso nel leggere un suo scritto del 1983 in cui recensisce la bibliografia dei propri scritti[20] e rimane “sgomento” a veder le più di mille schede redatte dal bibliografo. E, da allora, Bobbio avrebbe vissuto ancora più di 20 anni! E se il primo suo scritto pubblicato era stato nel 1934, l'ultimo sarà nel 2003: anche qui settant'anni di attività pubblicistica! E anche qui una dedizione al lavoro fuori dal comune, ma, osserviamo, comune tra lui – senatore a vita della Repubblica – e Benedetto Croce, senatore a vita del Regno. Tra lui, “sentinella d'Israele”[21] nella cultura e nella società italiane della Seconda metà del XX secolo, e Benedetto Croce, “papa laico”[22] della cultura e della società italiane della Prima metà dello stesso secolo.

Ma i due, se pure avevano avuto alcuni maestri intellettuali comuni come Kant e Marx, li avevano avuti però soprattutto diversi: Croce aveva Vico, Hegel, Herbart, De Sanctis, Ranke, Labriola, Mach, Avenarius; Bobbio aveva Hobbes, Locke, Cattaneo, Weber, Salvemini, Einaudi, Kelsen, Pareto. Si erano in larga misura occupati di discipline diverse: Croce dell'estetica e della critica d'arte, Bobbio della filosofia del diritto e della scienza politica. Croce fu un filosofo sistematico (alla maniera hegeliana), Bobbio no (alla maniera cattaneana). E i  due  - 43 anni di età li separavano - hanno dovuto affrontare problemi intellettuali e politici di natura assai diversa nelle diverse condizioni della società italiana in cui hanno vissuto.

Eppure, come compare nel migliore tra i tanti ritratti di Croce che Bobbio ci ha lasciato[23](e il migliore in assoluto - secondo me  - tra le miriadi di scritti degli studiosi crociani), il più giovane aveva per il più vecchio una sconfinata ammirazione. Pur se dissentendo da tante singole dottrine e da tante interpretazioni storiografiche, due aspetti erano termine fermo di identificazione: la “figura del Filosofo”, cioè il modello di come bisognasse nel XX secolo vivere e comunicare la mentalità e il ruolo di chi si occupa di filosofia; e l'insuperato magistero morale e culturale antifascista rivolto a due generazioni di italiani durante gli anni di ecclesia pressa del ventennio. Vedremo specificamente invece più sotto, in un paragrafo apposito,  l'incontro di Bobbio con alcune idee filosofiche di Croce.

 

3. Le sensibilità

“Croce aveva cura di ripetere che la buona filosofia non nasceva dalla lettura degli altri libri di filosofia,

ma dall'esercizio appassionato e severo di una qualsiasi attività spirituale”

Norberto Bobbio, 1962

Bobbio ha osservato:

che l'immagine di un Croce chiuso in sé stesso e nel suo lavoro sia falsa, è stato detto più volte. Molte sono le testimonianze della sua socievolezza, della profondità dei suoi affetti, della generosità verso gli amici, della benevolenza verso i giovani che si rivolgevano a lui per avere una guida[24]

Non bisogna confondere piani diversi e diverse gerarchie nella vita:

Croce non adduce mai scuse o pretesti, e potrebbe farlo, rispettoso com'è della regola che non bisogna perdersi in faccende che distolgano dal proprio lavoro (leggere, scrivere, studiare è sopra ogni altra cosa il suo dovere principale) per non accogliere le richieste di Ada; anzi dà ad esse non appena gli è possibile, e quasi sempre gli è possibile, rapida esecuzione[25]

Questo stesso comportamento io ho potuto sperimentare nei miei rapporti con Bobbio: rispondeva subito al telefono e alle lettere, a me, Signor Nessuno sulla scena pubblica, ma “suo amico”, pur essendo egli, come Croce, occupatissimo nel lavoro e avendo per esso la stessa dedizione.

Un motivo che aveva avvicinato Croce ad Ada Gobetti era la conoscenza della sua sofferenza dopo la morte del marito Piero, come ricorda Bobbio:

“quando la vedemmo la prima volta – le disse Croce dopo tanti anni – mi sembrava una bestia ferita che si rintanasse per non farsi veder dai suoi simili. Poi la vedemmo, poco per volta, distendersi e rifiorire: fu una gioia per tutti”.[26]

E, mutatis mutandis, io ricordo con chiarezza che nel mio primo incontro con Bobbio egli nel vedermi – e nel soppesarmi con la sua sensibilità umana - avrebbe potuto usare la stessa espressione (“bestia ferita”). Sia perchè lo ero in effetti, sia perchè per tanti anni egli all'incontrarmi mi chiedeva come prima cosa come stavo, se ero triste o no, se avevo amici e non ero più solo, se alcune mie  difficoltà pratiche e lavorative fossero ancora pendenti o superate.

Ma Bobbio riporta anche un altro aspetto della affettività crociana:

Croce risponde ad Ada: “La Sua lettera, può ben pensare, mi è stata di molto conforto, perchè io sono legato agli antichi affetti e da questi attingo quanto di dolce ha la vita e la forza per sostenere tutt'altro.”[27]

Cioè l'amicizia è uno scambio e un  nutrimento reciproco (anche se – come già notava Aristotele nel suo trattato sull'amicizia – non si scambiano le stesse cose), e il “dolce” in essa aiuta a sostenere la propria missione nel lavoro.

Bobbio, dal canto suo, ammirava intensamente l'idea e la pratica dell'amicizia:

Leone Ginzburg aveva il culto dell'amicizia. La sanità della sua natura si mostrava anche nel fatto che il rigore non era fine a sé stesso, non aveva niente a che vedere con la pedanteria moralistica, con la puntigliosa osservanza dei doveri personali, ma era volto al perfezionamento di sé stessi solo come via al miglioramento dei rapporti con gli altri. L'abituale scrupolosità […] poteva far credere che seguisse un'etica della perfezione; ma a contatto con gli altri, soprattutto nella cerchia degli amici, si capiva che egli aveva in mente un ideale più vasto[...] un'etica della comunione. Amava la conversazione, la compagnia, il mondo […] le cose di cui era più curioso erano proprio gli uomini vivi, con le loro virtù, visi, stranezze […] con gli amici era affabilissimo [...] quando c'incontravamo, o andavamo a trovarlo a casa, gli si apriva il cuore. Un amico era sempre il benvenuto, l'ospite inviato dagli dèi […] Quante ore della nostra vita – ore che hanno contato nel nostro destino, ore incancellabili nella memoria, intense, pieni di propositi futuri e di affetti presenti, godute minuto per minuto – abbiamo trascorso [...] lunghi colloqui che facevano e disfacevano il mondo, mettevano in scompiglio credenze, opinioni ricevute, pregiudizi, rovistavano i recessi più nascosti dell'anima, li mettevano a nudo, li rivoltavano sino a che non si vedesse il fondo [...] Leone mi aiutò, mi porse la mano quando ero titubante, mi incoraggiò quando ero sfiduciato; soprattutto mi diede il conforto di un'indomita forza accompagnata da un'accattivante dolcezza […] mi mise in pace con me stesso, con gli altri, con le cose che non comprendevo [...] agli amici diede tutto sé stesso, ma era, d'altra parte, esigentissimo. Guai a non farsi vivi con lui per qualche tempo, a non telefonargli [...] l'amicizia era un fuoco sacro, che doveva esser alimentato giorno per giorno perchè non si spegnesse. Soprattutto rappresentava, come l'amore, forse più che l'amore, l'esempio di un rapporto umano disinteressato, da cui esula ogni motivo egoistico ed è dominato soltanto dal desiderio di stare insieme con nessun altro scopo che quello di godere del reciproco beneficio derivante dallo scambio dei doni dell'intelligenza e  del cuore [...] la virtù per eccellenza che Leone metteva in pratica esigendone l'osservanza, e contrassegnò i rapporti di amicizia con lui, fu la sincerità […] delle lezioni che traemmo in quegli anni quella della sincerità assoluta, come fondamento della vita morale, fu, per me. La più costruttiva […] due articoli fondamentali: 1) gli amici non debbono avere segreti fra loro; 2) ciascuno, per non avere segreti di fronte agli altri, non deve avere segreti di fronte a sé stesso [...] la prima regola esigeva l'esercizio della franchezza; la seconda della chiarezza interiore. L'osservanza di entrambe implicava una guerra aperta a ogni forma di simulazione e dissimulazione, una caccia senza tregua all'ipocrisia (verso gli altri), ai comodi pretesti (verso sé stessi) [...] mi accorsi a poco a poco che mi accadeva di vergognarmi dinanzi a Leone di azioni di cui non mi ero mai vergognato di fronte a me stesso [...] che cosa avrebbe detto Leone? Che cosa avrebbe fatto Leone?[28]

Queste intense pagine mi ricordano sopratutto un episodio, accaduto prima che le leggessi: stavo vivendo un momento di una dolorosa crisi sentimentale e personale, erano le vacanze di Natale del 1997, il mio carissimo dottor De Masi (il mio psicanalista) era anche lui in vacanza... io ero e mi sentivo solo... e mi venne l'idea e il desiderio di andare da Bobbio, a dire del mio dolore e a confidargli per la prima volta delicati aspetti della mia vita privata... mi disse di andare da lui subito: un lungo pomeriggio invernale in Via Sacchi, io in una poltrona troppo bassa e lui su una sedia più alta chinato su di me come per udire meglio .. 3-4 ore e la penombra nella grande stanza presto diventò buio ma noi non dovevamo muoverci o guardare o  leggere qualcosa ma solo parlare... Valeria, sua moglie, discreta e sensibile, non passò, neanche per accendere la luce... Un mese dopo ricevetti una sua lettera[29]:

come stai? Non ho più avuto tue notizie. Penso spesso a te e alle tue vicende. Ieri ho avuto una visita di uno studioso grande ammiratore di Croce, Croce che tu hai sempre considerato un maestro, a quello che ti avrebbe detto se tu l'avessi incontrato. Ho capito che io non sono riuscito a darti il minimo aiuto. Eppure continuo ad avere fiducia nella tua serietà nell'affrontare le difficoltà della vita, di cui mi hai dato tanta prova, nella tua probità, nella tua amicizia e nel valore che dai all'amicizia. Considera queste poche righe come nient'altro che una prova di amicizia.

La felicità, se si può avere, Bobbio la attribuiva all'amicizia, come mi scriveva in un'altra lettera[30]:

io non ho mai avuto alcuna disposizione alla felicità, malgrado i beni del corpo e i beni dell'anima che tu mi attribuisci. In realtà ho sempre avuto un corpo pieno di difetti, che mi hanno fatto soffrire, tanto da meravigliarmi di esser arrivato a questa età, malconcio ma non ancora del tutto decrepito. Non parlo di beni dell'anima, perchè sono sempre stato e continuo a esser insoddisfatto di me. La felicità l'ho trovata nell'amicizia, soprattutto nell'amore di mia moglie, non in me ma fuori di me.

Simile a Croce egli fu anche per altri aspetti : per esempio l'umiltà e il distacco con cui considerava i molti onori ricevuti (ricordo l'autoironia quando fu fatto senatore a vita[31]). E anche per il  il propendere più verso i momenti “depressivi” che verso quelli “maniacali”: ricordava le pagine di Croce dai Taccuini durante la Seconda guerra in cui il filosofo annotava l'umore nero e accidioso di alcuni giorni (e notti)[32]; questo perchè:

“l'unico modo per non soffrire – Croce scrive – sarebbe imbecillirsi col mondo che si è rimbecillito”.[33]

e di sé Bobbio diceva di avere una parte di carattere pessimista: sfiducia nel mondo, timore del prossimo, perplessità di fronte alla  vita[34], e che la visione del mondo crociana lo aiutò a resistere al più radicale pessimismo propagandato dall'esistenzialismo, il pessimismo della volontà.[35] Simile anche nello stile intellettuale: il “problema supremo” della filosofia non esiste, ogni buono studio deve essere circoscritto, come riconosce nel – qui più volte citato -  splendido ritratto di Croce in Italia civile[36]; e simile l'apprezzamento più delle distinzioni analitiche che delle sintesi:

Chi come me pregia l'attuale filosofia analitica/.../ trova conforto in tanta parte dell'opera di Croce, che non si stancò mai di predicare, anche nel filosofo, la virtù dell'acume e del discernimento, che è poi la virtù del saper distinguere/.../non mi si opponga uno dei soliti giochetti che non c'è analisi senza sintesi, né sintesi senza analisi. Anche Croce lo sapeva e lo andava ripetendo. Eppure vi sono filosofi che sono convinti di avere fatto una scoperta quando hanno trovato una nuova distinzione; altri, al contrario che credono di passar alla storia per esser riusciti a ridurre una distinzione ad unità. Croce apparteneva senza dubbio alla schiera dei primi[37]

In parte simili ma in parte diversi furono nella loro sensibilità al problema religioso:

A un'etica dell'inquietudine, della insecuritas, dall'angoscia di fronte all'inafferrabile, l'insegnamento crociano contrapponeva una morale di virile distacco dal possesso delle cose troppo grandi e di coraggiosa risolutezza nelle cose piccole (che erano poi quelle che contavano)/../ Croce aveva parlato una volta di “serenità dolorosa”, paragonandola vita a una “tragedia, nella quale, attraverso l'onta e il dolore,si crea faticosamente il bene e il vero”. Era un'etica che proponeva come idea di felicità non la compiuta beatitudine di un paradiso celeste o terrestre, ma più semplicemente la tranquillità della coscienza, la pace con sé stessi, la soddisfazione di avere compiuto il proprio dovere superando con dignità, con umiltà tutte le prove.[38]

E Bobbio, dal canto suo, si riconobbe nel Croce del Contributo alla critica di me stesso: a un certo punto si ritrovò fuori dalla religione tradizionale[39], senza drammi, quasi senza accorgersene; e moltiplicò le critiche a certi aspetti sia della chiesa sia della dottrina cattolica[40]. Però, diversamente da Croce, non trovava nella filosofia un sostituto della religione tradizionale:

nell'arrestarmi di fronte al mistero consiste per me il senso religioso della vita. Per me il mistero è un residuo ineliminabile, il limite della nostra ragione. Per Croce il mistero è stato un'ombra destinata ad esser di volta in volta fugata. Leggiamo: “il mistero, logicamente inteso, non è impenetrabile e insolubile al pensiero, ma anzi il penetrabile e il dissolubile per definizione, il continuamente penetrato e risolto”.[41]

Diversi i due invece riguardo “l'elogio della mitezza”, come mi scriveva una volta Bobbio:

Io, ammiratore di Croce, come sai, l'unico aspetto della sua opera che non ho mai potuto soffrire, è la crudezza, la tendenziosità, la umoralità delle sue stroncature. Io ho partecipato a molti dibattiti filosofici e politici, ho avuto molti avversari, ma ho sempre cercato di mantenere uno stile pacato, discutendo il pro e il contro con argomenti storici e razionali, ma non con attacchi personali. Ho fatto l'elogio della mitezza, che a Croce non sarebbe piaciuto.[42]

E una volta mi rimproverò:

non conosco il sentimento dell'odio e non riesco bene a capire che cosa senti quando dici di odiare questo e quello. Nei riguardi di Hitler, Mussolini e gente simile, ed oggi nei riguardi di Berlusconi e dei nuovi fascisti, ho provato se mai, indignazione, non odio. Non maledico, cerco di capire/.../ tanto più mi sembrano strani questi tuoi sentimenti, quanto più tu affermi di esser un uomo di fede. Uno dei precetti fondamentali di Gesù, anzi il precetto che contraddistingue la morale cristiana è quello di amare il proprio nemico. A me fede e ragione non solo non sembrano la stessa cosa, ma mi sembrano l'una il contrario dell'altra: credo quia absurdum.[43]

 

4. La tradizione liberale italiana in Croce e Bobbio

Dopo la fine dell'età giolittiana gli Italiani tra fascismo, socialcomunismo e berlusconismo hanno mostrato, per un intero “secolo lungo”, assai scarse simpatie per il liberalismo. È vero che in che per i quasi sessant'anni di “prima repubblica” nei fatti le istituzioni liberali hanno prevalso, ma questo per il mero fatto che la Seconda guerra mondiale fu vinta per iniziativa delle potenze liberali anglosassoni e che l'Italia si trovava – nella spartizione geopolitica del dopoguerra, da lei non decisa – nella parte “occidentale”. Ma la cultura e i costumi, anche in quel periodo, non furono – almeno nella loro prevalenza -  liberali, né nella coscienza popolare né in quella degli “intellettuali”. Democratici, comunisti, socialisti, cattolico-sociali, sessantottini e neomarxisti, neofascisti, populisti, qualunquisti sì, ma non liberali.

Benedetto Croce nella prima metà e Norberto Bobbio nella seconda di tale “secolo lungo” furono di gran lunga gli intellettuali più puramente, coerentemente, fedelmente, appassionatamente, efficacemente dediti allo studio, alla interpretazione e alla predicazione degli ideali liberali.

Poiché già sin dalla morte di Croce cominciò e si rafforzò sempre più la propaganda di un “Anticroce” di varia origine (marxista, cattolica, neopositivista, neofascista)[44], tutto faceva brodo: anche interpretare il capitolo su Croce e il liberalismo presente nel suo Politica e cultura del 1955 come una sconfessione del liberalismo di Croce[45], mentre Bobbio, proprio in quel testo e  ad litteram:

[ Croce fu]La coscienza morale dell’antifascismo italiano/.../ Si legga nel Soliloquio di un vecchio filosofo, che è del 1942, la trepidazione per la libertà del passato e la speranza del rinnovamento : né pessimismo inerte né troppo candido ottimismo. Ispirandosi a questa idea dominante prese posizione di volta in volta contro le contaminazioni che di questa idea con concetti empirici e pratici facevano i non filosofi, i professori pedanti, i pseudopolitici, i politicanti. La sua difesa del liberalismo continuata instancabilmente fino agli ultimi anni, fu la difesa dell’ideale della libertà che si identifica con la coscienza morale. E fu condotta soprattutto in tre direzioni : contro il marxismo, contro la democrazia, contro il liberismo./.../ Dico subito che, nonostante i molti dubbi che ritengo di dover sollevare sulla teoria del liberalismo di Benedetto Croce, non ho affatto l’intenzione di sminuire la funzione liberale che il suo pensiero e la sua personalità ebbero negli anni del predominio fascista. C’è qualcuno che per odio al liberalismo o per odio a Croce vorrebbe disconoscere i meriti e il valore pratico della posizione antifascista dell’autore della Storia d’Europa. Chiunque abbia partecipato alle ansie e alle speranze di quegli anni, parlo s’intende di intellettuali, non può dimenticare che la strada maestra per convertire all’antifascismo gli incerti era di far leggere e discutere i libri di Croce, che la maggior parte dei giovani intellettuali arrivavano all’antifascismo attraverso Croce, e coloro che già vi erano arrivati o vi erano sempre stati, traevano conforto dal sapere che Croce, il rappresentante più alto e più illustre della cultura italiana, non si era piegato alla dittatura. Ogni critica all’atteggiamento di Croce durante il fascismo è astiosa e malevola polemica. Come tale non merita discussione.[46]

Invece furono tanti e sopratutto prolungati (fino ad oggi!) gli interventi di “storici” , “politologi” e “filosofi” a dire che Bobbio negava a  Croce un posto nella tradizione del pensiero liberale, tanto da far scrivere molti anni dopo allo stesso Bobbio

faccio volentieri ammenda se ho dato l'impressione di estromettere Croce dalla storia del pensiero liberale[47]

Infatti per Bobbio:

la persistenza e la vitalità della cultura che ho chiamata liberale per distinguerla da quella marxistica e da quella cattolica negli anni del regime sono da collegare anche all'insegnamento di Croce che mai come in quegli anni si era alzato tanto in alto ed era penetrato tanto a fondo negli animi/.../ L'iniziazione a Croce era pure, per lo meno per i giovani intellettuali non comunisti che sarebbero poi confluiti nel movimenti di “Giustizia e Libertà” e del liberalsocialismo e avrebbero costituito i quadri del Partito d'Azione, la via maestra dell'antifascismo.[48]

Influenza non solo sugli intellettuali non comunisti: la maggior parte degli studiosi del comunista Antonio Gramsci non hanno osservato, almeno nelle loro pubblicazioni, e forse molti neanche lo hanno notato tra sé e sé, che quello di Croce è il singolo nome proprio di persona più citato nei Quaderni dal carcere, più di quelli di Marx, Lenin, Engels, Hegel, Sorel, Einaudi ecc.[49]

Croce[50]  per lunghi decenni con forza persuasiva ha mostrato al pubblico in primis italiano (e in secundis europeo e mondiale) gli errori teorici e pratici del marxismo, del comunismo, del razzismo, del nazionalismo, del fascismo, del decadentismo, del positivismo, dell’integralismo cattolico. Verso la fine della sua vita – quando l’Italia era “spaccata in due” tra il Regno liberato dagli Alleati e la Repubblica di Salò nazifascista – ricoprì inoltre un diretto e centrale ruolo politico ;  per alcuni mesi fu il politico italiano più influente, più di De Gasperi, più di Togliatti, più di Badoglio,  più del Luogotenente del Regno, più del Re[51].

Ma Croce morì nel 1952, già inascoltato e presuntivamente superato da una massa via via crescente di “superatori”. Prima combattuto, poi semplicemente dimenticato. Paradossalmente i migliori studi crociani dell'ultimo ventennio sono (secondo me) quelli di uno statunitense non italoamericano: David D. Roberts[52] .

Però Croce ha avuto un erede, almeno nel campo degli studi di politica e di etica, e cioè Norberto Bobbio[53]. Bobbio ha scritto molti libri e moltissimi  articoli spesso per specialisti, ma il suo primo libro influente e di successo, rivolto a un pubblico colto ma non specialista, è stato proprio Politica e cultura del 1955: la data stessa del libro segna come una volontà di  riprendere il discorso dalle mani del filosofo napoletano oramai morto. Il contenuto, oltre a intitolare  esplicitamente a Croce due dei capitoli, riprende le tematiche crociane del liberalismo e del non asservimento della cultura alla politica dei partiti. E le riprende non dal penultimo momento, cioè da quello in cui  Croce polemizzava soprattutto contro il fascismo, ma dall’ultimo, cioè da quello in cui  Croce polemizzava soprattutto contro il comunismo. Questo libro di Bobbio è una splendida battaglia per il liberalismo contro i comunisti italiani che allora lo osteggiavano.

L’opporsi di Croce e Bobbio alle concezioni illiberali di tutti i tipi, smascherandole in tutte le loro forme magari pseudosottili e pseudomorali, e la loro insensibilità alle mode intellettuali, ai venti politici, alle “forze del Destino” e alle “urgenze ineluttabili della Storia” li portò ad opporsi sia al marxismo comunista sia all’ideologia fascista[54], e questo in un paese come l’Italia in cui un tipico atteggiamento di non pochi intellettuali lungo il XX secolo fu quello di oscillare tra gli opposti estremismi, rimanendo illiberali sempre. Fu così che entrambi i filosofi si trovarono per anni attaccati sia da questo tipo di sinistra sia da questo tipo di destra[55].

Entrambi erano venuti in contatto – in momenti diversi della storia – sia col marxismo teorico sia col multiforme movimento del socialismo politico, entrambi avevano criticato sia l’uno sia l’altro, però entrambi ne avevano colto sia gli aspetti buoni della teoria sia gli aspetti buoni della pratica politica. Croce rimproverava a Einaudi di non vedere che il liberalismo poteva benissimo accordarsi con una politica economica di tipo socialista, e, quando si trovò presidente del Partito Liberale Italiano, dopo un incontro col socialista Giuseppe Saragat scrisse :

[Saragat e i suoi] vogliono serbare al socialismo il suo carattere e la sua storia, che è essenzialmente liberale/.../ L’alleanza o certe intese sono possibili coi socialisti, dei quali accettiamo molti concetti di riforme e siamo pronti a discutere e a lasciarci persuadere intorno ad altri[56]

Bobbio, già seguace del Partito d’Azione, ha, lungo i decenni, studiato e sostenuto l’idea liberalsocialista. Se guardiamo ai classici del pensiero liberale, Croce e Bobbio, più che al liberalismo di Locke e Tocqueville, erano affini a quello di Mill, Keynes e Popper[57], cioè erano favorevoli all’intervento dello Stato nell’economia, anche  per migliorare le condizioni delle classi sociali più disagiate.

L’opinione dei due filosofi sulla democrazia – invece - è stata in parte diversa : Croce aveva verso di essa molta più diffidenza, Bobbio invece assai più fiducia. Ma era stata anche in parte comune: entrambi vedevano un errore teorico - gravido di negative conseguenze pratiche – nel cosiddetto  “egualitarismo”. Croce scriveva nella Storia d’Europa :

il liberalismo aveva compiuto il suo distacco dal democraticismo, che, nella sua forma estrema di giacobinismo, perseguendo a furia e ciecamente le sue astrazioni, non solo aveva distrutto vivi e fisiologici tessuti del corpo sociale, ma, scambiando il popolo con una parte e con una manifestazione, la meno civile, del popolo, con la inorganica folla schiamazzante e impulsiva, ed esercitando la tirannia in nome del Popolo, era trascorso nell’opposto del suo assunto, e, in luogo della eguaglianza e della libertà, aveva aperto la via all’eguale servitù e alla dittatura[58]

E Bobbio, in una delle sue ultime interviste, diceva :

L’egualitarismo è una concezione filosofica che porta al mondo delle api, allo svuotamento dell’individualità, come appare nei classici utopisti egalitaristi Bacone, Campanella e altri. Questo livello e questa spersonalizzazione sono poi il terreno adatto per la nascita del totalitarismo politico./.../ Bisogna distinguere l’egualitarismo dall’eguagliamento. L’egualitarismo è una concezione filosofica organicistica ed è anche un tentativo portato avanti negli Stati dove il comunismo ha raggiunto il potere, concezione e tentativo che non approvano l’indipendenza e le peculiarità dell’individuo all’interno della società./.../ la ricerca dell’eguaglianza, almeno dal comunismo arrivato al potere, è stata realizzata in maniera perversa, come livellamento coatto verso il basso /.../ L’eguagliamento è invece una tendenza e un movimento verso la riduzione delle differenze economiche esistenti tra gli individui e  i gruppi sociali[59]

Liberalsocialismo? Socialdemocrazia? Di certo, comunque, è qualcosa che, con apparente paradosso,  scontenta sia una certa sinistra sia una certa destra, come osservava Bobbio nel 1981:

In questi anni abbiamo letto non so quante pagine sempre più polemiche e sempre più documentate sulla crisi di questo stato capitalista mascherato, che è lo stato-benessere, sulla ipocrita integrazione cui ha condotto il movimento operaio nella grande macchina dello stato delle multinazionali. Ora stiamo leggendo altre pagine non meno dotte e documentate sulla crisi di questo stato socialista pur esso mascherato che col pretesto della giustizia sociale sta distruggendo la libertà individuale e riduce l’individuo a un infante guidato dalla culla alla tomba dalla mano di un tutore tanto sollecito quanto soffocante. Una situazione paradossale, quasi grottesca.[60]

Grottesca certo appariva tale situazione a Bobbio, il quale prima non aveva sostenuto quella critica “di sinistra” e dopo non aveva sostenuto quella critica “di destra”. Proprio come egli vedeva, prima che a sè stesso, essere accaduto a Croce : prima lungamente  attaccato e dileggiato dai fascisti e poi – dopo la caduta del fascismo – dai marxisti “meschinamente” o “ingenerosamente” contestato come “precursore del fascismo”, “reazionario”, “filofascista”.

La maggior parte dei capitoli che compongono il libro Politica a cultura sono stati scritti da Bobbio tra il 1951 e il 1954 : sono gli anni del maccartismo e assieme sono anche gli ultimi anni dello stalinismo ! Se questa era l’atmosfera per gli ideali del liberalismo all’interno delle due superpotenze vincitrici della seconda guerra mondiale – guerra fatta da esse contro Hitler nel nome della libertà – possiamo capire l’urgenza militante che allora aveva Bobbio nel polemizzare con quegli intellettuali e politici italiani che attaccavano il liberalismo. Costoro erano poi i comunisti, e in specifico i comunisti italiani così come essi erano prima della morte di Stalin e delle denunce fatte da Nikita Kruschev al XX congresso del partito comunista dell’Unione Sovietica.

Ritornando in seguito a quei primi Anni Cinquanta e ricordando che egli, pur nella netta e sostanziale critica alle loro idee, aveva però accettato il dialogo pubblico con loro, nel 1993 Bobbio scriveva :

la politica del dialogo aveva le sue buone ragioni nella situazione del nostro paese, dove si era venuto affermando il più forte partito comunista dell’occidente, che non poteva essere messo fuori legge, come era accaduto in altri paese, salvo a mettere il paese in uno stato di guerra civile permanente. /.../ Nonostante tutto quello che si è detto recentemente sulla guerra civile potenziale che avrebbe minato le basi della nostra repubblica, il dialogo non fu soltanto una tattica pacificatrice degli intellettuali mediatori. Il partito di maggioranza relativa definì ufficialmente la propria politica col partito comunista con la parola “confronto”. Dialogo e confronto hanno caratterizzato la storia ella nostra repubblica. Ma né il dialogo né il confronto furono mai ispirati all’idea di operare una sintesi filosofica tra i due “ismi”, liberalismo e comunismo, che sono filosoficamente incompatibili. Furono molto più semplicemente due strategie politiche per un compromesso pratico[61]

D’altra parte, mentre di fascismo e di nazismo ce n’è stato solo un esemplare, il comunismo ne ha avuti due : quello tirannico e genocida è stato in URSS, Cina, Cambogia,  ma non in Italia, Francia, Olanda, Spagna, Inghilterra, USA, Germania. E Bobbio – che certo non aveva dialogato con Stalin, Beria, Mao o Pol Pot -  riconosceva invece di avere avuto buoni rapporti personali con alcuni comunisti italiani :

Ho avuto polemiche coi comunisti, ma polemiche con persone con le quali era possibile dialogare. Con alcuni comunisti, poi, come Napolitano, Aldo Tortorella, Gian Carlo Pajetta e Pietro Ingrao ho avuto anche rapporti di stima reciproca e di amicizia vera e propria.[62] 

Proprio come era successo a Benedetto Croce, il quale non aveva mai partecipato a un governo fascista - anche se ne era stato richiesto - ma  andò ripetutamente al governo coi comunisti nel dopoguerra, e a una riunione del consiglio dei ministri ricordò pubblicamente a Togliatti la stima e il rimpianto per il comunista Gramsci, l’affetto per il comunista Giorgio Amendola e l’aiuto dato – in pieno fascismo -  a un capo comunista napoletano per pubblicare un libro di Antonio Labriola[63]. E il 30 aprile del 1945 Croce scriveva

Da Roma mi sono venute meraviglie e obiezioni per la nomina a direttore generale delle Belle Arti del Bianchi Bandinelli, comunista [intellettuale contro cui anni dopo polemizzò Norberto Bobbio, NdR] , da me caldeggiata presso il ministro Arangio Ruiz, che ha detto di avere il mio parere favorevole. Ma io ho riposto che se il partito comunista e altri partiti escludono dai posti di amministrazione uomini capaci e adatti perchè liberali, noi dobbiamo includerli, benché siano comunisti[64]

E - inoltre e infine - per Bobbio il comunismo aveva additato dei problemi reali e importanti:

il comunismo era una “utopia capovolta”, perchè era una utopia di liberazione che si era capovolta nel suo contrario, e cioè nella costrizione e nell’oppressione degli esseri umani/.../Il comunismo storico è fallito, non discuto. Ma i problemi restano, proprio quegli stessi problemi che l’utopia comunista aveva additato e ritenuto fossero risolvibili. Questa è la ragione per cui è da stolti rallegrarsi della sconfitta e fregandosi le mani dalla contentezza dire :”L’avevamo sempre detto!”. O illusi, credete proprio che la fine del comunismo storico (insisto sullo “storico”) abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia? /.../ affermo, ripetendomi, di non essere mai stato comunista, ma anche di non essere mai stato anticomunista, nel senso in cui l’anticomunismo è inteso oggidì. E dico che le lotte per una maggiore eguaglianza sociale contro le ingiustizie così drammatiche presenti nel mondo – lotte fatte non solo ma anche dai comunisti – sono sacrosante.[65]

 

 

5. La missione del dotto e la religione della libertà

“Croce fu un animatore, un risvegliatore e un educatore.

Ma non riposò mai in una soluzione raggiunta e non lasciò riposare i suoi ascoltatori.

E diede un esempio (inimitabile) di un'infaticabile operosità

sorretta da un costante spirito critico.

Norberto Bobbio, 1966

 

“Croce fu il nostro maestro di vita morale e politica.

Dobbiamo a lui se abbiamo salvato la nostra anima.”

Norberto Bobbio, 1998

 

Tra i tanti esempi passati e presenti, nella nostra società italiana, di intellettuali che aspirano a cariche o almeno ruoli politici, e di politici che - all'inverso - bramano di scrivere libri di varia sapienza,  Croce e Bobbio spiccano per essere in controtendenza: chi conosce Croce (quanti lo conoscono oggi in Italia?) sa ad abundantiam quanto egli rifuggisse dalla politica (sia come titolare di cariche politiche, sia come ideologo organico di partito): a chi non lo conosce consiglierei come sufficiente la lettura dei tanti ed eloquenti esempi registrati nei suoi Taccuini di guerra, quando (1943-1945) Croce era di fatto l'uomo politico più importante in Italia, ma – pur non mancando stoicamente ai suoi doveri – si sentiva oppresso da questa attività, e da essa cercava sollievo negli studi; era, in grande, ciò che aveva già provato quando era stato ministro nell'ultimo governo Giolitti: esperienze da terminare il prima che (le circostanze e il senso del Dovere facciano sì che) sia possibile. Per Bobbio, chi ha una certa età e ha osservato di persona la sua figura pubblica, sa che egli - che aveva cominciato i suoi scritti militanti con Politica e cultura, libro tutto dedicato alla critica delle confusioni tra politica e cultura appunto - per tutti i decenni precedenti e successivi aveva respinto sia l'appoggio “culturale” alle tendenze politiche dei vari tempi (che fossero fasciste, comuniste, sessantottine, craxiane o berlusconiane) sia aveva rifiutato tutte le cariche politiche a lui proposte, massima tra le quali la Presidenza della  Repubblica; comportamento esattamente contrario a quello di tanti altri “intellettuali” che abbracciarono il ruolo di “intellettuali organici” e accettarono (ricercarono) più che volentieri le più varie cariche, variando, non raramente, le fedeltà (invero poco fedeli)  tra tutte le tendenze sopraelencate;  e questo facendo in una successione temporale -  precisiamo – per nulla casuale, ma piuttosto assai coerente (in questo sì coerente) al “vento del potere”.

Debolezze pratiche? Senz'altro! Ma anche, almeno in parte, con lo zampino di confusioni teoriche, quelle perlomeno che nel marxismo, nel leninismo e, poniamo, nel gentilianesimo fascistico, esplicitamente dettavano il proclama  che “ora i filosofi non devono limitarsi a interpretare il mondo, ma devono cambiarlo”.

Per Bobbio, invece, la teoria vera sull'argomento è quella di Croce:

vi fu nel pensiero e nelle preoccupazioni di Croce un'idea costante: gli uomini di cultura (e nella specie i filosofi) hanno una responsabilità e una funzione politica, in quanto uomini di cultura (o in quanto filosofi) /.../essi non possono sottrarsi alle responsabilità politiche specifiche che derivano proprio dalla loro qualità di uomini di cultura, e dalla consapevolezza che alla cultura spetta una funzione di critica, di controllo, di vivificazione e creazione di valori, che è, a breve o a lunga scadenza, funzione politica, ed è doverosa ed efficace soprattutto in tempi di crisi e di rinnovamento /../ il problema della politica della cultura fu quello che egli sentì più profondamente, con tutta la sua coscienza di dotto che è dotto prima di esser uomo pratico o politico, ma che insieme ha un altissimo senso della responsabilità civile del dotto' quando non sia arido erudito, della funzione rischiaratrice della filosofia, quando non sia accademismo o verbalismo o virtuosismo delle idee astratte.[66]

L'uomo di cultura sente con tutto sé stesso il problema del bene comune e ad esso serve come un soldato, facendo quanto può al meglio il suo lavoro. Bobbio ricorda che Croce durante il fascismo:

non si è rassegnato a lasciare le publicae res, anche se ci sarebbe un modo per non soffrire: “imbecillirsi col mondo che si è imbecillito”. Si lamenta delle difficoltà imposte dalla censura ma, commenta, “viviamo in nobili tempi, in ambiente di eroismo”. Il 28 novembre 1938 (nella notte tra il 9 e il 10 si scatena la furia antiebraica in Germania, la “notte dei cristalli”) scrive: “io combatto con la tristezza che mi opprime, eppure insisto disperatamente nei miei studi”.[67]

Questa idea passò ad alcuni, per esempio a Piero Gobetti, che Bobbio ascrive a quella generazione crociana che, “travolta dalla crisi dello stato liberale, trovò in Croce il maestro di libertà”.

In uno dei suoi ultimi scritti, dopo aver definito Croce “il più perfetto tipo europeo della nostra cultura” che lotta per riscattare un futuro di civiltà dal presente di barbarie, conclude: “l'uomo di libri e di scienza cercherà dunque di tenere lontane le tenebre del nuovo medioevo continuando a lavorare come se fosse in un mondo civile”. In quel “come se” c'è il senso della catastrofe oramai inevitabile e nello stesso tempo la convinzione che il compito del filosofo è di tener accesa la lampada nell'oscurità che si va addensando. Sarà questo insegnamento di Croce, che Gobetti coglie ancora una volta con una precisione infallibile, per la generazione che si formerà tra il '30 e il '40 [...] leggendo le storie d'Italia e d'Europa, accettando come teoria, come regole d'azione e come previsione, l'idea che la storia è storia della libertà[68]

La situazione di ecclesia pressa del ventennio fascista e soprattutto degli Anni Trenta e del precipitare verso l'alleanza hitleriana e la terribile “guerra di religione” del nazifascismo alla conquista del mondo nelle anime e nei corpi dei suoi abitanti, fecero risorgere Croce a nuova vita, dopo una già lunga carriera di intellettuale,  e gli permisero di dare il meglio di sé (a me viene in mente il parallelo con Winston Churchill, che dopo una già lunga carriera politica doveva ancora vivere la sua “finest hour”). Bobbio osserva:

tra il 1925 e il 1940 infatti fiorì la seconda, e più ricca e rigogliosa, stagione del lungo magistero di Benedetto Croce, che fu coscienza morale dell'antifascismo italiano, non tanto come restauratore dell'idealismo (che era già morto lasciando il posto allo storicismo assoluto), quanto come filosofo della libertà.[69]

è quel “Croce oppositore” (per usare il titolo di uno degli ultimi profetici articoli di Piero Gobetti, ripreso da Bobbio nel suo Profilo ideologico del Novecento italiano) che scrive la Storia d'Italia, pronuncia al senato del regno  il discorso contro i Patti Lateranensi, scrive la Storia d'Europa e La storia come pensiero e come azione, e in mille scritti su “La critica” rintuzza le varie inserzioni culturali razziste, nazionaliste, totalitarie, irrazionaliste che il regime e i suoi volenterosi servi cercavano di iniettare nelle menti degli Italiani. Quel Croce che “salva le anime” di chi ascolta la sua proclamazione della Religione della Libertà[70]

Le cose – nella storia del mondo – andarono come si sa, e Bobbio, quando molti anni dopo recensì il libro di un autore che aveva scritto “io, da studente, non mi schierai né con Croce né con Gentile”, volle precisare:

io non potrei dire altrettanto/../ proprio attraverso l'insegnamento di Croce, non “puro filosofo” ma storico, letterato, moralista, avendo cominciato a capire meglio il nesso tra pensiero filosofico e realtà, mi resi conto che non era vero che il fascismo avesse ragione perchè era difeso da Gentile, ma, al contrario, che Gentile aveva torto perchè difendeva il fascismo /.../ Quale di due filosofi, il difensore dello stato etico o lo storico della religione della libertà abbia vinto, a me non par dubbio.[71]

Le battaglie pluridecennali di Bobbio contro il marxismo zdanovista, l'esistenzialismo decadente, la partitocrazia della Prima repubblica, il populismo autoritario berlusconiano non furono così drammatiche, certo. Pare però a me opportuno riportare quanto fu scritto da Luca Addante nel suo necrologio alla morte di Bobbio:

la cultura italiana perde, con la scomparsa di Norberto Bobbio, la sua voce maggiormente autorevole. Volendo identificare il più importante intellettuale italiano della prima metà del XX secolo, difficilmente potremmo negare questo ruolo a Benedetto Croce. Facendo analoga operazione rispetto alla seconda metà del secolo appena trascorso, altrettanto difficilmente riusciremmo a trovare una personalità di statura paragonabile a quella dell'intellettuale torinese /.../ Entrambi infatti furono innanzitutto “chierici che non hanno tradito” per usare le parole con le quali Bobbio stesso volle accomunare Croce ad altri intellettuali sui quali soffermo la sua attenzione nel bellissimo Italia civile. E di un'Italia civile distante anni luce dall'italietta (fascista e poi repubblicana) in cui vissero e operarono, Croce e Bobbio furono apostoli nello stesso tempo ascoltati e traditi. Ascoltati giacché enorme fu la loro influenza nella cultura italiana; traditi perchè nonostante questa influenza l'italietta continuò a rimanere tale.[72]

 

6. La funzione della filosofia

“Ancora oggi, passata molta acqua sotto i ponti della filosofia,

a poche letture filosofiche son disposto a riconoscere la funzione stimolatrice della pagina crociana”

Norberto Bobbio, 1964

Raccontando il primo impatto con la filosofia di Croce, Bobbio compendia così:

il crocianesimo era prima di tutto una lezione di metodo; nella ricerca storica, netta distinzione tra storia e cronaca, al centro della ricerca il “problema storico”, niente filosofia della storia prescrittiva o profetica o soltanto predittiva, niente storia moralistica o prammatica, la storia come ricerca dell'universale nell'individuale /.../; nella critica letteraria, rifiuto dei generi letterari, l'arte come autonoma categoria dello spirito, da non confondere da un alto con la filosofia, dall'altro con l'etica, e come concetto universale troppo spesso mescolato con concetti empirici scambiati per concetti puri[73]

Ma Bobbio  dal Breviario di estetica regalatogli da Leone Ginzburg nel 1927 e dai primi entusiasmi di “discepolo integrale” ha continuato in seguito a leggere Croce e meditarlo per tutta la vita, fino agli ultimi suoi anni. Ha avuto dunque tutto il tempo per formarsi un punto di vista suo e più particolare: il Croce di Bobbio non è quello del “neoidealismo” ma è quello dello “storicismo assoluto”:

lo stesso Croce poco prima dello scoppio della [prima] guerra , avendo compiuta, alla fine della costruzione del sistema, la congiunzione della filosofia con la storia, preferirà parlare, per indicare la sua filosofia, di “storicismo” o addirittura di “storicismo assoluto”, sino a che , in una noterella del 1943, riflettendo sulle confusioni cui si era prestata la concezione idealistica della filosofia, osserverà che era giunto per la filosofia il momento di dar congedo “alla parola 'idealismo' nata o diventata equivoca, e di cui la filosofia ha fatto uso con effetti non sempre buoni.”[74]

E di questo “storicismo” di Croce Bobbio ha dato una sintesi magistrale per chiarezza e profondità[75], e, da bravo professore, ha indicato un testo breve  di riferimento:

se tra gli scritti di Croce dovessi indicare quello in cui vedevo espressa con maggiore stringatezza e completezza la parte feconda del suo insegnamento filosofico, segnalerei il saggio Filosofia e metodologia[76]

Se da giovane egli aveva osservato che:

per chi intendeva dedicarsi agli studi filosofici l'opera di Gentile pareva stare un gradino più in alto nell'ascesa verso al perfezione filosofica. Solo in seguito, allargando l'orizzonte dei miei studi al di là della filosofia italiana e cominciando a occuparmi di ricerche specifiche nel campo della teoria del diritto, non tardai a convincermi che la filosofia dell'atto puro era un abile ma capzioso e sterile gioco verbale dal quale un giurista non avrebbe ricevuto grande illuminazione quando fosse giunto faticosamente a scoprire che, secondo l'idealismo attuale, il diritto deve esser definito come “volontà voluta”.[77]

E Bobbio ricorda il distacco teoretico (quello politico  e amicale daterà 10 anni dopo) tra Croce e Gentile del 1913-14:

l'articolo di Croce Intorno all'idealismo attuale /../ fa scoppiare un contrasto fino allora latente tra i due diversi modi di concepire l'essenza, la funzione e il significato storico della filosofia /.../ Se nei primi anni poteva sembrare che il più vecchio fosse andato a scuola di filosofia dal più giovane, ora Croce /.../ dichiara apertamente la sua insofferenza – che è naturale reazione di chi ritiene che la filosofia debba nascere da studi particolari in diversi campi del sapere e non soltanto da sé stessa – nei riguardi del “purus philosophus”.[78]

Ah, quanti puri philosophi ci furono allora, ci sono ancora oggi! E al vario volgo accademico e mediatico ancora “sembrano esser un gradino più in alto nell'ascesa verso la perfezione filosofica”. Quando a Bobbio parlai – con varie perplessità - di un'intervista che avevo fatto a Brescia a Emanuele Severino, e in cui questi mi aveva detto che “considerava Giovanni Gentile l'unico vero filosofo italiano del XX secolo”, e poi lesse il saggio su Emanuele Severino che avevo pubblicato su “Quaderni piacentini”, e in cui, tra l'altro, mi ero avvalso di quell'intervista[79], egli mi scrisse:

molto bello, senza complimenti! /.../ la tua critica a Severino è molto convincente, e condotta con abilità anche dialettica. Pur avendo rapporti amichevoli con Severino, che è umanamente una persona simpatica, non sono mai riuscito a prender sul serio la sua filosofia, perchè a quel livello di astrazione “l'esser non può non essere ecc.” non riesco a trovare un posto per i problemi che mi interessano e che mi stimolano a riflettere su di me, sul mondo che mi circonda, sulla storia di cui anche io sono un minuscolo frammento. Convincente e ben svolta la derivazione da Gentile tramite Bontadini. Passo tutti gli anni qualche giorno in compagnia di Bontadini, qui a Cervinia, dove anche  lui è, come  me, di casa, e una buona parte delle nostre conversazioni è dedicata a Severino, l'allievo prediletto e ancora profondamente amato nonostante l'apostasia. Trovo nel tuo bel saggio molti argomenti che presento, invano, alla critica di Bontadini, il quale critica, anche lui, Severino, ma rimanendo sempre allo stesso livello di astrazione dal quale non mi riesce di farlo discendere. Un bell'esempio di dialogo tra sordi /.../ tra le pagine più azzeccate e gustose del tuo saggio quelle in cui si parla della ripetitività attraverso la variatio, e poi si esaminano alcuni vezzi stilistici con appropriate esemplificazioni, e si conclude parlando di “narcisismo”.[80]

E in seguito:

Severino è considerato l'unico filosofo italiano di cui valga la pena di parlare /.../ ad ogni modo anche a me il discorso su Severino, sulla sua filosofia, sulla sua persona, non mi interessa un granchè[81]

Corsi e ricorsi, sembrerebbe. Anche se si può osservare che - rispetto alle polemiche di Croce con Gentile illo tempore – sia per il già notato stile non polemico di Bobbio, sia per la natura diversa della nostra società di oggi  (complessa, frammentata e dispersa in generale, e nei suoi sottosistemi culturali e  mediatici) – nessuna polemica filosofica è  intercorsa tra il “concreto” Bobbio e lo “astratto” Severino.

Bobbio nel Profilo ideologico e in molti altri testi, aveva ripetuto che due erano stati i principali nemici filosofici  di Croce: il positivismo e l'irrazionalismo. Egli non si sentiva molto vicino al primo Croce, l'onnipresente fustigatore del positivismo[82] nel primo decennio del secolo, e il cui antintellettualismo era un punto in comune con gli irrazionalisti.[83] Disprezzava la retorica delle riviste “Hermes”, “La Voce”, “Leonardo” e ancor più  (“incredibile vecchiume e rancidume”, “sentore di muffa”) “Il selvaggio” e “La vita nova”.[84] Aveva attaccato l'esistenzialismo  in quanto  “filosofia del decadentismo” negli anni Quaranta. Aveva chiaramente scritto che Nietzsche, maestro dell'irrazionalismo, era anche maestro del fascismo.[85] E, in anni tardi, ben consapevole della tutta italiana “Heidegger renaissance”, scriveva:

è uscita recentemente anche un'interpretazione esistenzialistica, heideggeriana, di Hobbes. Come dire, confondere il principe della luce col principe delle tenebre.[86]

Quando io pensavo di scrivere quel libro su Croce, Bobbio constatava la difficoltà a pubblicarlo: addirittura Laterza non pubblicava più le opere stesse di Croce

perchè dice che nessuno più le compra. Dico questo con dispiacere perchè sono stato sempre un grande ammiratore di Croce e lo sono tuttora. È stato l'unico vero maestro di una generazione che è riuscita a fare il “lungo viaggio” attraverso il fascismo senza esser contagiata. Però più che la polemica antipositivistica a me sembrerebbe di maggiore interesse quella anti-irrazionalistica (oggi la filosofia dominante e imperversante è quella di Nietzsche e Heidegger[87]

In effetti allora io non visualizzavo un “pericolo” irrazionalistico, Nietzsche e Heidegger neanche mi sembravano filosofi – nonostante clamori e incensamenti e isterie collettive, tempeste nel bicchiere d'acqua del nostro ristretto e corporativo e impermeabile mondo accademico – così come non mi sembrano ora. Mentre prendevo assai più sul serio gli strutturalismi e vari neopositivismi e filosofie analitiche,  e trovavo in Croce l'antidoto al loro riduzionismo metodologico. Solo in seguito, e sempre di più col passare del tempo, sentii anche io il problema dell'irrazionalismo, non quello – secondo me abbastanza  innocuo perchè condotto nello “hortus conclusus” di una “turris eburnea” a tutti ignota e per tutti ininteressante - guidato dalle artificiose campagne celebrative di Nietzsche o Heidegger[88] da parte dei professori nostrani, ma quello pervadente il senso comune della gente comune, sotto forma di varie mutazioni genetiche del Romanticismo:  Decadentismo, Esistenzialismo, “Beat generation”, Sessantottismo, “New age”. Irrazionalismo non proveniente certo da candidi accademici, ma piuttosto dalla cultura di massa stessa, lasciata a sé stessa (questo sì peccato – di omissione – della cultura accademica!) e in preda del cinismo di molti padroni dei media, dei riti del consumismo, e dei sobillamenti di una nuova politica di tipo razzista e populista.[89]

Bobbio aveva sentito di dover difendere Croce dalla assurda accusa di irrazionalismo:

abbiamo visto con sorpresa uno storico della cultura come Lukàcs considerare Croce tra i rappresentanti e gli artefici della distruzione della ragione, che comincia da Nietzsche e termina con Hitler. Ora, la nostra generazione non ha atteso il libro di Lukàcs per sapere che vi era stata in Europa, all'inizio del secolo, un'ondata di irrazionalismo, perchè lo avevamo appreso, parecchi anni prima, proprio da Croce di cui non abbiamo dimenticato le mirabili pagine sull'irrazionalismo, nella Storia d'Italia, e quelle non meno alte e veritiere sull'attivismo, nella Storia d'Europa. Per chi avesse letto solo le falsificazioni di Lukàcs, sarà bene riportare almeno il passo in cui Croce parla dei “genialoidi” delle riviste fiorentine...[90]

Osservo, però, che Croce non si limitò solo a rabbuffare Papini & C. durante l'età giolittiana, ma tornò alle radici di tutti i neo-romanticismi successivi, e cioè al Romanticismo storico del XIX secolo, proprio dagli anni Trenta in poi[91], avendo visto l'irrazionalismo quasi trionfare non più solo nelle penne degli scrittori, ma nelle ideologie delle masse e nelle politiche dei governi: c'è un “romanticismo teoretico” - e cioè l'idealismo - che continua e fa progredire la “filosofia moderna”, e c'è un “romanticismo morale” che è “patologia”, “morbosità morale”.[92]

Sia per Croce sia per Bobbio, la grande sfida era la creazione di un'etica “laica” che superasse i vincoli dei vari “tradizionalismi” - a partire da quello cattolico - senza cadere però nella carismaticità eversiva dell'irrazionalismo. Non essere tradizionalisti non significa affatto disprezzare molte tradizioni, tradizioni che, invero, sia Croce sia Bobbio spesso veneravano, col loro amore per la “continuità” nella storia delle idee e delle istituzioni e nel ricordo delle persone.

Croce, oltre che in molti altri scritti,  nei Frammenti di etica e in famosi capitoli della Storia d'Europa, aveva espresso quella proposta di etica laica e non tradizionalista, così come in decenni successivi fece Bobbio – in religione “non credente”, in politica “progressista”, in filosofia “neo-positivista” - eppure contrario alla “rivoluzione sessuale”[93] e all'aborto[94], nella sfera privata, e alle utopie estremiste maoiste e sessantottine nella sfera pubblica[95]. L'etica della “religione della libertà” di entrambi è pluralista, riformatrice, anti-autoritaria, razionalista. Non meno ferma e intransigente e coraggiosa - almeno per chi la adotti personalmente ed  intimamente - di quella tradizionale della chiesa cattolica. E, se certo non dogmatica (diversamente da quella) , altrettanto certamente  non “relativista” (in ciò a quella simile)![96]

 

 

7. Il Croce Dimenticato e la cultura italiana del secondo dopoguerra

 

 

“Nessuno dei miei allievi dagli anni Quaranta agli Ottanta si è mai occupato di Croce”

Norberto Bobbio, 1998

 

Nel 1939 Croce scriveva quello che Gennaro Sasso ha definito “senza dubbio possibile la meditazione più impegnativa e più dolorosa” presente nei suoi diari, il “più puro 'frammento di etica', uno dei più agitati, turbati e drammatici 'frammenti di etica' che gli sia accaduto di scrivere”:

…..e non importa dire dei dolori, e peggio che dei dolori, dell'amarezza e del disprezzo di cui mi si è riempito il petto verso tanti e tanti che mi hanno tradito e mi si sono messi contro o si sono da me allontanati, o che, quotidianamente, senza conoscere né me né i miei libri, mi scagliano ingiurie. Ciò che mi opprime veramente è la condizione generale degli spiriti in Italia e fuori d'Italia; la menzogna,la malvagità e la stupidità in cui siamo come immersi e quasi sommersi; gli atroci delitti ai quali si assiste impotenti /.../ Come diversa avevo immaginata e vagheggiato la vecchiezza, quando vi fossi, come ora vi sono, pervenuto! Sognavo di aver posto termine, o quasi, ai miei personali lavori scientifici e letterari, e di vivere tra i giovani, lavorando con loro, indirizzandoli, partecipando a loro i frutti delle mie esperienze, e come istruendoli ai segreti del mestiere... E invece mi è toccato di sorreggere a forza di spalle un edifizio in rovina, il che potrebbe dare un qualche compiacimento o qualche orgoglio, se non fosse soverchiato dal triste pensiero che, quando io non ci sarò più, nessuno sottentrerà al mio posto, e la rovina della cultura italiana sarà piena[97]

E quando nel 1952 Croce morì, nel suo necrologio Bobbio scrisse con un certo qual pessimismo:

Nessun maggiore elogio, ma nessuno più meritato, di quello per cui l'opera di Croce può esse additata alle generazioni che verranno come un simbolo dell'Italia di questo primo mezzo secolo; vogliamo dire dell'Italia civile. Accanto all'Italia civile, c'è stata ancora una Italia barbara. Ma proprio per questo l'insegnamento di Croce non dovrà esser dimenticato.[98]

Cosa accadde a questa cultura italiana dopo la sua morte? L'insegnamento di Croce fu dimenticato!

Questa dimenticanza fu una causa (tra tante altre) che favorì la “Italia barbara”?  O, detto con altre parole e in un ambito più circoscritto, ci fu quella “piena rovina della cultura italiana” tristemente temuta da Croce?

Nel 1966 Bobbio cercò di rispondere (senza ottimismo né pessimismo): come Giolitti era riuscito a domare sia i cattolici sia i socialisti, Croce lo aveva fatto sia con la metafisica tradizionale sia col positivismo; ma il momento di sintesi non durò e con la Grande guerra si affermarono sia il fascismo sia l'irrazionalismo; quando poi il regime finì, si scoprì che il marxismo era più vivo che mai, il positivismo era diventato neo-positivismo, l'irrazionalismo era stato filosoficamente sanzionato dall'esistenzialismo

se paragoniamo l'età dell'idealismo, cioè i primi 15 anni del secolo, con l'età nostra, cioè i primi 15 anni della seconda metà del secolo, una differenza salta agli occhi: quella fu più creativa, questa più positiva /.../Fu, la loro, un'età di risveglio filosofico; la nostra, di risveglio scientifico. Per questo, è tanto vario quel panorama, quanto il nostro monotono. Ma loro stavano precipitando senza accorgersene verso uno dei periodi più tragici della storia europea; noi lo abbiamo alle spalle[99]

Nel 1981 sulla cultura filosofica italiana Bobbio sembrava esprimere un cauto ottimismo:

Viano ha insistito giustamente sull'apertura o sulla disponibilità della filosofia italiana verso le filosofie straniere, considerandole un carattere distintivo della nostra filosofia dopo la crisi dell'idealismo, come il segno di uno sforzo per abolire la “chiusura culturale” provocata dalla egemonia crociana /.../non si può non riconoscere che si è svolto un rapido crescente processo di sprovincializzazione /.../ si è formata, specie nelle generazioni più giovani della mia, una consapevolezza più matura dei diversi piani su cui si muove il dibattito filosofico nel mondo.[100]

Ma Bobbio - che qui vestiva il ruolo diplomatico di compendiare i lavori di un convegno di professori quali Verra, Viano , Vattimo, Paolo Rossi e altri, e che dunque era come portato a rispecchiare l'ottimismo dei relatori verso “la disponibilità alle filosofie straniere”, oltre che la loro dimenticanza di Croce - se aveva questa valutazione, non aveva solo quella. A me nel 1989 scriveva:

ti mando l'estratto del mio discorso per il centenario Laterza, dove sul provincialismo di Croce sostengo la tesi opposta a quella che avevo sostenuto nella conclusione del convegno di Capri[101]

E comunque, come abbiamo visto già in vari testi da me citati in questo mio saggio, Bobbio aveva una sconfinata ammirazione per Croce, e quando di lui gli accadeva di occuparsi ad personam, cioè nel confronto tematico con lui, ecco che la “sprovincializzazione” della cultura italiana si sgretolava sotto i suoi occhi. In un'occasione, dopo aver raccontato i benefici effetti esercitati dal magistero di Croce su varie generazioni di intellettuali italiani di cui ultima, forse, era proprio la sua, scriveva:

Ma oggi? Mi è accaduto recentemente di presentare un'opera di uno storico di una generazione molto più giovane/../ nella premessa l'autore scrive di essersi ispirato a 4 grandi: Marx, Tocqueville, Weber e Schumpeter. Dissi nel commentare questa affermazione  che se io avesi dovuto indicare i miei autori non avrei potuto fare a meno di citare Croce /.../ mi è accaduto spesso di paragonare la mia generazione a quella dei nostri figli che non ha avuto maestri. Non li ha avuti o non li ha voluti? Li ha bruciati (in effigie” e li ha vilipesi (non solo in effigie). Ma erano veri maestri? Ne dubito: durano due o tre anni e poi vengono dimenticati. /.../ so soltanto, per mia esperienza, che poter contare su una bussola permette di navigare con maggiore sicurezza nel gran mare della storia e ci preserva dalla tentazione di tornare ogni volta daccapo.[102]

E già nel convegno di Capri, nonostante la linea “diplomatica” da tenere, Bobbio osservava che è difficile seguire la filosofia italiana perchè la sua “apertura” verso quelle straniere rendono impossibile tenersi aggiornato su tutti i fronti (anglosassone, francese, tedesco). E anche per un'altra causa:

oltre che per la vastità dell'area c'è anche da tener conto della rapidità con cui nascono e muoiono i vari “ismi”, Ce n'è in giro sempre di più e durano sempre meno. Diventa sempre più difficile rincorrerli tutti e molto spesso quando sei riuscito ad acchiapparne uno, stringi in mano un cadavere[103]

E efficacemente in dettaglio elencava: il funzionalismo sociologico, Althusser, la Scuola di Francoforte, Rawls e il neo-contrattualismo, Niklas Luhmann. E nel Profilo ideologico del Novecento italiano sottolineava, oltre i rapidi cambiamenti, anche gli scambi delle parti:

in questi ultimi anni assistiamo di nuovo tra estrema destra ed estrema sinistra allo scambio dei padri: c'è una nuova destra che si è richiamata a Gramsci e alla sua teoria dell'egemonia, e c'è una nuova sinistra che riscopre Nietzsche, Heidegger e Carl Schmitt. Non a caso del resto: tra i due radicalismi esiste una convergenza /.../ una comune insofferenza per la “mediocrità” della democrazia, per la inconcludenza dei dibattiti parlamentari, per le virtù non eroiche del buon cittadino e per le azioni non esaltanti del buon governo.[104]

Si dirà: sono “meccanismi” delle “mode” sociali in generale, e in specifico del sottosistema “accademico”; poiché la maggioranza delle persone non è capace di un pensiero originale, manca del coraggio necessario ad un autentico non-conformismo, è attratta da quel narcisismo che fa veder come “superiore” ciò che è ammirato dagli altri, ecco che la facile via per convincersi di avere “avanzato” nelle conoscenze del mondo e nella maturazione del sé è quella di affluire a quel provvisorio coagulo di novità che è una “moda”. Sì, giusto! Anche se poi rimane aperta tutta la ricerca (storica!) di comprensione dei particolari per i quali in questa società o sottosistema vengono favorito tali “meccanismi” o piuttosto ostacolati, perchè essi prevalgano o non prevalgano in un particolare momento storico, ecc.

Una convinzione che mi sono fatto su quel sottosistema della società che è quello “accademico” - al di là di quelle specifiche patologie italiane per le quali, come output effettuale, nessuna delle nostre università è annoverata nelle prime 100 del mondo (pur non essendo la tradizione culturale italiana la centesima, credo!) - è che esso non può e non deve esser autoreferenziale (pena i meccanismi di cui sopra), ma deve esser aperto alla più vasta società, la quale esso deve servire più di quanto di essa debba servirsi.

Croce non era “professore” universitario, e invero non era nemmeno laureato; Bobbio invece lo era, ma sin da ragazzo, nella esperienza fondamentale degli incontri amicali, filosofici  e anche “cospirativi” del caffè Rattazzi di Torino, attorno ad Augusto Monti, aveva imparato una lezione:

essa consistette, almeno per me, nel farmi toccare con mano il distacco tra la cultura accademica, che si fucina nelle scuole, e quella militante, che si forma tra compagni e maestri scesi dalla cattedra, intorno ai problemi vivi la cui soluzione richiede anche un impegno personale, e nel premunirci, tutti quanti, contro la malattia del sussiego.[105]

 

 

8. Il nascondimento del Bobbio Crociano e l'Italia del presente

 

“Croce era, personalmente, un esempio di libertà intellettuale, di saggezza,

di dignità, di operosità, di serietà negli studi: adunava in sé tutte le qualità dell'educatore,

che gli altri educatori o maestri possedevano solo parzialmente

Norberto Bobbio, 1964

 

Nel 1989 Bobbio esplicitò quale fosse la parte dell'opera di Croce da lui preferita:

Croce è stato un grande moralista, oltre che un grande storico, il grande letterato e filosofo che tutti conoscono (non sempre riconoscono). Questo è stato, sopra ogni altro, il “mio” Croce. E se ho impiegato tutta la vita per convincermene, meglio tardi che mai. /... / Parlo di moralista nel senso forte della parola, di chi crede per intima convinzione che in ultima istanza siano le forze morali che guidano la storia e ne trae la conseguenza che sia sommo ufficio di ogni uomo, non importa se dotto o indotto, di fare la propria opera per farle prevalere[106]

E citava un passo di Croce sul rinsaldare l'amore per la libertà:

e, senza pretendere o attendere l'assurdo, ossia che la politica cangi la natura sua, contrapporle una forza non politica, che essa non può sopprimere mai radicalmente, perchè rigermina sempre nuova nel petto dell'uomo, e con la quale dovrà sempre, per buona politica, fare i conti.[107]

Ecco dove l'ottuagenario Bobbio si sente all'unisono col suo maestro Croce: in questo radicale anti-machiavellismo, per il quale la politica non può esser indipendente dalla morale né a fortiori divaricarsi da essa. Come siamo lontani non solo dal “tutto è politica” sessantottino, ma da tutta una costante tradizione pro-machiavellica degli intellettuali italiani, che, a ritroso, da Togliatti ascende a Gramsci e a Marx e a Hegel sulla banda sinistra, e da Malaparte e dal malapartismo ascende a Preziosi, a Evola e agli altri intellettuali fascisti, alle riviste fiorentine e a D'Annunzio, sulla banda destra.

Invece Croce e Bobbio furono studiosi di Hegel e di Marx e furono anche loro ammiratori (Croce di Hegel, Bobbio di Marx), ma non lo furono del loro machiavellismo. Essi incarnarono, su questo punto – il rapporto tra etica e politica – piuttosto una diversa tradizione, che chiamerei plutarchiana, e che ascendeva da Croce  a De Sanctis e Manzoni, sulla banda destra, e da Bobbio a Salvemini e Mazzini sulla banda sinistra[108].

Questo punto – centrale – delle forze morali nella storia e della religione della libertà, così come gli altri temi che direttamente collegano Bobbio a Croce, e poi il fatto di fondo - e cioè che tra i vari suoi maestri quello più influente di tutti e di cui, con l'avanzare dell'età, esplicitamente Bobbio riconosceva  la supremazia sugli altri era Benedetto Croce -  tutto ciò non è riconosciuto oggi quasi da nessuno. Non dalla destra che è nemica di Bobbio in morte come lo era in vita e che non vuole certo connetterlo a Croce, perchè per essa Croce è da considerarsi almeno potenzialmente (purché non se ne parli, non lo si analizzi davvero!) un “proprio” autore, liberal-moderato come De Gasperi ecc.[109] Ma neanche dalla sinistra sia per motivi speculari a quelli appena indicati (Croce tutt'ora – per inerte e mai rivista abitudine  - viene considerato “autore di destra” un po' come Clint Eastwood è considerato regista di destra, quando in realtà i messaggi dei due  oramai risultano molto più radicali e progressisti di quelli  della cosiddetta sinistra italiana), sia per motivi più profondi e filosofici: quelli per cui storicismo, plutarchismo, anti-egalitarismo, religione della libertà sono estranei a intellettuali di matrice sessantottina, che sono neopositivisti, pro-machiavellici, egalitaristi e areligiosi. Nelle due più importanti antologie di scritti bobbiani, infatti, quali sono quelle curate da Revelli[110] e Bovero[111], i testi su Croce hanno poco o pochissimo posto. Plateale è poi il caso del libro ricco di documentazione fotografica, curato da Revelli e da altri, che si intitola Bobbio e il suo mondo[112], che ripercorre anche con minuzia tutte le fasi della vita personale ed intellettuale del nostro, e nel quale non si trova nessun riferimento a Croce, non una paroletta, non una, magari piccola, fotografia (lui che, da Napoli,  ogni anno e per decenni,  veniva in Piemonte e a Torino!). Una damnatio memoriae credo in parte inconsapevole, quasi un lapsus mentis freudiano, anche se di freudismo culturale ed ideologico e non psicosessuale!

Se secondo questa linea di ricordi, o meglio non-ricordi, Croce non faceva parte di “Bobbio e il suo mondo”, però il figlio Andrea il giorno dei funerali civili di suo padre a Rivalta Bormida lesse le parole che questi aveva scritto nel 1995 quando il Comune di Rivalta gli aveva dato la cittadinanza onoraria;  e in esse l'unico filosofo citato è proprio Croce!

Non mi sono mai preso troppo sul serio. Bisogna guardare anche a se stesso con distacco e ironia. Benedetto Croce, un maestro della nostra generazione, diceva molto saggiamente che bisogna avere amore delle cose, non di sé stessi, che quanto più si amano le cose tanto più si riesce a distaccarsi da sé stessi.[113]

Espliciti riconoscimenti del rapporto tra Bobbio e Croce mi risultano esser più unici che rari, come quello su riportato di Luca Addante.

Ora, io qui – come già nei miei altri scritti citati del 1983 e del 2004 – ho voluto non adeguarmi a questa omissione e a questa dimenticanza, e ho voluto presentare sia i rapporti intellettuali di Bobbio con Croce, sia anche – come fa Addante – la analoga funzione di “sentinelle di Israele” dei due nella vita culturale e politica italiana dei tempi loro.

Detto questo, però, voglio anche porre una differenza: quantitativa, nella “grandezza” dei due. Mai Bobbio si sarebbe posto alla stessa altezza di Croce, rectius, mai lo ha fatto. E al contrario:

[quella di Croce è] una delle più complesse e meditate visioni della storia di questo secolo, di fronte alla quale quella di Husserl mi sembra meno nuova, quella di Jaspers più ambigua, quella di Heidegger più disumana.[114]

E anche:

Sono finiti i grandi uomini, che rappresentano col loro genio un'età, anche se si guarda alla saggezza di Croce con rimpianto, alla vitalità smoderata di D'Annunzio con diffidenza.[115]

E anche:

alla buona conoscenza dell'opera di Croce bisognerebbe poi che i futuri studiosi aggiungessero un atteggiamento di libera critica, lontano tanto dalla soggezione ad una grandezza che non ha, nella cultura italiana di questo secolo, confronti, quanto dalla polemica per partito preso.[116]

In questa “grandezza che non ha confronti” compare in Bobbio lo stesso giudizio di Gramsci sulla “egemonia culturale” crociana, cioè quella di un intellettuale che dialogava con Eduard Bernstein, Georges Sorel,  Thomas Mann, Albert Einstein, Robin Collingwood; quella di una persona che venne individuata da Roosevelt e da Churchill come il principale interlocutore dell'antifascismo italiano. Egemonia che, ai tempi suoi, Bobbio certamente non ha avuto.

Ma, con le risorse sue (non piccole invero!), Bobbio fu anche lui, come Croce,  “sentinella di Israele” della libertà in Italia. Nel 1968 aveva scritto il Profilo ideologico del Novecento italiano per la Storia della letteratura italiana della Garzanti, e gli era stato proposto nel 1970  dalla Einaudi di pubblicarlo in volume con tutto ciò che  – per ragioni di lunghezza – non aveva potuto pubblicare nella Storia della Garzanti. Per quella occasione Bobbio pensò di aggiungere anche un capitolo che arrivasse a narrare le vicende degli intellettuali italiani fino proprio al 1968 e che si sarebbe intitolato La libertà inutile. Ma la Einaudi non pubblicò il volume fino al 1986 ( e Bobbio ricordò che una della ragioni di quell'enorme ritardo fu proprio questo capitolo aggiuntivo!). In effetti su “Resistenza”, la  rivista degli ex-partigiani di “Giustizia e libertà”, nel 1969 aveva esposto i motivi per i quali avrebbe voluto scrivere quel capitolo (e, se pensiamo alla Einaudi ipermarxista di quegli anni, non ci stupisce affatto il boicottaggio!):

oggi sappiamo che la libertà si può usare per il bene e per il male. Si può usare non per educare ma per corrompere, non per accrescere il proprio patrimonio ma per dilapidarlo, non per rendere gli uomini più saggi e nobili, ma per renderli più ignoranti e volgari. La libertà si può anche sprecare. Si può sprecarla sino al punto di farla apparire inutile, un bene non necessario, anzi dannoso. E a furia di sprecarla, un giorno o l'altro (vicino? lontano?) la perderemo. Ce la toglieranno. Non sappiamo ancora chi: se coloro che abbiamo lasciato prosperare alla nostra destra o coloro che stanno crescendo impetuosamente alla nostra sinistra. Abbiamo comunque il sospetto, alimentato da una continua severa lezione durata mezzo secolo, che la differenza non sarà molto grande[117]

Riportando queste sue parole del 1969 nella sua Postfazione alla edizione in volume del Profilo, di seguito scriveva:

La mia previsione non si è avverata. Di questo errore ho fatto ammenda più volte. Ma era accaduto che, dopo aver tentato di arginare l'estremismo di destra, avevamo scoperto improvvisamente e in ritardo l'estremismo di sinistra.

Però concludeva la Postfazione con queste parole:

non mi sentirei più di dire [come avevo scritto nel 1969] che la libertà sia stata inutile. Si può esser liberi per convinzione o per assuefazione. Non so quanti italiani siano veramente degli amanti convinti della libertà. Forse sono pochi. Ma molti  sono coloro che avendola respirata per molti anni non ne potrebbero più fare a meno, anche se non lo sanno. […] gli italiani, per ragioni che la maggior parte di loro ignorano e di cui non si curano, si trovano a vivere in una società nella quale sono “obbligati” da cose più grandi di loro a “essere liberi”. Spero di non sbagliarmi una seconda volta.[118]

Quelle “cose più grandi di loro” (caduta del Muro, Tangentopoli, fine dei partiti della Prima repubblica, strage di Capaci,  boom della Lega Nord e di Forza Italia, rapida e forte immigrazione di extracomunitari nel nostro Paese, attentato alle Torri Gemelle, guerra in Iraq, 8 anni di governo Bush junior negli USA), tutte  nel 1986 dovevano ancora venire. Ma sarebbero venute da lì a poco! e a Bobbio capitò di essere abbastanza longevo per vederle tutte o quasi! e abbastanza combattivo per concludere i suoi interventi direttamente politici denunciando i forti rischi di perdere la libertà in Italia e di tornare a nuove forme di autoritarismo.

Bobbio si era sbagliato dunque “una seconda volta” nel 1986, dopo la prima volta del 1968? Chi è sincero liberale e vive con angoscia e trepidazione i fatti terribili che - nel momento in cui sto scrivendo – stanno avvenendo nelle istituzioni, nella politica e nella società italiane, è fortemente tentato – e suo malgrado – a rispondere di sì.

Ma – e questo anche a me sembra essere il cuore del crocianesimo di Bobbio, proprio come sembrava a lui – la fede nella “religione della libertà”, in quella  “forza non politica” e cioè morale con la quale la politica “sempre dovrà fare i conti”, fa sì – se non si scorda Croce, il Maestro – che anche i contributi del Discepolo (compresi gli ultimi) non diano, in fondo, un messaggio pessimista.

Per essere più esplicito e forse più chiaro: se all'interno delle variegate componenti culturali che ispirarono la personalità intellettuale di Bobbio, e all'interno della abbondante e multiforme opera sua, si evidenzia la componente crociana (e non la si minimizza, tralascia o addirittura nasconde), allora quelle ultime parole della Postfazione possono esser lette da noi anche in un'altra maniera, che non contraddice la prima ma la integra. Quale? Al  lettore di Croce – e al suo spirito critico ed empatico - la risposta!



[1]      Cominciati nel 1982, quando Franco Sbarberi, il relatore  della mia tesi su Gobetti, mi mise in contatto con lui che del Centro Studi Piero Gobetti era presidente,e terminarono nel 2002 quando, morta la moglie Valeria e con la badante straniera in casa, sempre più depresso Bobbio ridusse la cerchia dei suoi contatti interpersonali, non volle che lo andassi più a trovare, gli telefonai per l'ultima volta e lui mi scrisse un'ultima letterina.

[2]      Tanti anni fa scrivevo (Rassegna critica degli studi crociani negli Anni Ottanta con annessa bibliografia, “Studi Critici”, nn. 1-2, ottobre 1992, pp. 153-195): “presento l'ipotesi che gli autori che anche in questo decennio si sono occupati – nelle sedi varie  e particolari – di Croce, abbiano oggi, nella loro quasi totalità, più di 50 anni. Quarantenni, trentenni, ventenni - dico – non hanno conosciuto il sistema crociano,  e dunque non lo hanno meditato né per avvalersene né per rifiutarlo. Possono, semmai e certo non di frequente, avere letto qualcosina per obbligo scolastico-professionale, ma non hanno potuto/voluto incontrare lo spirito del filosofo. E non si sono dunque occupati del suo pensiero neanche nei problemi particolari”. (p. 189).

[3]      Era stato lui che mi aveva scelto nel concorso per l'ammissione alla Normale, ma io perdetti quasi subito simpatia per lui. Quando anni dopo raccontai a Bobbio quanto il filologismo gariniano avesse deluso il mio giovanile desiderio di filosofia, egli mi scrisse: “ho l'impressione che tu sia troppo severo /.../ Croce è rimasto anche per lui un punto di riferimento costatante, come è stato per tutta la nostra generazione (lettera a me, Torino 25/11/1989). Dopo tanti anni però io non ho cambiato idea : grato a Garin per avermi trasmesso l'ideale di completezza e precisione nella ricerca storica, non lo sono per il suo disinteresse per le idee filosofiche; per la cui assenza, secondo Croce, neanche era possibile fare storia ma solo cronaca.

[4]      Che in seguito pubblicai: B. Croce e la controversia sullo psicologismo (“Pedagogia e vita”, serie 48, ott.-nov.  1986, pp. 55-72) ; B. Croce discusso dai Neoscolastici (“Studium”, 3/1987, pp. 397-409) ; La filosofia della storia e B. Croce (“Studium”,1/1989, pp. 57-67)

[5]      Poi pubblicata come libro: Laicità e religione in Piero Gobetti (con introduzione di Norberto Bobbio, Franco Angeli 1986)

[6]      Ho poi avuto come presidente alla discussione Giorgio Candeloro.

[7]      “personalmente apprezzo gli storici, gente che sa il proprio mestiere a differenza dei filosofi che spesso mostrano di non saperlo o di non averne uno”(Bobbio, Benedetto Croce (1962) , in Italia civile. Ritratti e testimonianze, Passigli Editori, Firenze, 1986, p. 73)

[8]      Vedi di Bobbio, Una rara amicizia, prefazione a:  AA.VV., Ada Prospero Marchesini Gobetti, in “Mezzosecolo” n. 7, Annali 1987-1989, Franco Angeli, Milano, 1990, pp. 3-8; e, sempre di Bobbio, Crocianesimo a Torino, in: AA. VV.,  Trent'anni di storia della cultura a Torino : 1920-1950, Cassa di Risparmio, Torino, 1977, pp. 34-39. Bobbio pensava che, tra tutti i suoi moltissimi scritti,  “i soli che vorrei che mi sopravvivessero” erano Italia civile (1964) e Maestri e compagni (1984), libri-sillogi di tributi che Bobbio fece alla memoria della vita e dell'opera di intellettuali che egli aveva conosciuto (Per una bibliografia, in  De senectute e altri scritti autobiografici, Einaudi, Torino, 1996, p. 91.

[9]      La mia maestra Sofia Vanni Rovighi aveva detto: “io ho una grandissima stima di Garin come storico della filosofia, anche se non la penso come lui /.../un altro filosofo che ha tutta la mia ammirazione è Norberto Bobbio, che non è storico della filosofia, ma filosofo. Norberto Bobbio è, secondo il mio modesto avviso, in uomo di grandissimo ingegno, di seria preparazione, e col quale /.../ abbiamo anche certe cose su cui andiamo d'accordo. Lui non lo sa, perchè io conosco lui, ma lui non conosce me, o giù di lì” (Jan Wladyslaw Wòs, Un colloquio con Sofia Vanni Rovighi, in AA. VV., Ricordo di Sofia Vanni Rovighi nel centenario della nascita, Vita e Pensiero, Milano, 2009, pp. 52-53.

[10]   Un maestro di questo secolo, in: AA.VV., Benedetto Croce: una verifica, L'Opinione Editore, Roma, 1978, pp. 31-32

[11]   Fra Croce e Gobetti, in: AA. VV., Franco Antonicelli : ricordi e testimonianze, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, pp. 73-79

[12]   Croce maestro di vita morale, in Per conoscere Croce (a c. di Paolo Bonetti), Edizioni scientifiche Italiane, Napoli, 1998, p. 35

[13]   Italia civile, cit,. p. 70.

[14]   Ibidem.

[15]   Sono i titoli di suoi tre libri del 1984, 1964, 1986 che raccolgono scritti di datazioni anche molto diverse.

[16]   Maestri e compagni, Passigli Editori, Firenze, 1984, pp. 169-170.

[17]   Benedetto Croce, in “Occidente. Rassegna bimestrale di studi politici”, 8 (nn. 3-4, mag.-ago. 1952), p. 289-290.

[18]   Autobiografia intellettuale, in De senectute , cit., p. 140.

[19]   Un invito a Croce, in “Rivista di filosofia” 52, (n. 3, luglio 1961), p. 354-360

[20]   Carlo Violi, Norberto Bobbio: 50 anni di studi. Bibliografia degli scritti 1934-1983, Franco Angeli, Milano, 1984. Le parole di Bobbio citate sono nella Prefazione da lui scritta per questo libro, e poi ristampata in De senectute, cit., pp. 81-93.

[21]   Ho usato questa espressione nel descrivere l'opera si può dire diuturna di Bobbio nel “vigilare” e “presidiare” problemi, dibattiti, drammi, derive culturali e politiche  presenti nella vita italiana del suo tempo (cfr. Franco Manni, I presupposti filosofici nell'opera di Norberto Bobbio, “Studium”, 3/1989, (pp. 315-339), p.316.

[22]   Nota espressione usata da Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere.

[23]   Italia civile, cit, pp. 69-93.

[24]   Una rara amicizia, cit.

[25]   Ibidem.

[26]   Ibidem.

[27]   Ibidem.

[28]   Maestri e compagni, cit., pp. 174-178.

[29]   Torino, 31 gennaio 1998

[30]   Torino, 15/09/2000

[31]   “quanto al laticlavio, come pomposamente si diceva una volta, non mi si addice, e lo porterò (e sopporterò) molto male”:  lettera a me, Cervinia 17 agosto 1984.

[32]   Croce, Taccuini di guerra, Adelphi, Milano, 2004, pp. 33, 49, 99, 165. E una volta Bobbio mi scriveva (Torino, 25/11/1989): “ ho il morale bassissimo. Penso alle belle pagine di Croce, Solitudine di un vecchio filosofo [credo intendesse Soliloquio di un vecchio filosofo, in Discorsi di varia filosofia, vol. I]. Ma cosa è oggi la solitudine?”

[33]   Croce maestro di vita morale,cit., p. 37.

[34]   Maestri e compagni, cit., pp. 176, 294

[35]   Italia civile, cit., p. 78.

[36]   A me che avrei voluto scrivere uno studio complessivo su Croce e non mi attirava il suo consiglio di scrivere invece uno studio particolare sui rapporti tra Augusto Del Noce e Croce, scrisse  (Torino, 6/1/1997): “Qui sono forse più crociano di te. Croce invitava sempre i giovani studiosi ad affrontare problemi ben delimitati”.

[37]   Italia civile, cit, p. 86. Ho cercato di illustrare con un esempio concreto il “distingue frequenter!” nello stile di scrittura di Bobbio nel mio I presupposti filosofici nell'opera di Norberto Bobbio, “Studium”, 3/1989 (pp. 315-339), p. 317 e nota 22 a p. 336.

[38]   Ibidem, pp. 74, 76.

[39]   In una lettera a me (Breuil-Cervinia, 11/08/1991): “non traggo nessun conforto dalla religione. Anzi, mi pare di svilirla considerandola un genere di conforto”

[40]   Vedi le relative citazioni dai suoi testi nelle sezioni Religione ed etica laica e Secolarizzazione del  mio citato I presupposti filosofici ecc., pp. 328-333.

[41]   Croce maestro di vita morale, cit., p. 43.

[42]   Lettera  a me (Torino, 6/1/1997). A me invece tale stile crociano piaceva, e avevo scritto un saggio sulle polemiche di Croce contro gli psicologi positivisti Filippo Masci e Giuseppe Di Sarlo (Benedetto Croce e la controversia sullo psicologismo, cit.)

[43]   Lettera a me (Torino, 15/9/2000)

[44]   Anzi già da prima e in maniera anche calunniosa. Si legga la vicenda narrata da Croce stesso delle calunnie pubbliche (e  pubbliche e quasi coatte ritrattazioni) di Palmiro Togliatti che lo accusava di essere “collaborazionista” del regime fascista in Taccuini di guerra, cit., pp. 162-163, 258, 402-404. Sulla pedina di tale episodio, un certo Aldo Romano, si veda quanto scrive Eugenio Di Rienzo nel suo Un dopoguerra storiografico...Due, tre cose che so di lui, in “Nuova storia contemporanea”, 4/2006, e ora online su “Giornaledifilsoofia.net”; si vedano anche i vari studi di Giovanni Sedita.

[45]   Sulla difesa della autenticità e originalità della teoria liberale di Croce  - anche in risposta alle critiche di Bobbio - si veda Corrado Ocone, Benedetto Croce. Il liberalismo come concezione della vita, Rubettino, Soveria Mannelli, 2005, pp. 163-165..

[46]   Politica e cultura (nuova edizione a c. di Franco Sbarberi), Einaudi, Torino, 2005, pp. 186, 192, 200, 202

[47]   Croce maestro di vita morale, cit., p. 40.

[48]   Bobbio, Crocianesimo a Torino, cit.

[49]   Croce 590 volte, Marx 280 (anche se, attraverso il  frasema “fondatore della filosofia della prassi”,  molte di più), Lenin 32, Hegel 160, Engels 105, Sorel 125, Einaudi 61. Sulla influenza del liberalismo di Croce sulla filosofia politica di Gramsci rimando al mio Gramsci e il liberalismo, in AA. VV. (a c. di Franco Sbarberi), Teoria politica e società industriale, Bollati Boringhieri, Torino, 1988, pp. 128-148.

[50]   Da qui fino alla fine di questo paragrafo riporto con piccole modifiche alcuni brani del  paragrafo Benedetto Croce e Norberto Bobbio (pp. 18-26) della mia introduzione alla nuova edizione del libro di Bobbio, Liberalismo e democrazia, Simonelli Editore, Milano, 2004, nuova edizione da me promossa e curata.

[51]                 Questa vicenda è stata sempre conosciuta da pochi e oramai da pochissimi. È vero che recentemente sono stati pubblicati  i suoi Taccuini di Guerra 1943-1945, cit.,  che mostrano in grande dettaglio questa cosa stupefacente : che uno studioso, malvolentieri e solo per dovere civico, si trovasse – con concreti risultati -  al centro della politica di uno Stato non piccolo, e – cosa ancora più stupefacente soprattutto nei nostro lidi – con una modestia e con un disinteresse personale assoluti. Però tali Taccuini, almeno fino ad ora, sono praticamente stati ignorati dal nostro dibattito culturale e non hanno affatto cominciato ad entrare nel “canone” condiviso della nostra memoria collettiva, né tra le persone di media cultura né tra gli intellettuali.

[52]                 su Croce di David D. Roberts : Benedetto Croce and the Uses of Historicism, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 1987 ; e anche  Nothing But History: Reconstruction and Extremity After Metaphysics, University of California Press,  Berkeley and Los Angeles, 1995.

[53]                 Bobbio, torinese (1909-2004), ha avuto un lungo magistero diretto verso gli studenti universitari come docente prima di filosofia del diritto e poi di filosofia della politica. E ha avuto un ancor più lungo magistero indiretto come scrittore di libri, saggi per riviste, articoli e interviste per quotidiani. Le sue opere sono state tradotte in 19 lingue. Un gruppetto di studiosi estimatori ed amici, gravitante presso il Centro Studi Piero Gobetti di Torino, ha  realizzato un’iniziativa unica nel suo genere : con criteri moderni e sofisticati ha catalogato i circa 1500 scritti di Bobbio (5000 contando le varie edizioni e traduzioni) depositati presso il Centro e ha messo tale catalogo su internet, con la maggioranza dei testi scannerizzati e online, disponibili facilmente e liberamente a una comunità veramente aperta di studiosi di tutto il mondo.

[54]                 Così come anche Karl Popper scriveva l’epigrafe al suo libro scritto durante la Seconda Guerra Mondiale (Miseria dello storicismo (1944), Feltrinelli, Milano, 1997, p. 13) : “In memoria degli innumerevoli uomini, donne e bambini di tutte le credenze, nazioni e razze che caddero vittime della fede fascista e comunista nelle Inesorabili Leggi del Destino Storico”.

[55]                 Uno scritto di Bobbio che riepiloga con grande chiarezza i termini teorici del rapporto del suo liberalismo col fascismo da una parte  e il comunismo dall’altra è Augusto del Noce : fascismo, liberalismo, comunismo (“Il Ponte” anno XLIX, n° 6, giugno 1993, ora ristampato nel volume Cinquant’anni non bastano. Scritti di Norberto Bobbio sulla rivista “Il Ponte” 1946-1997, Fondazione Monte dei Paschi di Siena,  - Il Ponte Editore, Firenze, 2005, pp. 233-244.).

[56]                 B. Croce, Taccuini, cit, p. 350

[57]                 “Credo Che un’economia competitiva sia più efficiente di un’economia pianificata, ma non ho mia creduto che questo fosse un argomento decisivo contro la pianificazione centrale dell’economia : se una tale pianificazione potesse produrre una società più libera e umana o anche solo una società che fosse più giusta di una società competitiva, la patrocinerei anche se la pianificazione fosse meno efficiente della competizione. È mia opinione, infatti, che dovremmo esser pronti a pagare un alto prezzo per la libertà” , Karl Popper, Miseria dello storicismo, cit., p. 9. Su questa concordanza tra Croce e Bobbio sulla compatibilità tra liberalismo e socialismo vedi: Tommaso Greco, Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale  tra filosofia e politica, Donzelli, Roma 2000, p. 128.

[58]                 Benedetto Croce, Storia d’Europa (1932), Laterza, Bari, 1981, p. 32

[59]                 Il filosofo e i comunisti (intervista di Franco Manni a Norberto Bobbio), “Diario”, 4 Maggio 2001, p. 27. Vedi anche di Bobbio, Eguaglianza e libertà, cit., pp. 30-41

[60]                 Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1995, p. 129

[61]                 Augusto Del Noce : fascismo, comunismo, liberalismo, cit, p. 238.

[62]                 Il filosofo e i comunisti, intervista di Franco Manni, cit.,  p. 26. E, quando io gli sottoposi un mio scritto (inedito) sull'auspicabile abbandono - da parte degli attuali partiti (o partitini) italiani sedicenti “comunisti” - delle eredità anti-liberali, almeno teoriche, se – invero – non pratiche, del marxismo-leninismo, lui mi scrisse (Torino, 16/8/2000): “[il tuo scritto] meriterebbe di essere ampiamente conosciuto. Non so che cosa si possa fare perchè se ne parli. A me è piaciuto moltissimo: è un progetto di estrema sinistra senza i soliti pregiudizi, fra i quali la necessità della violenza, l'antiamericanismo obbligatorio, il disprezzo della tradizione liberale dei diritti dell'uomo. È una difesa onesta e ben argomentata del comunismo storico. Non ha la pretesa di esser attuale, ben consapevole dello spirito pubblico degli italiani di oggi attratti da Berlusconi. Tu non commetti l'errore del Partito d'Azione, che si illuse di esser un partito come tutti gli altri e fu preso in giro dai realisti che gli attribuivano l'idea di volere tutto e subito. Tu parli correttamente di un partito di resistenza, come era stato all'inizio il Partito d'Azione durante gli ultimi anni del fascismo. Condivido più o meno tutto quello che dici. Ma dopo avere fatto l'amara esperienza del Partito d'Azione e del suo rapido fallimento, mi domando ora che cosa tu pensi si possa fare in pratica, per passare dall'idea all'azione /.../ A mio parere la discesa in campo di Bertinotti per far cadere il governo Prodi è stata disastrosa. Che cosa possiate fare ora, di fronte alla debolezza dei DS e all'alleanza di Berlusconi con la peggiore destra, non lo so. Non tento neppure di fare qualche previsione su come finirà questa brutta storia. Ti ripeto, però, che le tue idee per un nuovo comunismo mi sono parse originali, intelligenti e degne di essere discusse, in mezzo a tante banalità e ai sempre nuovi e sempre uguali programmi per la 'nuova sinistra', che lasciano il tempo che trovano”.

                        Dal canto mio vidi allora e qui ricordo che quel mio scritto fu ignorato da tutti, anche dalle persone a me amiche cui lo passai...

[63]                 Taccuini di guerra, cit, p. 403

[64]                 Ibidem, p. 289

[65]                 Il filosofo e i comunisti, intervista di Franco Manni, cit, pp. 26-27

[66]   Croce e la politica della cultura, in Politica e cultura, cit., pp. 78-79.

[67]   Una rara amicizia, cit.

[68]   Crocianesimo a Torino, cit. Sul carattere culturale  e morale e  non politico strictu sensu della “rivoluzione liberale” gobettiana e del suo antifascismo, mi permetto di rimandare alle sezioni Libertà religiosa come religione della libertà, Rivoluzione liberale come riforma religiosa e Metodi catartici IV: antifascismo senza eroi del mio libro Laicità e religione in Piero Gobetti, con  prefazione di Norberto Bobbio, Franco Angeli, Milano, 1986; e per il rapporto specificamente filosofico di Gobetti con Croce alla sezione Tra pragmatismo gentiliano e storicismo crociano del  mio articolo Gobetti e la filosofia, in Piero Gobetti et la culture des années 20 (sous la direction de Michel Cassac), Université de Nice Sophia Antipolis, Nice, 1999

[69]   Croce oppositore, in Profilo ideologico del Novecento italiano, Einaudi, Torino, 1986, p. 141.

[70]   Un altro coinvolgente – e più recente - racconto di questa fase della vita e dell'opera di Croce è nel capitolo La religione della libertà del libro di Maurizio Viroli, Come se Dio ci fosse. Religione e libertà nella storia d'Italia, Einaudi, Torino, 2009, pp. 279-293

[71]   Ho scelto Croce, “Tuttolibri” anno 15°, n. 570, sabato 23 settembre 1989, p. 5.

[72]   Il chierico che non tradì, in  Il Quotidiano della Basilicata”, 10/01/2004, p. 1

[73]   Crocianesimo a Torino, cit.

[74]   Il clima culturale e politico nell'età dell'idealismo italiano, in “Terzo programma” -  Nel centenario della nascita di Benedetto Croce, n. 2, RAI, Torino, 1966, pp. 7-14. 

[75]   In Italia civile, cit., pp. 71-77

[76]   Ibidem, p. 78. Il saggio indicato si trova in: Croce, Teoria e storia della storiografia, Adelphi, Milano, 2001, pp. 167-181.

[77]   Ho scelto Croce, cit.

[78]   Ibidem.

[79]   Franco Manni, Emanuele Severino: medium e messaggio, “Quaderni piacentini”,12,  nuova serie - 1984, pp. 145-165.

[80]   Lettera a me (Cervinia, 17/08/1984)

[81]   Lettera  a me (Torino, 30/09/1984)

[82]   Perchè Bobbio stimava alcuni (non tutti) positivisti: Profilo ideologico, cit., p. 183, e Prefazione a AA. VV., Il positivismo nella cultura italiana, Franco Angeli, Milano, 1985, pp. 11-14.

[83]   Profilo ideologico, cit., p. 75.

[84]   Maestri e compagni, cit., pp. 21, 27.

[85]   L'ideologia del fascismo, in AA. VV., 1945, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 52.

[86]   Riflessioni di un ottuagenario (1989), in  De senectute, cit., p. 118.

[87]   Lettera a me (Senato della repubblica, 4/9/1988). Sofia Vanni Rovighi, pochi anni prima (1984), così si era espressa: “quale filosofia mi è ripugnante? Nietzsche! In cui vedo l'esaltazione dei valori vitali, dei valori dell'animalità umana /.../ non perchè i valori vitali non siano valori, ma se si mettono al grado supremo e si esaltano in modo assoluto si arriva alla più terribile negazione dell'umanità dell'uomo: 'die blonden Bestien'.”, Un colloquio, cit., p. 48.

[88]     Heidegger diede precise disposizioni testamentarie affinché i propri inediti fossero pubblicati postumi a cadenze regolari, al fine di far continuare a parlare di sé, infesto “Spettro Seriale” della cultura! (apprendo da Enrico Berti nel suo Una metafisica problematica e dialettica, in Aa. Vv., Metafisica. Il mondo nascosto, Laterza, Bari, 1997, p. 45.

[89]   Nel mio piccolo, in effetti, come insegnante e come cittadino e come amico e come uomo è contro tale irrazionalismo contro cui combatto soprattutto ora e da anni; anche ed ancora - ma meno di prima -  contro la mentalità neopositivista. Come scrittore il mio contributo principale a tale lotta è Lettera a un amico della Terra di Mezzo. Guida personale di etica filosofica sulle tracce di Aristotele, Freud e Croce passando per Tolkien (con nota introduttiva di Norberto Bobbio), Simonelli, Milano, 2006.

[90]   Un invito a Croce, cit.

[91]   Cultura e vita morale (1931), Conversazioni critiche serie terza (1931), Storia d'Europa nel secolo XIX (1932), La storia come pensiero e come azione (1938), Filosofia e storiografia (1949), Indagini sullo Hegel (1952).

[92]   Rimando al mio studio su queste riflessioni crociane: La critica di Benedetto Croce al “sistema romantico”, in “Humanitas”, 1/1990, pp. 33-58.

[93]   Risposte a Domande sull'erotismo,”Nuovi Argomenti”, nn. 51-52, luglio 1961, pp. 13, 15-17.

[94]    Laici e aborto, intervista a cura di Giulio Nascimbeni, “Corriere della Sera”, venerdì 8 maggio 1981, p. 3.

[95]    Arduo il dialogo con gli studenti, “Resistenza”,  n. 6 (giugno 1968), pp. 5-9; e poi – assai più duri - gli articoli su “Resistenza” dell'aprile e maggio 1969, di cui Bobbio dà resoconto nella Postfazione alla edizione in volume (dilazionata di quasi vent'anni dall'Einaudi!) del suo  Profilo ideologico del Novecento italiano (cit., pp. 179-183) che aveva scritto proprio nel 1968

[96]    Pro e contro un'etica laica, in Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea d'Ombra, Milano,1994, pp. 167-185.

[97]   Taccuini IV, 172-176 citato in: Gennaro Sasso, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Il Mulino, Bologna, 1989, pp. 168-169. Ma cinque giorni più tardi Croce scriveva nella stessa pagina la seguente aggiunta: “questo che ho scritto è ciò che sento, ma non è tutto ciò che sento, perchè sento anche la vergogna di lamentarmi del mio stato quando penso alla gente che soffre cose assai peggiori e non ha potuto svolgere le sue attitudini, ossia la propria vocazione nel mondo, o l'ha vista spezzata e soffocata. E viene poi, di volta in volta, la riscossa dello spirito bellicoso, e il sentimento che bisogna combattere e andare avanti, che c'è sempre qualcosa di buono da fare, e che questo è il solo senso della vita umana”.

[98]   Benedetto Croce, in “Occidente”, cit.

[99]   Il clima culturale ecc., cit.

[100]    Bilancio di un convegno, in AA. VV. La cultura filosofica italiana dal 1945 al 1980 (atti del convegno di Anacapri, giugno 1981), Guida Editori, Napoli, 1982, pp. 331, 337-338.

[101]    Lettera  a me (Senato della repubblica, 27/5/1990)

[102]    Un maestro di questo secolo, cit.

[103]    Bilancio di un convegno, cit., pp. 334-335. Mi viene in mente quanto di simile scrive Gennaro Sasso sulla “liquidazione” di Croce (Per invigilare ecc., cit., p. 294): “l'allargamento delle conoscenze filosofiche /../ condusse non già a un ampliamento dell'autocoscienza culturale, ma, per lo più, alla sostituzione di una filosofia ad un'altra, in una vicenda nel corso della quale, da quello di Russell agli altri, di Wittgenstein, di Carnap, di Husserl, di Sartre, di Merlau-Ponty, di Nietzsche, molti volti filosofici comparvero, scomparvero, ricomparvero per poi sparire dal nostro orizzonte, che non era  in effetti capace di trattenere ciò che pure in qualche modo sapeva, via via, accogliere, ed appare perciò, a chi lo osservi, superaffollato, eppure, in conclusione, terribilmente vuoto. Sarà così anche per Martin Heidegger, che da qualche anno tiene il campo...”.

[104]    cit.,  p. 183.

[105]    Maestri e compagni, cit., p. 181.

[106]     Il nostro Croce, in AA. VV. (a c. di Ciliberto e Vasoli),  Filosofia e cultura : per Eugenio Garin, Editori Riuniti, Roma, 1991, vol. 2, pp. 789-805.

[107]    Ibidem.

[108]     Su queste due tradizioni pro-machiavellica e anti-machiavellica che - negli intellettuali italiani del XIX e XX secolo -  sono trasversali tra destra e sinistra, rimando al mio studio I presupposti filosofici ne “La vita italiana” di Preziosi (in AA.VV,  Giovanni Preziosi e la cultura della razza , Rubbettino editore, 2005) e specificamente alla sezione Plutarco, Machiavelli, Mazzini.

[109]     Marcello Dell'Utri nel cinquantenario della morte di Croce ha ristampato in mille esemplari fuori commercio (con un'interessante prefazione di Enzo Bettiza) Quando l'Italia era tagliata in due.

[110]     Etica e politica. Scritti di impegno civile, a c. di Marco Revelli, Mondadori, 2009, pp. 1853.

[111]    Teoria generale della politica, a c. di Michelangelo Bovero, Einaudi, Torino, 1999, pp. 683.

[112]     A cura di Paola Agosti e Marco Revelli, Nino Aragno Editore, Torino, 2009, pp. 224.

[113]     “Il corriere della sera”, 13 gennaio 2004, p. 39.

[114]      Italia civile, cit., p. 92.

[115]      Il clima culturale ecc, cit.

[116]      Un invito a Croce, cit.

[117]      Postfazione a Profilo ideologico, cit, p. 179

[118]      Profilo ideologico, cit., p. 183.

 

 

 

 

INDICE

 paragrafo 1

 paragrafo 2

 paragrafo 3

 paragrafo 4

 paragrafo 5

 paragrafo 6

 paragrafo 7

 paragrafo 8

 

 

For the truth's sake

 

As I wrote at the beginning of the essay "Norberto Bobbio e Benedetto Croce" (in Benedetto Croce. Teoria e Orizzonti, edited by Ivan Pozzoni, Limina Mentis, Milano 2010, pp. 229 – 279) my intellectual life was marked in an indelible way - already as a high school student in the Seventies - by the encounter with the thought of Benedetto Croce. That encounter was by no means taken for granted because, even at that time, Croce (who had died twenty-five years before) did not enjoy the great prestige he had had in his life. The enormous influence, not only cultural but also political, of his work, had long been fiercely ignored, hidden or distorted and misrepresented especially by Marxist thinkers.

For this reason I struggled a great deal to protect my interest in his way of understanding philosophy during my studies at the Scuola Normale in Pisa, and also outside the university: very few people were interested in keeping his teachings alive, especially as regards the relationship between culture and moral life; even fewer - if possible - people ready to challenge the dominant Marxist culture to help and support those who were willing to do so.

It was precisely the interest in the history of the ideas I had learned from Croce that encouraged my research among the few heirs of his thought; and so it was that, in that cultural landscape that seemed to me mostly desolate, I met Norberto Bobbio: if Croce was the most important Italian intellectual of the first half of the twentieth century, Bobbio - according to many including me - was the most important Italian intellectual of the second half of the century. With the latter I was fortunate enough to have a relationship of friendship and regular meetings accompanied by correspondence which lasted twenty years. Benedetto Croce was often the subject of our heartfelt conversations, because Bobbio attributed him a capital importance for his cultural and philosophical training and regretted that no one of his students had studied Croce.

That relationship, which I had meditated on for a long time, led me to address in the above mentioned essay the theme of the relationship between the thought of Croce and that of Bobbio. The central idea, the one that supported the whole structure of my work, was simple and new: Bobbio recognizes himself as a direct heir of Croce's philosophy and does so despite the right distinctions between the two, because for both of them 1) the moral instance that guides the forces of history is central, and it is the moral instance that must animate the work of the intellectual;2) the primacy of historical philosophy over all other philosophies is central; 3) the primacy of liberalism over all other political ideals is central.

For years I have endured not only the marginalization of Croce's thought by the long line of self-styled intellectuals, willing to do anything to deny the centrality of moral demands in their profession; I have endured for years the fact that those same intellectuals belittled or concealed Croce's strong philosophical influence on Bobbio. And I personally paid for it, on several occasions. After Bobbio's death I witnessed the dismay of the publication of substantial anthologies of his texts from which were removed with method his pronouncements more clear and useful to allow the reconstruction of the important intellectual magisterium of Croce on him. In congresses, conferences, collective works and monographs the existence of that vital cultural thread has been denied or ridiculed; my studies were ignored, and, when once (just once) my name has been made, this has happened to make fun at my central thesis and dismiss me as a ‘young scholar’ (actually I was 57!)., as it happened in the conference "Croce e il Piemonte" in 2016 [http://www.radioradicale.it/scheda/466789/benedetto-croce-e-il-piemonte] .

The very same had happened 4 years before, in 2006, when I (thank to Andrea Bobbio’s help) re-published Norberto Bobbio’s Liberalismo e Democrazia (Simonelli, Milano, 2006) : there I had put a substantial introduction where I presented the strict and unique relationship between Bobbio and Croce. Even then no Italian scholar mentioned this new publication, not even once. And it was and still is popular , with three reprints!

All this has happened for a long time over time, in a damnatio memoriae on which it is worth reflecting.on the first rank

One thing at least made me happy: the opposite response from the global network. On the Internet, my study gathered such widespread and lasting attention that it resulted in a Google search for key words Norberto Bobbio Benedetto Croce – ranked in first position in the world. This thing perhaps showed that apart from the explicit statements of the Italian Marxist scholars, there had been the attribution of a certain quality, of a certain importance to my study.

Anyone reading can now imagine my pain when, a few months ago, I became aware of the existence of a study by Alessio Panichi written in 2016, therefore six years after my study, and entitled "Né con gli apologeti né con i detrattori: Norberto Bobbio lettore ed interprete di Benedetto Croce", which takes up the basic thesis of my essay without ever quoting it: not once, and not even in note. In Italy someone has also spent words of praise for Panichi’s work, which is credited with having highlighted something that previously - apparently - did not exist. And it didn't exist because they didn't want it to exist by means of the so-called conspiracy of silence.

I find it disheartening that a university researcher has managed to complete a study on the subject of which nothing had been written, in Italy and in the world. And he did so without making any reference to a six-year-old essay that deals with this very subject, provides a large number of textual evidence, and has a title more than eloquent. The text of that essay is still available in paper form, as a chapter of a book dedicated to Benedetto Croce, and - much more easily - in digital format, starting a simple search on Google through the words: Norberto Bobbio Benedetto Croce (which are not common names, but are proper names and, therefore, indifferent to translations into other languages). Try yourself!

Moreover, in 2010 I also published a shortened version of the same essay in one of the most important Italian cultural magazines of the time, Reset (issue 118, 31 March, 2010): 'Il Croce di Norberto Bobbio'. This short version (which, in the last paragraph, explicitly refers to the long one) is present and available and downloadable online in the online archive of the Centro Studi Piero Gobetti which, at least as an intention, collects all the writings of Bobbio and all the writings on Bobbio, and which, in any case, is the largest worldwide archive for studies on Norberto Bobbio.

Here it is: http://www.erasmo.it/gobetti/subobbio/valentine/1001.pdf

How is it possible that all this has happened?

As for the behaviour of Alessio Panichi the cause is moral: a great intellectual dishonesty, unfortunately widespread in the academic world, especially in Italy.

As for the conspiracy of silence about my research and publications of 2010, the cause is historical and political, and I invite you to read it in my essay in question, which is a historical essay, of cultural and political history, and explains the reasons of such a damnatio memoriae.

I put below a prospectus whereby it is possible to make a direct comparison between the ideas and words contained in my article (2010) and those contained in the article by Alessio Panichi (2016).

See Annexed Prospectus with Synoptical Comparison

 

 

 

 

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