Enzo Giammancheri

La storia come dramma e mistero dell'uomo

 

Omelia per la Messa d'oro di mons. Luigi Fossati

Parrocchia di S. Nazaro e Celso, Brescia 24 novembre 1974

 


"La Chiesa, celebrando Cristo col titolo di re, conclude oggi l'anno liturgico. Tale conclusione e i testi della liturgia, se ben considerati, offrono a noi l'occasione per riflettere sul tema della storia. Il problema della storia è centrale nella cultura e nella sensibilità d'oggi. Si può anzi affermare che il problema caratterizza la mentalità e la cultura dell'uomo contemporaneo. Siamo eredi di una tradizione culturale che via via ha scoperto ed approfondito la storicità dell'esistenza umana, che ha cercato cioè di determinare che cosa significhi per l'uomo essere nel tempo, in che cosa consista la temporalità dell'essere umano.
Nell'approfondimento del problema sono state avanzate diverse ipotesi di risposta e tentate diverse soluzioni. Un'ipotesi, forse quella oggi dominante, è che la storia sia guidata e resa profondamente intelligibile dal principio del progresso. Tutto ciò che avviene nel tempo avverrebbe sempre obbedendo alla legge del meglio. Nonostante le apparenze, nonostante gli scacchi, la storia umana avanzerebbe verso tappe migliori delle precedenti. L'oggi varrebbe più di ieri; il domani sarà sicuramente migliore dell'oggi. Non sarebbe difficile, se fosse opportuno in quésta circostanza, ritrovare le radici culturali di tale ipotesi di soluzione del problema della storia, radici culturali che non sono affatto estirpate, ma caratterizzano la massima parte della mentalità e della cultura del nostro tempo. Nonostante alcuni orientamenti di un nuovo storicismo, nonostante alcune proposte estremamente raffinate di negazione della storia che vengono dalle correnti strutturaliste, la storia infatti viene solitamente concepita come progresso.
Accanto a questa visione ottimista della storia umana, ve n'è un altra secondo la quale la storia (lungi dall'essere progresso, avanzamento ogni giorno verso il meglio, sicuro fluire di generazioni verso un traguardo di perfezione guidato da una legge utopica che pone nella "società futura" il "paradiso terrestre" finalmente realizzato) la storia sarebbe la registrazione del regresso dell'umanità. Secondo questa interpretazione, l'uomo non soltanto non avanza, non migliora, non progredisce, ma continuamente decade.
Coloro che sostengono una tale interpretazione della storia la giustificano con diverse motivazioni. Per alcuni tutta la storia dell'Occidente, a partire da quando l'intelligenza umana intuì i supremi principi della realtà, altro non sarebbe che una decadenza, un lungo cammino sul "sentiero della notte", e l'attuale società tecnologica non sarebbe che la conclusione ultima di quel processo di nullificazione o nichilismo che costituisce la registrazione più completa dello scacco dell'umanità dell'Occidente, ch'ebbe origine con la perdita del senso dell'essere a vantaggio del senso del fare. Ne sarebbero prove, fatti evidenti come il dramma ecologico che l'umanità sta vivendo, l'illusione prodotta dalle "magnifiche sorti e progressive"alla quale subentra la registrazione dell'impossibilità per l'uomo di dare vita ad una convivenza degna dell'uomo stesso.
Con le due precedenti ipotesi o proposte di soluzione ne è stata sostenuta una terza. Quando Croce (mi sia concesso citarlo anche se nel corso di una celebrazione liturgica) pubblicò la seconda edizione del suo libro sulla storia d'Europa nel secolo XIX e teorizzò in esso il principio della religione della libertà, uno studioso cattolico, Aldo Ferrabino, gli obiettò di avere proposto un'interpretazione deformante, perché la storia, se non è regresso, non è nemmeno progresso o utopia. Nessuna legge garantisce il progresso dell'uomo. Non è scritto da nessuna parte che la storia dell'umanità sia un continuo avanzamento per il meglio. Quello studioso, polemizzando con Croce, sostenne che la storia si rivela come dramma. Né progresso né regresso, ma dramma, perché l'uomo conosce sì avanzamenti ma anche arretramenti, perché celebra la libertà ma cade nella schiavitù, perché pensa di aver vinto la guerra e ne moltiplica a dismisura, perché accanto ad alcuni spazi di autentica liberazione, moltiplica quelli dell'oppressione, dell'ingiustizia, dell'alienazione, perché ad un successo conseguito corrisponde quasi sempre uno e forse più insuccessi.
Se sia o no cristiana questa impostazione della storia, non è il momento di discuterlo. Personalmente ritengo di si. Dire che la storia è dramma non significa negare o diminuire i successi ottenuti. Significa che in essa l'uomo è sempre in una condizione di rischio, potendo vanificare ciò che ha costruito e, soprattutto, potendo perdere il significato di ciò che ha fatto e fa. Ma per la concezione cristiana la storia non è soltanto dramma, è anche "mistero". Non è fuori di luogo ricordare che in questa festa di Cristo Re, la Chiesa ha scelto come brano evangelico da leggere nella liturgia la narrazione del supremo momento della vita di Cristo. Colui che oggi la Chiesa onora col titolo di Re viene presentato sul trono della croce, là dove il Cristo appare il vinto, lo sconfitto, là dove nulla può sostenere l'idea che quell'uomo avrebbe significato l'inizio di un movimento destinato ad attraversare i millenni. Ma che cos'è il trono della croce, il fatto stesso della passione di Cristo, se non la prova che la storia umana è dramma e mistero?
Viene logica per noi, in questa prospettiva, una domanda decisiva: se la storia umana è dramma, che cosa il cristiano, oggi, con la coscienza chiara della drammaticità dell'esistenza, deve sentirsi interpellato ad assicurare, perché nel dramma non vada perduto o resti ignorato il significato profondo di quanto avviene? Che cosa c'è di cristiano che deve essere assicurato, così che se il cristiano non lo assicura, l'umanità sicuramente rimane più povera e più insicura?
Si discute molto oggi, sia in sede scientifica sia in sede operativa, su ciò che v'è di specifico nel cristianesimo. Si cerca cioè di determinare che cosa possa e debba distinguere il cristiano in quanto cristiano.
Non sono in pochi in verità, anche tra i credenti, coloro che considerano mistificante la ricerca di uno "specifico cristiano", perché ritengono che il cristiano non deve in nulla distinguersi da chi non lo è: uomo è, uomo deve rimanere, uguale a tutti gli altri, condividendo con tutti gli altri uomini quello che appunto chiamano il dramma della storia. Se si vuole determinare qualcosa di specifico nel cristiano, dovrebbe essere fissato soltanto nell'essere autenticamente uomo.
A me non sembra che tale impostazione abbia valore. Il problema è però aperto ed è decisivo.
Lo "specifico cristiano" non può più oggi, nel giudizio di molti, essere cercato nella direzione della sacralità. Il "sacro" è in crisi, si va da tempo ripetendo, perché non ha più la capacità di significazione di un tempo. Se è vero che questo tempio, luogo sacro, che oggi ci accoglie, rigurgita di persone, di suoni, di canti, di preghiere, intorno ad una persona da noi tanto amata, è altrettanto vero che questo tempio, come tutti gli altri della cristianità, è frequentemente vuoto, lontano dai nostri interessi. Come è altrettanto vero che il tempio in quanto tale ha perduto la capacità di significazione anche per numerose coscienze che pure ebbero un'educazione cristiana. Non il sacro, quindi, sembra oggi costituire lo specifico per il cristiano. La constatazione può produrre preoccupazione, perché al sacro noi affidiamo da secoli la testimonianza del cristianesimo stesso. Anche in questo caso si rivela la drammaticità della storia, che produce la provvisorietà e l'ambiguità di tutte le scelte che un cristiano può fare per essere tale nel mondo. Forse che la caratteristica del cristiano deve essere cercata nel "bene", cioè nell'ambito della vita morale, dal momento che il bene costituisce il fine della moralità? Anche su questo punto oggi vi è larga incertezza. Alcune scuole filosofiche hanno seminato a piene mani il sospetto intorno al problema morale. Un filosofo francese, Paul Ricoeur, proprio analizzando l'opera d'uno dei maestri del pensiero contemporaneo, Sigmund Freud, ha coniato l'espressione "scuola del sospetto". Cosa si trova dietro alle cosiddette norme morali? È una domanda che può sembrare provocatoria, ma che tocca la radice. Abbiamo sempre pensato che ci fosse l'assolutezza dell'imperativo divino. Orbene, buona parte della cultura d'oggi afferma che, negando o mettendo tra parentesi il problema dell'assolutezza dell'imperativo divino, la norma morale può essere spiegata o come prodotto sovrastrutturale di determinati rapporti di produzione, o come impostazione ideologica della classe egemone e al potere, o come stratificazione di natura sociologica di pratiche e di costumi, ed è in questo senso che intende operare la rivoluzione della morale.
Difficilmente, dunque, restando nell'ambito della morale riusciremmo a precisare con sicurezza ciò che è specifico del cristiano e nel cristiano.
Forse che dobbiamo cercarlo lungo la via dell'"ascetica"? Secondo un immagine costruita da una prassi secolare, cristiano sarebbe colui che rinuncia, che si impone una severa, rigorosa disciplina di vita, che veramente cerca di realizzare il pieno dominio di sé pagandolo con la mortificazione (come un tempo non lontano si diceva) dei nostri istinti e delle nostre passioni, che vuole rischiarare con la ragione e la volontà il "lato notturno" dell'esistenza. Anche intorno all'ascetica, però, si stanno diffondendo molti sospetti. Anche in ambienti cristiani l'ascetica viene giudicata spesso l'espressione di un modo di concepire il cristianesimo che nei secoli non avrebbe prodotto del bene perché avrebbe ispirato la "fuga" del cristiano dal mondo anziché il suo "impegno" in esso. Quel non accettare fino in fondo la condizione umana, cercando un rifugio in alcune tecniche e pratiche di mortificazione, spiegherebbe l'idea così diffusa dei cristiano come "persona diversa
Forse che lo "specifico cristiano" dobbiamo cercarlo nello "spirituale"?. Proprio un anno fa, in una riunione di cristiani, venne affermato, anzi teorizzato, che è finita l'epoca del preteso primato dello spirituale sul temporale, che anzi bisogna sostenere il primato dei temporale sullo spirituale, rovesciando l'asse di una riflessione millenaria, se si vuole evitare che una pretesa ricerca dello spirituale finisca col generare l'alienazione dell'uomo oltre che la deformazione del cristianesimo.
È difficile quindi, nella crisi della cultura, che è poi espressione del dramma della storia come noi oggi lo stiamo vivendo, individuare che cosa c'è di specifico nel cristiano. Orbene, senza prolungare oltre la nostra riflessione, potremmo pensare, prendendone tema da quanto la liturgia della Chiesa oggi insegna, che la specificità del cristiano se non è più vista nel sacro, o nel morale, o nell'ascetico, o nello spirituale, va ancora e sempre cercata nel "santo".
E la santità che forma, cioè costituisce il cristiano. In questo senso la Chiesa cattolica, riflettendo sul proprio essere e fine, durante il Concilio di dieci anni fa, ha definito se stessa come "popolo di Dio" caratterizzato da una "universale vocazione" alla santità.
Intendiamoci un poco su questo. La santità non è sinonimo di perfezione, semmai è desiderio, tendenza alla perfezione. La santità non significa astrazione dalle nostre condizioni umane, non vuoi dire raggiungere lo stato di non più peccare. In questo senso Cristo solo fu santo, e in un senso precisato dal dogma la Sua Madre venerata. Tutti noi, dunque siamo, anche se desiderosi di santità, rimaniamo uomini, e come tali fallibili, soprattutto vittime di quella radice di tutti i mali che è l'egoismo. Cos'è allora questa santità? Mi permetto di descriverla ricorrendo a termini oggi correnti nel linguaggio, e io faccio proprio perché con il linguaggio bisogna fare i conti anche (forse soprattutto) in questi problemi. Uno dei problemi più gravi, all'interno della sua vicenda storica, lo sta vivendo la Chiesa cattolica nella presa di coscienza che il linguaggio da lei usato non significa più niente per molti, e comunque significa sempre meno per tanti. Nel dramma della storia il cristiano riscopre che la santità è l'unico linguaggio capace di essere inteso oggi, come ieri e come sempre. La santità quindi è nell'ordine dei "segni". Nella generale crisi della comunicazione umana la sola santità ci permette di comunicare agli altri il messaggio cristiano. La santità inoltre è"memoria". Tiene cioè desto, nel contesto storico in cui viviamo, il "ricordo" che esistono dimensioni dell'uomo e valori che possono realizzare fino in fondo l'autenticità dell'uomo.
Il santo è la "memoria di Dio" nella storia, è il segno della "presenza di Dio" nel tempo. Oggi, come cristiani, non siamo tanto chiamati a portare nel tempo o cultura, o organizzazione, o segni di sacralità; siamo tutti, come cristiani, qualunque sia la nostra condizione (e davanti a Dio siamo tutti veramente uguali) chiamati a testimoniare il nostro cristianesimo con la santità. Che cosa sia questa santità la riassumiamo nel gesto finale dei ladrone sulla croce accanto al Cristo che abbiamo poc'anzi sentito ricordare nell'evangelo: "Ricordati di me quando sarai nel tuo regno". "Oggi tu sarai con me in paradiso". La santità è il credere in Cristo, è prendere sul serio la sua parola, è seguirla contro ogni speranza, contro ogni nostra fallibilità ed eventuale nostro tradimento. Accettare, accogliere sul serio e veramente Cristo. Un teologo contemporaneo ha intitolato un suo libro Il caso serio, intendendo indicare la scelta che possiamo fare di Cristo nella nostra vita.
Questo mi sembra lo specifico cristiano nel dramma della società d'oggi, che è dramma di alternanze, conquiste e regressi, di prese di coscienza e di smarrimenti. Mai le scienze hanno proiettato sull'uomo tanta luce, mai l'uomo è stato cosi oscuro a se stesso come oggi. Mai abbiamo avuto davanti agli occhi l'utopia di realizzazioni di rapporti perfetti, mai come oggi cozziamo contro la "durezza del cuore", come si direbbe in termini biblici. Ecco, il senso profondo della presenza cristiana, così come testi liturgici della festa di Cristo Re, come la fine dell'anno liturgico ce la suggeriscono.
Ed è per noi significativo, vivificante, che abbiamo potuto riflettere sulla storia e il valore della presenza cristiana intorno ad una persona che oggi onoriamo, a cui esprimiamo il nostro sincero, devoto affetto. Chi vi parla è stato suo alunno, da lui ha imparato storia, da lui ha imparato che la storia è dramma, da lui ha imparato che il cristiano nella storia deve innanzitutto testimoniare, essere cioè "segno" e "memoria", deve cioè desiderare la santità. Come l'ha insegnato a me, alla mia generazione di preti, penso l'abbia insegnato ovunque nella vita, nello studio, nella disponibilità agli altri, nella vita ecclesiastica e civile, nella ricerca, talvolta difesa in forma strenua, della propria intimità, del proprio desiderio di meditazione e di silenzio. Riprendendo con lui la preghiera, mentre onoriamo Cristo come Re, chiediamo a Cristo di renderci cristiani"

Fonte: Franco Frassine, Mons. Luigi Fossati. La storia come dramma e mistero dell'uomo, Istituto di cultura "G. De Luca" per la storia del prete, Brescia 2007, pag. 276-282 (riprodotto col consenso dell'Autore)

 

 

 

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