Pierangela Martina

 

Aspetti teorici dell'aggressività

 

 

Capitolo 5

L'aggressività nelle teorie sociali di orientamento psicoanalitico

 

 

 

 

5.1. ASPETTI SOCIALI DEL COMPORTAMENTO AGGRESSIVO

5.2. ADORNO: LA "SINDROME AUTORITARIA"

5.3. FROMM : CARATTERE E SOCIETA'

5.4. HELLER: L'ANTROPOLOGIA SOCIALE MARXISTA

 

 

 

5.1. ASPETTI SOCIALI DEL COMPORTAMENTO AGGRESSIVO

Si può ritenere che il processo di socializzazione mobiliti continuamente impulsi aggressivi e, analogamente, indichi ed imponga i limiti dell'aggressività, poiché la società non potrebbe sopravvivere qualora la competizione fra gli individui fosse portata a conclusioni mortali. Dunque i soggetti che non imparano a controllare e a gestire la loro aggressività, vengono definiti antisociali, e, in quanto tali, dannosi allo sviluppo sociale.
Il limite oltre il quale l'aggressività diventa patologica sì può considerare puramente convenzionale, legato alla cultura delle diverse società.
L'aggressività diventa patologica quando sfocia nella violenza e nella distruttività, oppure anche quando procura ansia, oppure quando diventa l'unico rifugio contro la paura o l'insicurezza, oppure quando diventa un atteggiamento permanente, unica modalità di rapportarsi con noi stessi o con gli altri.
La persona che manifesta un'aggressività patologica è spesso descritta come ostinata, brontolona, polemica, autoritaria.
E' stato osservato nel 2° capitolo che anche la depressione può rappresentare una modalità di comportamento aggressivo, infatti nel depresso nevrotico esiste quasi sempre un sentimento ostile nei riguardi degli altri, con desideri dì punizione e di vendetta e con la tendenza egoistica a manipolare gli altri. L'aggressività può inoltre esprimersi attraverso numerose modalità che vanno dal comportamento arrogante, alla maldicenza, dalla satira al motto di spirito, dall'insulto all'ironia.
Dunque, ogni rapporto sociale è fortemente caratterizzato dalla presenza dell'aggressività e per questo motivo quest'ultima è stata oggetto di studio da parte di alcuni autori nell'ambito delle teorie sociali sia a livello sociologico, sia antropologico. Poiché il presente studio è finalizzato all'approfondimento degli aspetti teorici dell'aggressività da un punto di vista psicologico, si accennerà brevemente soltanto a quelle teorie sociologiche e filosofiche che possono contribuire ad un'adeguata comprensione e definizione del comportamento aggressivo.

5.2. ADORNO: LA "SINDROME AUTORITARIA"

All'interno della Scuola di Francoforte, il movimento nato negli anni '30, mirante a fondere la ricerca filosofica con quella psicologica e sociologica, si situa l'opera di Adorno e di altri collaboratori, intitolata La personalità autoritaria, scritta in base a ricerche condotte negli Stati Uniti, ma chiaramente influenzato dalle teorie di due pensatori, entrambi europei: S. Freud e K. Marx.
La crisi economica e l'aumento della disoccupazione di massa, crisi previste dal capitalismo, portavano ad un'intensificazione delle idee estremistiche di destra in seno alla piccola borghesia ed alla classe operaia. Anziché adottare idee rivoluzionarie, numerose persone erano attirate da un insieme di idee nazionali orientate verso il culto di un capo forte, la credenza nelle virtù di una razza dominante ed il disprezzo di tutte le razze considerate inferiori. Questa è la situazione che Adorno ed i suoi collaboratori avevano osservato nella Germania tra le due guerre.
Questi ricercatori dovettero però fuggire negli Stati Uniti quando Hitler arrivò al potere. Lì, avvalendosi anche della collaborazione di psicologi americani e delle più avanzate tecniche di ricerca,pubblicarono La personalità autoritaria, che divenne presto un classico della letteratura socio-psicologica.
La parte della ricerca curata da Adorno risente particolarmente delle influenze della psicoanalisi: egli riconduce i vari comportamenti, quali emergono dalle risposte ad una serie di questionari, ai rapporti preesistenti con le figure genitoriali. Sono dunque le disposizioni psicologiche individuali, i tratti del carattere formatisi nella famiglia d'origine che diventano oggetto d'osservazione e di interpretazione psicologica e non tanto i fenomeni politico-sociali nel loro complesso, visti come il risultato dì scelte politiche, sociali, religiose o di modelli di vita dell'individuo, che sono stati però indotte o "guidate" all'origine dal nucleo familiare.
L'andamento specificamente analitico della ricerca (metodo dei tests effettuati su 2099 soggetti di classe media) non ha portato alla formulazione di tesi psicologiche e sociologiche generali e quindi anche per quanto riguarda l'aggressività non è stata formulata alcuna teoria, ma si è giunti invece ad una tipizzazione dei soggetti in vari gruppi e ad una delineazione dei tratti del carattere presenti nella "sindrome autoritaria", cioè di quei tratti qualificati come patologici, che concorrono alla formazione del tipo autoritario.
Secondo Adorno, la "sindrome autoritaria" ha i caratteri di una marcata identificazione con un padre dominatore, potente e severo, nei confronti del quale il soggetto vive in atteggiamento passivo e di ammirazione, ma allo stesso tempo ne accoglie i tratti e assume nel rapporto con gli altri lo stesso atteggiamento aggressivo, violento ed autoritario dapprima subito. In termini psicoanalitici, questa sindrome implica una soluzione sado-masochistica del complesso edipico. Adorno scrive: "L'amore per la madre, nella sua forma primaria, cade sotto un severo tabù: l'odio che ne deriva contro il padre viene trasformato, attraverso una formazione reattiva, in amore". (1)
Quando in un individuo, per lo più un bambino, si verifica la necessità di trasformare l'odio in amore, si profila per lui uno dei compiti più ardui che possa assolvere nel suo sviluppo e questa trasformazione non riesce mai in modo completo e sempre genera un Super-Io dalle caratteristiche particolari.
Accade che una parte dell'aggressività precedente viene assorbita e trasformata in masochismo, mentre un'altra parte viene lasciata al sadismo, che va alla ricerca di uno sfogo in coloro con i quali l'individuo non si identifica. Si è visto, nella storia, come l'ebreo sia spesso diventato il sostituto del padre odiato e addirittura gli vengano attribuite le tanto criticate caratteristiche paterne, come il fatto di essere freddo, dominatore, troppo interessato alle cose pratiche e perfino rivale in amore.
Altra caratteristica della personalità autoritaria è quella di pensare per stereotipi, ciò significa che chi rientra in questo caso pensa alle altre persone servendosi dì stereotipi belve fatti, che ne descrivono il ruolo sociale o il gruppo etnico di appartenenza piuttosto che i caratteri individuali e particolari. Adorno e i suoi collaboratori si sono posti allora il problema di vedere se la maniera di pensare per stereotipi aveva radici profonde nella personalità dell'individuo soggetto a pregiudizi. Secondo le loro ipotesi questo stile cognitivo deriva da un'educazione molto rigida, importata da genitori anch'essi autoritari. Qualsiasi relazione troppo rigida è caratterizzata da una tendenza ambivalente dei sentimenti, i quali non sono mai netti, ma misti e spesso ambigui. La possibilità di riconoscere ed esprimere l'ambivalenza dei propri sentimenti è un problema per tutti, ma specialmente per i figli di genitori autoritari, i quali hanno bisogno di credere che i genitori sono totalmente buoni senza difetti. Allora questi sentimenti negativi vengono rimossi e tali rimangono anche nella vita adulta. Così i sentimenti positivi rimangono rivolti ai genitori, ma i sentimenti negativi e ostili si dirigono verso altri bersagli, per esempio contro i membri di altri gruppi etnici o individui considerati inferiori per diversi motivi. Queste esperienze precoci del bambino autoritario producono in questo modo uno stereotipo psicologico del bene ed uno stereotipo psicologico del male. Scrive Adorno: "La stereotipia, in questa sindrome, non è soltanto un mezzo di identificazione sociale, ma ha una vera e propria funzione "economica" nella psicologia del soggetto: essa contribuisce a incanalare la sua energia libidica secondo le richieste del suo super-ego eccessivamente rigido." (2) La dinamica psicologica della personalità autoritaria ricorre poi al meccanismo della repressione di tutti i desideri che generano vergogna e che vengono per questo negati e spostati negli altri. Così si creano gruppi esterni, lontani dal soggetto autoritario, aventi la funzione di capri espiatori che raccolgano i sentimenti negativi presenti negli individui portatori di pregiudizi, i quali si scaricano così del loro senso di colpa, essendosi liberati dei loro peccati.

5.3. FROMM: CARATTERE E SOCIETA'

Nello studio di Adorno e collaboratori è evidentemente chiara l'influenza delle teorie freudiane, così come nella stessa matrice psicoanalitica si inserisce l'opera di E. Fromm, proveniente dalla scuola di Francoforte e trasferitosi negli Stati Uniti durante il periodo nazista.
Egli si staccò poi dalle società psicoanalitiche ufficiali, rimproverando a Freud il fatto di aver sopravvalutato il ruolo della sessualità e del complesso di Edipo, nell'ambito di una soggiacente filosofia materialista e edonista. Inoltre Fromm giudica insufficiente l'attenzione rivolta da Freud alle componenti ambientali e sociali per la spiegazione dei fenomeni psicologici.
Come già riportato nel 3° capitolo, Fromm studia l'aggressività sia nei suoi aspetti individuali (pulsionali) che in quelli sociali. In Anatomia della distruttività umana [1973], egli si propone di confutare le tesi degli "istintivisti" ad esempio quella di Lorenz che reputa sempre innata l'aggressività e non opera una distinzione tra quella generata dal bisogno di sopravvivere e quella gratuita. Anche le tesi dei comportamentisti vengono criticate, in quanto essi sottovalutano le intenzioni, le motivazioni del comportamento limitandosi a leggere l'aggressività come una forma di reazione all'ambiente.
Secondo Fromm la tesi freudiana dell'aggressività, ampiamente trattata anche nell'appendice della sua opera, o meglio la teoria degli istinti elaborata da Freud, risente in particolare della concezione tradizionale secondo la quale esiste un "male" insito nella natura umana e secondo la quale la civilizzazione ha una funzione essenzialmente anti-istintuale. In questo modo le pulsioni fondamentali, sessualità e aggressività, vengono represse e trasformate, attraverso processi di sublimazione, in spinte verso i valori culturali, diventando così i fondamenti stessi della civiltà. Se la quantità di pulsioni represse è maggiore rispetto alla capacità di sublimazione dell'individuo, si instaura il meccanismo della nevrosi.
Secondo Fromm questa ipotesi interpretativa è essenzialmente statica ed egli sostiene che non è affatto possibile generalizzare fenomeni tipici della cultura in cui visse Freud e considerarli come forze eterne e immutabili, radicate nella biologia umana.
Dunque Fromm parte dal rifiuto del modello istintivistico e si apre maggiormente agli apporti della psicologia sociale.
Nella terza parte della sua opera Fromm distingue due tipi di aggressività: una positiva "benigna", reazione di difesa a situazioni di pericolo obiettivo, quindi utile sia all'uomo sia all'animale e programmata filogeneticamente; mentre l'altra è negativa, "maligna", distruttiva, non adattiva, propria solo dell'uomo e dannosa sia a chi la compie sia a chi la subisce.
Il primo tipo di aggressività consente all'individuo di far fronte ai pericoli che lo minacciano, mentre il secondo tipo si manifesta nella tortura, nel sadismo, nella crudeltà, nella violenza fine a se stessa.
La citata dichiarazione risente in particolare della ricerca etologica, anche se Fromm si mostra molto critico e polemico nei confronti di questo tipo di approccio.
Inoltre questa distinzione rimanda a sua volta ad un altra distinzione più basilare e cioè quella tra "pulsioni organiche" (biologiche) e "pulsioni del carattere" che Fromm definisce "la seconda natura dell'uomo". (3) Alla formazione del carattere di ciascuno concorre l'ambiente culturale, cioè 1 insieme dei valori trasmessi dalla società; infatti egli scrive: "[il carattere è] il sistema relativamente permanente di tutte le tensioni non-istintuali attraverso le quali l'uomo si pone in rapporto col mondo umano e naturale. " (4)
Nel capitolo dedicato all'aggressività benigna Fromm, dopo aver trattato sinteticamente delle forme di pseudo-aggressione (accidentale, sportiva, auto-affermativa), affronta e sviluppa il tema dell'aggressione difensiva, considerata comune ad animali e uomini, anche se presente in modo assai più marcato nel genere umano.
Questo è probabilmente dovuto al fatto che la gamma degli interessi da difendere è molto più vasta negli uomini che negli animali, ed inoltre anche dal punto di vista neuro-fisiologico l'uomo ha una conformazione per cui il ricorso all'aggressività difensiva è più frequente. Egli ritiene che non è possibile condizionare la base biologica dell'aggressività difensiva, poiché si tratta di una reazione predisposta filogeneticamente. E' invece possibile intervenire sui fattori che scatenano la risposta aggressiva, eliminandoli, quando è possibile, o semplicemente diminuendo la loro incidenza. Il rimedio per ridurre questo eccesso di aggressività consiste nel creare situazioni politico-sociali che migliorino le condizioni materiali, che eliminino la dipendenza degli individui dalle suggestioni e dal controllo dei leader e che orientino la persona all'essere ed al condividere, piuttosto che all'avere e all'accumulare.
In pratica, debbono essere eliminate le minacce al benessere psico-fisico dell'uomo, e cioè: fame, miseria, sovraffollamento e qualsiasi situazione degradante in genere.
E ancora una volta sembra essere l'educazione la strada da percorrere per risolvere il problema: un'educazione che riduca il narcisismo e la competitività e renda così l'uomo meno vulnerabile e sensibile alle minacce reali o immaginarie.
Nello stesso capitolo sono ampiamente trattate situazioni in cui si manifesta l'aggressività difensiva, come per esempio quando viene minacciata la libertà, quando il nostro narcisismo viene ferito, oppure quando vogliamo ottenere uno scopo (aggressività strumentale), ecc.
L'aggressività maligna, essendo una "pulsione del carattere" ed essendo questa a sua volta determinata socialmente, è strettamente connessa alle esigenze psichiche dell'individuo e alle condizioni sociali che caratterizzano la sua esistenza. Scrive Fromm: "L'aggressività maligna [...] è specificamente umana e non deriva dall'istinto animale. Non contribuisce alla sopravvivenza fisiologica dell'uomo, ma è un elemento importante del suo funzionamento mentale. E' una di quelle passioni potenti e dominanti in certi individui e culture, e non in altre [. ..]. Essa ha origine, come abbiamo detto prima, dall'interazione di varie condizioni sociali, con i bisogni esistenziali dell'uomo."(5)
Il problema dell'origine dell'aggressività distruttiva si rapporta ai valori e ai modelli proposti dalla società, che plasmano la struttura caratteriale e che possono essere al servizio della vita o della morte.
Fromm individua due forme di aggressione maligna: quella spontanea, che nasce come esplosione di input distruttivi sopiti e riattivati da circostanze eccezionali (per esempio, le stragi che seguono episodi di fanatismo politico o religioso); e quelle legate alla struttura del carattere come ad esempio il sadismo e la necrofilia di cui poi egli tratterà più ampiamente attraverso l'analisi del caso clinico di Hitler.
Fromm traccia la storia dello sviluppo del carattere distruttivo nella storia, evidenziando come il suo affermarsi avvenga parallelamente al passaggio da strutture sociali egualitarie e collaborative a strutture in cui l'accumulazione del capitale, la divisione del lavoro, lo sfruttamento, il potere e l'autoritarismo portano alla formazione di caratteri sociali innescatori di distruttività.
Scrive nell'Epilogo: "Sfruttamento e manipolazione producono noia e superficialità, storpiano l'uomo, e tutti i fattori che penalizzano psichicamente l'individuo e lo trasformano necessariamente in sadico e distruttivo". (6)
Con queste affermazioni Fromm avanza la proposta di un cambiamento radicale dell'intero sistema economico-politico, e dei rapporti interpersonali al suo interno. Come anche Fromm stesso ipotizza, la sua posizione può essere giudicata ultraottimistica o utopica.

5.4. HELLER: L'ANTROPOLOGIA SOCIALE MARXISTA

Il lavoro di Fromm è stato oggetto di una dettagliata analisi critica ad opera di Agnes Heller che nel suo Istinto e aggressività. Introduzione a un'antropologia sociale marxista [1978] prende in esame il pensiero di alcuni etologi e antropologi sociali criticandone la tendenza alle forme di naturalismo presenti nelle teorie contemporanee sugli istinti. Per la Heller si possono considerare 'naturalistiche" tutte quelle concezioni antropologiche che presuppongono l'esistenza di una natura umana invariabile rispetto ai condizionamenti storici delle varie epoche.
La Heller si propone di evidenziare le contraddizioni interne di ciascuna scuola e in particolare di smascherare l'operazione ideologica che sta dietro ogni tipo di naturalismo, anche quello dello stesso Fromm.
Il comportamento aggressivo non è, secondo la Heller, da ricondurre ad un istinto. La chiave attraverso la quale leggere l'aggressività è interamente sociale. La Heller inserisce il pensiero di Fromm all'interno di un "terzo indirizzo", ossia una terza forza della psicologia americana che si contrappone sia al freudismo tradizionale e conservatore, sia al behaviorismo. Le fonti teoriche di questo "terzo indirizzo" sono molto eterogenee e vanno da un'arbitraria interpretazione di Freud e di Marx, alla psicologia della forma, alla fenomenologia, all'esistenzialismo, alla "corrente", influenzata da Freud denominata Culture and personality, ecc.
La tendenza comune riscontrabile all'interno di questo terzo indirizzo è la grande importanza attribuita alla personalità, considerata unitaria, indivisibile e autonoma nel suo sviluppo, la cui struttura dei bisogni è orientata sull'avere e quindi è da considerarsi "estraniata" o alienata rispetto alla sua autentica natura.
Più precisamente per la Heller ciò che caratterizza questo nuovo indirizzo della psicologia americana è il naturalismo teorico della personalità, cioè l'identificazione più o meno consapevole dei concetti di natura umana e di essenza generica, vale a dire la derivazione della "essenza dell'uomo" dalla natura dell'uomo.
Dopo aver criticato le definizioni dell'aggressività date da Lorenz e da Fromm perché giudicate troppo "larghe", la Heller afferma che non è possibile definire l'aggressività proprio per il fatto che, essendo un concetto generale, è per sua natura indefinibile. Ella sostiene che "l'aggressività è - innanzi tutto - un concetto di valore, incluso il senso negativo di valore; [...] dal momento che non si dà "aggressività in generale" (e per conseguenza non è possibile alcuna definizione generale dell'aggressività), [...] non userò il concetto di aggressività come una categoria, ma [kantianamente] come idea teorica regolativa". (7) A proposito della nozione di "aggressività benigna" elaborata da Fromm, la Heller muove una serie di critiche atte a mostrare come l'idea frommiana che l'aggressività benigna è un istinto, sia falsa e insostenibile. In sostanza la Heller sostiene che, se ogni comportamento innato fosse legato ad un istinto originario, allora dovremmo parlare anche di "istinto linguistico", "istinto del pensiero", ecc. Dunque per la Heller questo tipo di aggressività "indica la protezione degli interessi vitali (non degli istinti!) innati nell'organismo di fronte ad attacchi minacciosi". (8) Inoltre la Heller mostra come l'idea frommiana secondo la quale "l'aggressività benigna" può essere dimostrata su base neuro-fìsiologica, sia falsa, in quanto la neurofisiologia ha dimostrato e anche localizzato nel cervello soltanto l'ira, che non è sinonimo dì aggressività, anche se ne può essere la causa.
Dunque la Heller conclude il capitolo dedicato agli istinti con questa affermazione: "[...] l'uomo non possiede alcun istinto aggressivo, né difensivo né offensivo, né benigno, né maligno. In nessun senso l'uomo è un essere governato degli istinti." (9) Sempre in contrapposizione con la nozione frommiana, la Heller propone una ristrutturazione di questo concetto non più inteso in senso individuale unitario, bensì distinto su due piani: quello psichico e quello morale.
Il primo, quello psichico, si costituisce relativamente presto e resta più o meno stabile nel tempo; la casualità ha grande importanza nello stabilire le predisposizioni, la famiglia, quindi lo status sociale e, come dice Fromm, il carattere "biofilo" o "non biofilo" della madre.
Il carattere morale può considerarsi sempre in formazione, anche se in età adulta tende alla rigidità. Quest'ultimo può modificarsi nonostante la costanza del carattere psichico.
Il carattere puramente biofilo e quello puramente necrofilo si distinguono per il fatto che in entrambi tra il carattere psichico e quello morale non sussiste alcun antagonismo, alcun conflitto.
La Heller auspica una maggiore armonia tra le due forme del carattere, anche se ritiene che questa sia una mera utopia, fintanto che le norme astratte della morale, pur restando valide, non riescono ad affermarsi nella generalità dei casi a causa della struttura sociale; cioè "fintanto che l'uomo si trova di fronte a sistemi normativi concreti contraddittori ed eterogenei è altrettanto utopistico parlare di una simile armonia". (10)
Per la Heller una teoria antropologica può solo escludere l'impossibilità di un'umanità non aggressiva: "Se l'uomo non ha nessun impulso innato, specifico del genere, non ha neppure alcun istinto aggressivo; quindi, da un punto di vista puramente antropologico, non è esclusa (ossia è possibile) un'umanità che non sia contraddistinta dall'aggressività". (11)
In altri termini, per la Heller è possibile, in linea di principio, una umanità in cui ogni singolo disponga di sufficiente stima in sé da evitare di recuperarla con l'aggressività, e di conseguenza dal punto di vista antropologico, è possibile una umanità in cui si possa costruire un sistema di valori conforme a questa finalità.
Tuttavia ciò comporterebbe una trasformazione della totalità della società e i modi per realizzare questa trasformazione debbono essere ricercati sul piano economico e politico e quindi fuori dall'ambito proprio dell'antropologia.
La Heller pertanto in quest'opera,proponendosi dì rimanere nell'ambito antropologico, non avanza evidentemente alcuna ipotesi complessiva di trasformazione della società, tuttavia nell'ultimo capitolo del libro adduce un esempio concreto che lascia intravedere la sua visione complessiva del problema.
La Heller nota come l'attuale divisione del lavoro consenta solo a una minoranza di uomini di autorealizzarsi nel lavoro, mentre la maggioranza è indotta per lo più a cercare la base della stima in sé nel possesso.
All'opposto, l'economia e la sociologia secondo la Heller possono proporre un nuovo modello di organizzazione del lavoro, basato sulla completa meccanizzazione dei tipi di lavoro che non offrono possibilità di autorealizzazione, sulla diminuzione dell'intensità nei tipi di lavoro disumanizzanti, sulla diminuzione del tempo di lavoro socialmente necessario, sul superamento della divisione del lavoro ovunque essa non sia motivata dalla specializzazione scientifica, ecc.
La Heller è ben consapevole dell'utopicità di un simile progetto; tuttavia ritiene di avere dimostrato incontrovertibilmente almeno la possibilità di un'umanità non aggressiva, in contrapposizione a tutte le teorie istintivistiche.

NOTE AL 5° CAPITOLO

(1) T. W. ADORNO - - E. FRENKEL-BRUNSWICK - - D.J. LEVINSON - - R. NEVITT SANFORD, La personalità autoritaria (1950), trad. it.di V. Gilardoni Jones, Edizioni di Comunità, Milano, 1973, vol. II, pag. 369.

(2) Ibidem.

(3) E. FROMM, Anatomia della distruttività umana, op. cit., pag. 288.

(4) Ibidem.

(5) Ibidem, pag. 278.

(6) Ibidem, pag. 544.

(7) A. HELLER, Istinto e aggressività. Introduzione a un antropologia sociale marxista, trad. it. di L. Boella e G. Neri, Feltrinelli, Milano, 1978, pagg. 29-31.

(8) Ibidem, pag. 40.

(9) Ibidem, pag. 42.

(10) Ibidem, pag. 53.

(11) Ibidem, pag. 170.

 

 

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