3.1. L'ORIGINE DELL'ETOLOGIA
L'interpretazione dell'aggressività che si fonda
sulla teoria degli istinti considera il comportamento aggressivo come
programmato filogeneticamente e quindi non acquisito.
Questo schema di comportamento ha una sua meta propria, il raggiungimento
della quale permette la sopravvivenza dell'individuo o della specie.
L'istinto aggressivo era già stato annoverato tra le forze istintuali da
Mc Dougall [1908], il quale lo aveva definito "istinto di
pugnacità" [Fromm, 1973]. Con il termine "istinto" si
vuole intendere un meccanismo nervoso tipico di una determinata specie,
sensibile a particolari stimoli interni o esterni che, attraverso
un'organizzazione specifica mette in atto movimenti e comportamenti che
contribuiscono alla conservazione dell'individuo e della specie. Ciò
significa anche che differenti specie hanno differenti istinti.
Non è possibile localizzare l'istinto in uno specifico organo, infatti si
preferisce parlare di meccanismo e non di organo, proprio perché uno
stesso organo può presiedere a differenti meccanismi.
Oltre alle teorie psicoanalitiche già viste nel capitolo 2°, esiste
tutta una serie di ricerche in campo etologico che, partendo dall'ipotesi
istintivista, può dare rilevanti contributi allo studio
dell'aggressività.
L'etologia come scienza nasce negli anni trenta con i lavori di K. Lorenz
e di Tinbergen, che sono fra i maggiori esponenti. Gli etologi studiano la
vita degli animali nel loro habitat naturale e in particolare studiano i
comportamenti di adattamento dell'animale al suo ambiente, evitando gli
artifici della situazione sperimentale del laboratorio. Il metodo usato
dagli etologi è ben diverso da quello usato dagli studiosi di psicologia
animale, in particolare i comportamentisti, i quali pongono l'animale in
situazione sperimentali che stimolano l'apprendimento di nuovi
comportamenti.
Etologia, con le parole che Lorenz ha presentato al Congresso mondiale di
etologia presso l'Università di Parma, significa semplicemente applicare
allo studio del comportamento i classici metodi usati in biologia fin dai
tempi di Darwin, e cioè quelli che sulla base delle somiglianze e
differenze tra gli esseri viventi tentano di ricostruire l'evoluzione [cit.
in Bonino-Saglione, 1978].
Dunque gli etologi seguono un metodo comparativo che però non
significa,come molti hanno interpretato, semplice trasposizione tra il
comportamento animale e quello umano, o la messa in evidenza del lato
animale dell'uomo. L'importanza del metodo comparativo consiste,come
giustamente osservano S. Bonino e G. Saglione "nel mostrare come
determinati atteggiamenti, metodi e principi che vengono usati nello
studio degli animali, possono essere applicati anche nell'uomo" (1)
Il metodo più importante è senz'altro quello dell'osservazione diretta,
che privilegia la descrizione del fenomeno, prima di passare all'analisi e
all'individuazione delle cause.
Erich Fromm è tra coloro che si mostrano molto critici nei confronti del
metodo usato in etologia. A proposito dell'opera di Lorenz di cui si
tratterà in seguito, E. Fromm scrive: "Il suo metodo principale,
comunque, non è tanto quello dell'auto-osservazione, quanto delle
analogie ricavate dal confronto del comportamento di certi animali con
quello dell'uomo. Scientificamente parlando, tali analogie non dimostrano
niente, anche se sono suggestive e gradevoli per chi ama gli animali.
[...] Il suo metodo principale è quello dell'analogia: scopre somiglianze
fra il comportamento umano e quello degli animali che ha studiato, e ne
conclude che entrambi i tipi di comportamento hanno la stessa causa.
" (2)
D'altra parte è vero che Lorenz, esasperando il principio della comune
origine degli animali, non manca di sottolineare analogie tra uomini e
animali tali da indurlo a scrivere che il comportamento di un'oca
selvatica innamorata è uguale "fin nei più ridicoli
particolari" a quello dell'uomo.
3.2. K. LORENZ: L'ISTINTO COMBATTIVO
Il comportamento aggressivo è fra quelli che hanno
attratto maggiormente l'attenzione degli etologi. Nel 1963 K. Lorenz
pubblica Das sogenannte Böse. Zur Naturgeschichte der Aggression.
Quest'opera ebbe grande fortuna ed ancora oggi è considerata di grande
interesse sia per la sua attenta descrizione che per le considerazioni
espresse con un linguaggio semplice e comprensibile anche per i non
specialisti.
L'aggressività, letta in chiave etologica, è un istinto che esige una
scarica periodica; questo è proprio il punto di contatto con la teoria
freudiana che, come si è visto, interpreta l'aggressività attraverso un
modello idraulico.
Il cambiamento e la selezione sono per Lorenz i fattori che determinano
l'evoluzione ed hanno grande importanza nell'organizzare modelli di
comportamento che sono funzionali alla specie.
L'istinto aggressivo o combattivo per esempio ha la specifica funzione di
garantire la sopravvivenza dell'individuo e della specie.
Lorenz, e gli etologi in genere, sono soliti distinguere l'aggressività
rivolta verso individui di specie diversa (rivolta, ad esempio, verso la
preda) da quella che si estrinseca nei confronti degli individui della
stessa specie (aggressività intra-specifica). Infatti, dal punto di vista
della fisiologia del comportamento, la prima è fondamentalmente diversa
dalla seconda, in quanto le motivazioni dell'animale che combatte sono del
tutto dissimili da quello che caccia. Infatti Lorenz afferma che un cane
che avvista una lepre e tenta di acciuffarla mostra esattamente la stessa
espressione, fra l'ansioso ed il felice, di quando saluta il suo padrone.
Quindi il comportamento aggressivo vero e proprio è solamente quello
intra-specifico ed all'origine è, per Lorenz, un impulso biologicamente
adattivo, innato e spontaneo che ha una funzione di grande importanza: la
conservazione della specie.
Dunque l'aggressività così intesa non è negativa per il mondo animale,
ma è uno strumento di organizzazione degli esseri viventi che permette la
conservazione della vita, anche se può capitare che a volte rechi
distruzione al sistema.
Riferendosi all'espressione di Darwin "la lotta per l'esistenza"
Lorenz sostiene che "in realtà la lotta alla quale
alludeva Darwin, e che fa progredire l'evoluzione, è in prima linea la
concorrenza fra parenti prossimi (lotta intra-specifica) ". (3)
Anche se il vero tema del libro di Lorenz è l'aggressività
intra-specifica, egli riferisce anche di casi in cui la lotta è di tipo
inter-specifico, sottolineando come in tutti i conflitti di questo tipo la
funzione di conservazione della specie è molto più evidente che in
quelli intra-specifici.
Egli distingue tre casi di aggressività interspecifica: il comportamento
aggressivo del predatore verso la preda; la reazione aggressiva della
preda verso il predatore, la "reazione critica" di colui che,
attaccato da un nemico più forte, non vedendo altra soluzione, reagisce
con la forza della disperazione attaccando l'aggressore.
Ma Lorenz sostiene che vi è un equilibrio naturale interspecifico che
viene conservato, equilibrio che invece risulta disturbato nell'uomo.
Dunque, secondo l'analisi di Lorenz, non è il nemico predatore a
minacciare direttamente l'esistenza di una specie animale, ma il
concorrente. Questa tendenza istintiva verso un comportamento aggressivo
è essenziale per l'individuo come per la specie, infatti svolge alcune
funzioni fondamentali. La distribuzione degli esseri viventi della stessa
specie nello spazio vitale disponibile è utile e necessaria al fine di
evitare i pericoli della sovrappopolazione. Scrive Lorenz:
"questa aggressività territoriale, un meccanismo molto semplice dal
punto di vista della fisiologia del comportamento, assolve in maniera
assolutamente ideale il compito di distribuire animali di una stessa
specie con giustizia rispetto a tutto l'insieme di quella specie, per
tutta l'area disponibile. Anche il più debole, sia pure in uno spazio
più ristretto, può esistere e riprodursi". (4)
Dunque gran parte degli impulsi aggressivi viene utilizzata per la
conservazione del territorio nel quale l'animale compie le più importanti
attività biologiche, fra cui, appunto, quella della riproduzione e della
nidificazione.
All'inizio della stagione della riproduzione, l'animale maschio sceglie
generalmente un suo territorio: quando un altro maschio si avvicina ai
confini di esso, viene minacciato e, se non fugge, viene decisamente
attaccato.
Il confine del territorio viene segnato con metodi diversi a seconda della
specie. Molti uccelli, ad esempio, usano il metodo acustico, cioè i
maschi cantando avvertono gli altri individui che quel territorio è
occupato. Questo segnale ha la duplice funzione di allontanare i maschi e
di attirare le femmine, di modo che il territorio da individuale diventa
familiare.
Alcuni mammiferi (topo, cane, ecc.) segnano il territorio con l'odore
della loro urina, altri (giaguaro) incidono la corteccia degli alberi,
altri ancora (alcune antilopi) depongono sui cespugli, sulle rocce o per
terra una secrezione di alcune ghiandole situate intorno all'orbita.
Quando l'animale varca i confini del suo territorio prova un sentimento di
insicurezza, diventa irrequieto, mostra paura; mentre quando si trova nel
suo territorio è più coraggioso ed aggressivo e mette in fuga intrusi
persino più forti di lui.
Un'altra funzione dell'istinto aggressivo è quella della selezione
attraverso il combattimento tra rivali.
Si tratta di una selezione sessuale degli individui più orti, che ha lo
scopo di eliminare gli elementi meno dotati per migliorare il livello
della qualità della specie ed è anche strettamente connessa alla difesa
della discendenza. "Già Charles Darwin aveva giustamente
riconosciuto che la selezione sessuale, la salvezza dei più forti e
migliori animali per la riproduzione, si realizza sostanzialmente
attraverso i combattimenti degli animali rivaleggianti, soprattutto dei
maschi. La forza del padre offre naturalmente un'immediata garanzia per la
buona riuscita della prole di quelle specie in cui egli partecipa
attivamente alla cura dei piccoli e soprattutto alla loro
protezione". (5) L'aggressività interviene anche nel regolare e
dirigere il comportamento dell'individuo nella società in cui vive,
attraverso un principio ordinatore che permette una normale convivenza.
Questo principio è definito da Lorenz "principio gerarchico" e
rappresenta la coscienza di ognuno di quelle che sono le proprie
possibilità di difesa e quindi di vita. E' normale che in ogni gruppo i
singoli tendano a collocarsi in una gerarchia per cui "ognuno degli
individui viventi nella comunità sa quale degli altri è più forte o
più debole di lui, in modo che ognuno si possa tirare indietro senza
lottare davanti al più forte, e possa a sua volta pretendere che il più
debole di lui si ritiri senza lottare ogni volta che si incontrino".
(6)
E' evidente che mediante questo principio gerarchico molte occasioni di
lotta, per esempio per il possesso del cibo, tra due individui dello
stesso gruppo, vengono notevolmente limitate per via "naturale".
Ci sono poi aspetti molto curiosi e singolari che attendono sempre al
principio gerarchico. Lorenz ha osservato che se, in un gruppo di
cornacchie, una femmina di "basso rango sociale" si accoppia con
un maschio di più alta condizione, automaticamente aumenta la sua
considerazione presso gli altri componenti del gruppo.
Indipendentemente dalla funzione che svolge, l'aggressività per Lorenz è
un istinto ineliminabile e quindi non può essere soppresso, ma può
essere reso meno dannoso attraverso dei processi di ri-direzione. Infatti
scrive: "La ri-direzione dell'attacco è l'espediente più geniale
che l'evoluzione abbia inventato per costringere l'aggressività su binari
innocui."(7) Per definire tale meccanismo Lorenz si serve del
termine ritualizzazione, intendendo che certi comportamenti perdono nel
corso della filogenesi la loro originale funzione per diventare pure
cerimonie simboliche, puri movimenti rituali. Sono comportamenti
"stereotipati e convenzionalizzati" di sottomissione e di
pacificazione che provocano nell'aggressore (compagno di specie)
l'inibizione della spinta aggressiva. Il rito ha quindi la funzione di
opporsi all'aggressività, di dirottarla verso canali innocui e frenarne i
suoi esiti dannosi alla conservazione della specie.
Questo primitivo meccanismo inibitore costituisce una prima forma di
comunicazione e genera un "vincolo personale", in quanto gli
animali, che sono per natura aggressivi, hanno avuto la necessità di
collaborare per difendere il territorio e la prole dunque per conservare
la specie. La comunicazione che nasce dalla ritualizzazione e che serve a
inibire l'aggressività, favorisce la comprensione reciproca. Scrive
Lorenz: "Un vincolo personale, un'amicizia individuale si trovano
soltanto negli animali con un'aggressività intra-specifica altamente
sviluppata, anzi questo vincolo è tanto più saldo quanto più aggressiva
è la rispettiva specie animale." (8) Lorenz riporta l'esempio del
corteggiamento dei ciclidi, pesci ossei di acqua dolce, osservando come le
femmine assumono comportamenti innescanti il combattimento nei maschi
eccitati, i quali lo attuano contro un altro compagno di specie che si
trova nelle vicinanze. Questo è anche ciò che succede ad un uomo
esasperato che pesta il pugno sul tavolo piuttosto che in viso a colui che
lo ha fatto arrabbiare, proprio perché la rabbia pretende una via
d'uscita nonostante certi meccanismi d'inibizione.
Ai fini della tesi di Lorenz assumono grande importanza moti di
pacificazione ri-diretti che deviano l'aggressione da certi individui ad
altri e comunicano all'avversario la propria disposizione pacifica, ad
empio attraverso il riso. In questo modo per Lorenz si pongono le basi per
rapporti esclusivi e costanti paragonati all'amicizia ed all'amore.
"Il vincolo personale, l'amore, s'è formato senza dubbio in molti
casi da aggressività intra-specifica, in diversi casi noti attraverso
ritualizzazioni di un attacco o di una minaccia ri-diretti. Dato che i
riti così formatisi sono legati alla persona del compagno e dato che poi
in qualità di azioni istintive indipendenti diventando un bisogno, essi
rendono anche la presenza del compagno un bisogno insopprimibile e il
compagno stesso l'animale con la valenza di casa." (9)
Anche gli atteggiamenti di sottomissione sono importanti al fine di
frenare l'aggressione; essi sono costituiti da quei moduli comportamentali
mediante i quali un individuo riconosce la superiorità del nemico e cessa
il combattimento mostrandogli, a volte, un punto vitale del proprio corpo.
Il lupo per esempio offre all'avversario che gli è superiore il lato
marcato estremamente vulnerabile del suo collo, così come il cane sembra
implorare il nemico per ottenere la grazia offrendogli le sue vene
giugulari.
Scrive Lorenz in L'anello di Re Salomone: "C'è proprio qualcosa da
imparare anche per noi uomini! Io per lo meno ne ho tratto una nuova e
più profonda comprensione di un meraviglioso detto del Vangelo che spesso
viene frainteso e che finora aveva suscitato in me solo una forte
resistenza istintiva: "se qualcuno ti dà uno schiaffo sulla guancia
destra .. ". L'illuminazione mi è venuta da un lupo: non per
ricevere un altro schiaffo, devi offrire al nemico l'altra guancia, no,
devi offrirgliela proprio per impedirgli di dartela." (10)
E' significativo osservare come i freni che bloccano l'aggressività degli
animali nei confronti dei soggetti appartenenti alla stessa specie, sono
maggiormente sviluppati nei predatori i quali sono provvisti di armi
potenti.
E sono proprio gli animali dotati di una forte aggressività
intraspecifica quelli che maggiormente sviluppano i vincoli personali che
si possono definire di amicizia e di amore. Per Lorenz l'aggressività
sarebbe filogeneticamente più antica dell'amore "L'aggressività
intra-specifica è di milioni d'anni più vecchia dell'amicizia personale
e dell'amore [...]. Si dà quindi benissimo l'aggressività
intra-specifica senza il suo antagonista, l'amore, ma viceversa non c'è
amore senza aggressività." (11)
Per tutti questi motivi Lorenz sembra convinto che nel mondo animale non
esista un reale pericolo che una specie si estingua a causa
dell'aggressività. Nell'uomo invece questo pericolo è assai presente
infatti Lorenz sostiene che nel caso del genere umano il ritmo dello
sviluppo naturale ha creato condizioni alle quali l'uomo non è
filogeneticamente preparato. Nella specie umana mancano infatti molti dei
meccanismi autoinibitori dell'aggressività presenti nelle specie
inferiori. Il comportamento aggressivo diventa fine a se stesso, perde il
suo carattere di conservazione della specie e si trasforma in cieca
distruttività intraspecifica. Lorenz individua alcune cause dello
squilibrio fra l'enorme potenzialità offensiva e i meccanismi istintivi
di inibizione, squilibrio che rappresenta uno spaventoso pericolo per
l'umanità. Accanto alla difficoltà di adattarsi alla vita moderna, con i
suoi ritmi frenetici e i suoi sforzi ridotti e i conseguenti squilibri
nella convivenza sociale, Lorenz individua nella sempre maggior
disponibilità di armi e nel particolare tipo di queste un possibile
incentivo alla distruttività. Infatti l'uso delle moderne armi comandate
a distanza esclude il contatto diretto cori l'aggredito e questo ne
aumenta la pericolosità. "L'uomo che preme il pulsante d'innesco è
così totalmente schermato dal vedere, sentire o altrimenti realizzare
emozionalmente le conseguenze della sua azione che la può compiere con
impunità, anche se è afflitto del peso di una buona immaginazione.
Soltanto così si può spiegare come un buon uomo, che non riuscirebbe
quasi a dare uno scapaccione ben meritato a un bambino discolo, si ritrovi
senz'altro il coraggio di lanciare missili o di stendere tappeti di bombe
incendiarie su città addormentate, condannando così ad una terribile
morte fra le fiamme centinaia e migliaia di amabili bambini." (12)
Anche per S. Bonino - G. Saglione [1978] è necessario chiedersi per quali
ragioni nella specie umana la ritualizzazione dell'aggressività sia così
difficoltosa. Infatti scrivono: "La ragione basilare per cui il
comportamento dell'uomo è scarsamente ritualizzato è a nostro parere da
ricercarsi nella plasticità tipica dell'uomo. Rispetto agli animali
l'uomo non viene alla luce con un corredo di reazioni rigide e
stereotipate, programmate e poco variabili. L'uomo è invece, come più
volte abbiamo già notato, scarsamente dotato sul piano istintuale; anche
i comportamenti filogeneticamente determinati sono nell'uomo più plastici
e maggiormente legati alle influenze ambientali e dell'ontogenesi. Questa
plasticità è alla base del prodigioso sviluppo e della stupefacente
complessità del comportamento umano, capace di far fronte alle situazioni
più nuove e insospettate. [...] La rigida determinazione del
comportamento è inversamente proporzionale all'evoluzione filogenetica.
Una reazione rigidamente stereotipata e preordinata è alla base di un
equilibrio labile, che non è in grado di tener conto delle variazioni di
una situazione e di adattarvisi plasticamente." (13)
Dunque per l'uomo, forse assai di più che per l'animale, è illusorio
sperare che il rimedio all'aggressività consista nel tenersi lontano
dalle situazioni che la innescano. L'aggressività esplode anche in
mancanza di condizioni ambientali scatenanti; infatti l'individuo inquieto
che sente aumentare in sé la rabbia, è disposto a cercare, persino ad
immaginare, le più piccole occasioni atte ad innescarle (comportamento
appetitivo).
Allora l'unica soluzione appare quella di incanalare l'aggressività,
ri-dirigendola verso forme di scarica periodica come ad esempio le
competizioni sportive, l'entusiasmo per la scienza e per le arti. Si
tratta, per Lorenz, di una vera e propria catarsi, di una ritualizzazione
che ha come scopo quello di impedire gli effetti dell'aggressione
socialmente dannosa e mantenere invece invariate le funzioni per la
conservazione della specie umana.
Per fare ciò è necessario che l'uomo si appelli alle sue facoltà
razionali in modo da educarsi ad un controllo cosciente e responsabile
della sua istintiva pulsione alla lotta.
Lorenz conclude la sua opera con una grande dichiarazione di speranza:
speranza nella selezione naturale e speranza nella razionalità umana.
Scrive: "Sappiamo che nell'evoluzione dei vertebrati il vincolo
dell'amore personale e dell'amicizia fu un'invenzione che fece epoca,
creata da due grandi costruttori quando divenne necessario per due o più
individui d'una specie aggressiva vivere pacificamente insieme e cooperare
ad un fine comune. Sappiamo che la società umana si è costituita sulle
fondamenta di questo vincolo, ma dobbiamo accettare il fatto che il
vincolo è diventato troppo limitato per comprendere tutto quanto
dovrebbe: blocca l'aggressione soltanto fra quanti si conoscono fra loro e
sono amici1 mentre si tratta di bloccare le ostilità tra gli uomini di
tutte le nazioni e di tutte le ideologie. L'ovvia conclusione è che
l'amore e l'amicizia dovrebbero abbracciare tutta l'umanità, che tutti
noi dovremmo indiscriminatamente amare tutti i nostri fratelli umani.
Questo non è un comandamento nuovo. (…) Credo nel potere della ragione
umana, come credo nel potere della selezione naturale. Credo che la
ragione può e vorrà esercitare una pressione selettiva nella direzione
giusta. Credo che in un futuro non troppo lontano questo doterà i nostri
discendenti della facoltà di adempiere il più grande e il più bello di
tutti i comandamenti. (14)
E' certamente lecito il dubbio di chi può ritenere utopistiche e prive di
indicazioni concrete per quanto concerne l'attuazione di strategie
articolate di prevenzione dell'aggressività, come anche può essere
condivisibile la critica di chi ravvisa caratteristiche di
pregiudizialità nell'affermazione dei presupposti innatistici
dell'aggressività stessa.
Tuttavia Lorenz "come del resto tutta la corrente etologica, ha il
merito di aver chiarito che l'aggressività non dipende solo dall'ambiente
e che essa non ha carattere distruttivo dal punto di vista biologico e
negativo dal punto di vista morale. E' un fatto innegabile che
l'aggressività svolge un ruolo importante nello spingere l'uomo a
raggiungere sempre nuovi traguardi." (15)
Una critica dettagliata alle teorie di Lorenz viene formulata da E. Fromm
(1973) che non perde l'occasione per sottolineare come l'esasperato
darwinismo di Lorenz abbia viziato l'analisi che egli ha condotto
sull'aggressività: "Il Darwinismo sociale e morale predicato da
Lorenz è un romantico paganesimo nazionalista che tende ad osservare la
vera comprensione dei fattori biologici, psicologici e sociali
determinanti per l'aggressione umana." (16)
Attraverso un confronto con la tesi freudiana espressa in Perché la
guerra? (1933) Fromm individua un'analogia fra i due autori
istintivisti: nessuno dei due è soddisfatto della conclusione a cui è
giunto e cioè che la guerra è inestirpabile perché risultato di un
istinto. Ma Fromm si mostra molto polemico nei confronti del discorso
sviluppato da Lorenz che egli considera poco originale in quanto i
suggerimenti che l'etologo fornisce "non si spingevano oltre il
cliché abusato dei semplici precetti" (…) " (17) senza dare
indicazioni valide sul come fare per evitare la guerra e l'ostilità fra
le persone.
Fromm dedica tutta la parte seconda del suo libro alle prove contro le
tesi istintiviste avvalendosi di studi di neurofisiologia, psicologia
animale, paleontologia e antropologia che non confermano l'ipotesi secondo
la quale l'uomo è dotato di una pulsione aggressiva innata.
3.3. R. ARDREY: L'ISTINTO DI UCCIDERE
Robert Ardrey, drammaturgo e antropologo, si è
occupato del nesso tra aggressività e origine dell'uomo, soprattutto nel
suo libro intitolato L'istinto di uccidere, noto in particolare per
il suo carattere divulgativo e per l'originalità delle tesi sostenute.
Egli si rifà principalmente al pensiero di Raymond Dart, un professore di
anatomia, che nel 1924 scoprì i resti di un ominide, che poi chiamò
Australopithecus africanus. Il professor Dart, studiando i resti di una
quarantina di babbuini rinvenuti in Tanzania, dedusse che l'australopiteco
(due milioni di anni fa) usava già le armi e precisamente il femore di
un'antilope. Sarebbe stato, dunque, l'uso delle armi e l'attività
predatoria dell'australopiteco a favorire il suo sviluppo biopsichico nel
corso del tempo fino ad arrivare all'homo sapiens.
Riportando le parole di Dart, Ardrey scrive: "Molto tempo fa, forse
molti milioni di anni or sono, una progenie di scimmie era scaturita dal
tronco dei primati non aggressivi. Per ragioni di necessità ambientale,
esse adottavano consuetudini predatorie. Per ragioni di necessità
predatoria esse progredirono. Così imparammo in primo luogo a stare in
posizione eretta, per le necessità di una vita predatoria. Imparammo a
correre in cerca di selvaggina attraverso la gialla savana africana. Le
nostre mani erano ormai libere di colpire e lanciare, non avevamo più
bisogno di un muso prominente, e così esso scomparve. E, mancando di
denti ed artigli atti alla lotta, ricorremmo per necessità all'uso delle
armi. Un sasso, un bastone, un osso pesante, per la scimmia assassina
nostra antenata significarono il margine della sopravvivenza. Ma l'uso
delle armi significava nuove e sempre più numerose esigenze di
coordinazione dei muscoli, del tatto e della vista, per il sistema
nervoso. E così nacque finalmente il cervello grande, così finalmente
nacque l'uomo." (18)
Da queste poche righe risulta chiara la tesi secondo la quale non è
l'uomo ad aver creato l'arma, ma viceversa, è l'arma che ha creato
l'uomo.
Ardrey ne deduce allora che per l'uomo è essenziale l'uso delle armi,
cioè l'uccidere, in quanto proprio questa necessità è stata il motore
della sua evoluzione. Ardrey, nell'ultimo capitolo intitolato
significativamente I figli di Caino avanza l'ipotesi sulle possibili
conseguenze di una guerra nucleare: lo sterminio di centinaia di milioni
di persone avrebbe come conseguenza una notevole inibizione dell'istinto
ad usare le armi. E questo è proprio il punto critico: può l'uomo
sopravvivere senza armi? Ardrey si pone questo interrogativo, anche se
sembra avere già chiara la risposta. Egli si domanda: "Come potremmo
tirare avanti senza la guerra? [...] E' la sola domanda relativa al futuro
che abbia un minimo di realismo, nell'età nostra; perché, se non
riusciamo a tirare avanti senza la guerra, il futuro sarà carente di
problemi umani come di uomini. [...] Che cosa accadrebbe ad una specie
alla quale venisse meno, nel futuro, il principale mezzo di espressione,
anzi il suo unico mezzo, in ultima istanza, per risolvere i conflitti? Che
cosa accadrebbe di una specie che ha consacrato le sue principali esigenze
al perfezionamento e al conflitto delle armi, e adesso giunge alla fine
d'una strada dove non è possibile più miglioramento o confitto?"
(19)
Qui Ardrey mostra di avere poca fiducia nel genere umano e nelle sue
capacità creative. Il suo ragionamento parte dall'analisi di alcuni fatti
storici nei quali le guerre e le battaglie hanno da una parte permesso il
progredire del Cristianesimo e della civiltà e dall'altra hanno ottenuto
la libertà per i popoli. Questi, secondo Ardrey, sono dati di fatto, dai
quali bisogna partire, senza scandalizzarci o "avere troppa fretta
nel liquidare la guerra come un male assoluto".(20)
L'eterno conflitto delle armi è per lui l'unico mezzo che l'uomo ha
utilizzato per le decisioni ultime: "Chiunque può suggerire
ragionevoli alternative al giudizio delle armi. Ma poi non siamo creature
della ragione se non ai nostri stessi occhi." (21)
Dunque, né la civiltà, né la ragione sembrano poter offrire ancore di
salvezza all'umanità condannata per natura al conflitto delle armi; pena
la sua estinzione.
3.4. D. MORRIS: L'ANIMALE UOMO
Basandosi sempre sugli studi di paleontologia e di
etologia comparata integrati dall'osservazione diretta del comportamento
umano, anche Desmond Morris, uno zoologo inglese, ha condotto le sue
ricerche orientandosi soprattutto verso l'osservazione di quei
comportamenti istintivi che, secondo lui, mantengono ancora l'impronta dei
nostri antichissimi progenitori animali. Il suo metodo "consiste
soprattutto nel non tener conto delle ramificazioni particolareggiate
della tecnologia e della verbalizzazione e nel concentrarsi in quegli
aspetti della nostra esistenza che hanno un evidente corrispettivo in
altre specie, attività cioè come il modo di nutrirsi, di pulirsi, di
dormire, di combattere, di accoppiarsi e di aver cura dei piccoli."
(22)
Nella sua opera dal provocatorio titolo La scimmia nuda. Studio
zoologico sull'animale uomo [1968], Morris sostiene la tesi che l'uomo
ha fatto ricorso alle armi artificiali originariamente per usarle come
mezzo di difesa contro altre specie e per uccidere le prede: quindi per
esplicare l'aggressività interspecifica.
Solo in un secondo momento le armi artificiali vennero usate anche
nell'ambito della lotta intraspecifica e vennero sempre più perfezionate
soprattutto nel senso che la distanza tra l'assalito e l'assalitore poté
diventare sempre maggiore e questo "per poco non fu la nostra
rovina". (23)
Infatti egli sostiene che sia l'uomo, sia gli animali hanno i medesimi
comportamenti nelle situazioni di lotta, negli atti di minaccia, di
"ritualizzazione", di pacificazione ecc., ma l'unica differenza
consiste nel fatto che l'uomo, attraverso la tecnologia, ha imparato a
combattere a distanza e questo ha tutta una serie di conseguenze molto
pericolose per il genere umano.
Scrive infatti: "[...] il giusto scopo dell'aggressione
intra-specifica a livello biologico consiste nel sotto-mettere il nemico,
non nell'ucciderlo. Le fasi finali dell'uccisione vengono evitate in
quanto il nemico fugge, oppure si sottomette. In entrambi i casi lo
scontro finisce e la controversia è risolta. Quando invece l'attacco
viene effettuato da una distanza che non consente che i segnali di
pacificazione del perdente vengano decifrati dal vincitore, l'aggressione
continua ad infuriare violentemente. Può risolversi solo mediante un
confronto diretto, accompagnato da una degradante sottomissione o da una
fuga precipitosa del nemico. Nelle moderne aggressioni a distanza, non si
può osservare nessuno dei due casi, per cui il risultato consiste in uno
sterminio di entità sconosciuta in qualunque altra specie. [...] Quando
migliorammo questa importante caratteristica in rapporto alla preda da
cacciare, essa ci fu molto utile, ma adesso ci si è ritorta contro."
(24)
Del medesimo parere è anche D. Mainardi quando scrive: "... la nostra enorme abilità di produrre arnesi che uccidono a
lunga distanza vanifica totalmente i segnali di resa, di sottomissione, di
paura, che in una situazione naturale possono bloccare un'azione di
aggressività". (25)
Per evitare che questo fatto ci porti ad una rapida estinzione della
specie Morris propone una serie di soluzioni: un massiccio e reciproco
disarmo, l'eliminazione del patriottismo dei diversi gruppi sociali,
fornire e favorire sostituti innocui e simbolici della guerra, migliorare
il controllo intellettivo della tendenza aggressiva. Queste soluzioni
rivelano tutte dei limiti di efficacia e applicabilità per cui Morris
ritiene ce "l'unico modo di risolvere il problema in maniera
biologicamente sana consiste in un massiccio spopolamento o in una rapida
diffusione della nostra razza su altri pianeti, se possibile associata
all'effettuazione delle altre azioni già dette." (26)
Se invece la popolazione continuerà ad aumentare con la stessa spaventosa
rapidità di oggi, l'aggressività si svilupperà in maniera
incontrollabile e drammatica. Il sovraffollamento eccessivo causerà uno
stress e una tensione sociale che distruggeranno l'organizzazione della
nostra comunità, operando direttamente contro il miglioramento del
controllo intellettivo ed aumentando paurosamente le probabilità di
un'esplosione emotiva.
Per Norris questa tendenza si può prevenire soltanto con una notevole
diminuzione del numero delle nascite.
Dunque la soluzione proposta non lascia adito ad equivoci, anche se è
lecito nutrire dei dubbi sull'efficacia di questa proposta.
3.5. I. EIBL - EIBESFELDT: ETOLOGIA DELLA GUERRA
Utilizzando in parte schemi interpretativi analoghi
a quelli di Lorenz anche I. Eibl-Eibesfeldt ha trattato il tema
dell'aggressività in particolare nei testi: Amore e odio ed Etologia
della guerra, scritti rispettivamente nel 1971 e nel 1979.
Sono proprio le analogie con Lorenz e l'analisi di tipo etologico che
giustificano la trattazione di questo autore nel presente capitolo, anche
se molti degli sviluppi del suo pensiero, ed in particolare le sue
proposte di intervento sulla società appartengono più propriamente ad un
ambito psicosociale. Quando Eibl-Eibesfeldt parla di aggressività si
esprime in termini di pulsione. Egli ha osservato e studiato
principalmente molte specie di animali e ne conclude che "il
comportamento aggressivo di moltissimi vertebrati è determinato da
adattamenti filogenetici: il modulo basale dei decorsi motori connessi a
tale comportamento si presenta come una coordinazione ereditaria. Inoltre,
il comportamento di lotta non è sempre puramente reattivo: la
spontaneità e l'appetizione della lotta, dimostrabili in animali senza
esperienza sociale, fa concludere in favore di meccanismi
pulsionali." (27)
Per Eibl-Eibesfeldt dunque le ipotesi secondo cui la condotta aggressiva
negli animali è la conseguenza di un procedimento di apprendimento, non
sono sostenibili. D'altra parte però egli sostiene che ciò non vuole
significare che all'apprendimento non competano alcune funzioni nello
sviluppo del comportamento aggressivo. Infatti, come mostrano anche gli
esperimenti di Scott [1974] un topo può diventare molto aggressivo a
seguito di una serie di vittorie nella lotta e, viceversa, meno aggressivo
a seguito di sconfitte.
Per quanto riguarda l'aggressività nell'uomo, Eibl-Eibesfeldt è convinto
che non ci sia al mondo gruppo umano che possa dirsi esente dalla tendenza
aggressiva, contrariamente a quanto afferma per esempio l'antropologa R.
Benedict nel suo libro Modelli di cultura [1934], portando ad esempio gli
indiani Zuni.
In realtà si tratta di definire più chiaramente il significato della
parola aggressività: probabilmente nel caso degli Zuni
l'estensione di questo concetto è stata limitata solo al caso particolare
della lotta armata fra gruppi. Infatti è vero che in questo popolo non ci
sono conflitti di gruppo, ma, allo stesso tempo, esistono invece riti
iniziatici caratterizzati da un estrema crudeltà.
Eibl-Eibesfeldt scrive: "Certo vi sono differenze culturali
nell'aggressività umana: ma una dimostrazione convincente che un gruppo
umano sia completamente esente da aggressività non è stata finora data.
Un tale gruppo potrebbe certamente esistere soltanto in aree riservate
molto protette, o in qualità di minoranza tollerata entro un gruppo più
ampio che ne garantisse la protezione; ma l'aggressività1 come
predisposizione1 pare essere diffusa su tutta la terra." (28)
Così come sostiene Lorenz, anche per Eibl-Eibesfeldt l'aggressività ha
la funzione specifica di delimitare territorialmente i gruppi e formare i
ranghi. Inoltre "l'aggressività territoriale ha promosso
l'espansione dell'uomo sulla terra e il suo insediamento anche in aree
inospiti: i popoli più aggressivi o più progrediti nella tecnologia
delle armi sospingevano gli altri in territori marginali." (29)
Da queste parole risulta innegabile la funzione positiva
dell'aggressività, anche se subito dopo egli afferma che non sempre tutto
ciò che un tempo aveva valore adattivo mantiene nel tempo tale funzione
utile alla conservazione della specie e al bene comune. Intatti può
capitare che i cambiamenti delle condizioni ambientali mutino un
adattamento nel suo contrario, quindi in uno svantaggio dal punto di vista
della selezione. Particolarità del genere umano è l'aggressività messa
in atto per difendere la proprietà intellettuale, le credenze e le
proprie convinzioni; "è l'irraggiamento dell'aggressività nel
dominio dello spirito" (30) che ci fa addirittura diffondere
aggressivamente le idee e persino gli ideali umanitari.
La necessità di vivere in società con gli altri esseri umani induce a
riflettere sul problema del controllo dell'aggressività e Eibl-Fibesfeldt
suggerisce la gerarchia di rango (quella che in Lorenz era definita ordine
gerarchico), come valido mezzo di ordinamento sociale. Egli infatti
sostiene che l'uomo è in grado dì accettare le condizioni che rendono
possibile una gerarchia di rango e questa può evitare gravi lotte e
conflitti tra fratelli e permettere una convivenza senza grossi
perturbamenti.
Un punto sul quale Eibl-Eibesfeldt si differenzia radicalmente da Lorenz
riguarda le modalità di formazione del vincolo tra gli individui. Come
già affermato, per Lorenz, a fondamento di questo legame e in ultima
analisi dell'amore, sta una ri-direzione dell'aggressività, infatti per
il padre dell'etologia l'aggressività precede nel tempo l'amicizia e
l'amore i quali sono completamente derivati, appresi perché necessari
alla sopravvivenza della specie.
Contrariamente a ciò Eibl-Eibesfeldt afferma che "l'amore non è
primariamente figlio dell'aggressività, ma certamente nato insieme allo
sviluppo della cura della prole che ne comprende la difesa; e poiché il
gruppo può essere considerato come una famiglia allargata, la difesa di
gruppo, con le sue forti emozioni, è certo da derivarsi dalla difesa
della prole e della famiglia: la difesa comune della prole (e del gruppo)
lega. Fra gli animali che non curano la prole, come per esempio i rettili
o gli anfibi, non conosciamo né difesa di gruppo né partnership di
lotta; la loro aggressività si differenzia chiaramente, su questo punto,
quella delle specie che hanno cure parentali." (31).
E' chiaro che per Eibl-Eibesfeldt amore e vincolo sono di origine innata,
in quanto strettamente correlati alla cura della prole e non appresi.
Grande attenzione nei suoi studi è dedicata all'analisi dei comportamenti
inibitori e acquietanti dell'aggressività: il saluto e il sorriso che
vengono considerati l'uno come una forma ritualizzata di un impulso
inizialmente aggressivo e poi mutato in modalità per allacciare legami, e
l'altro, allo stesso modo, come modalità che ha lo scopo di fondare un
vincolo, di stabilire un rapporto tra due persone ed evitare così che tra
loro possa instaurarsi un comportamento aggressivo.
Le osservazioni e le considerazioni a riguardo dell'aggressività nei
gruppi sociali odierni (Eibl-Eibesfeldt scrive negli anni '70) confermano
un aumento rilevante dell'aggressività all'interno dei gruppi più che
fra i gruppi stessi. Sono molteplici i fattori che hanno contribuito a
generare questo fenomeno: la società di massa ha portato tra gli uomini
legami sempre più rari e sempre più superficiali; la gerarchia di rango
esistente nei gruppi sociali, fortemente messa in crisi dallo sviluppo di
un sapere critico nei confronti dell'autorità e della tradizione; il
sovraffollamento dovuto allo sviluppo demografico e al prolungamento della
durata della vita..
Queste sono, secondo lui, alcuni dei motivi che hanno causato l'aumento
dell'aggressività nei gruppi; a tale situazione si può rimediare
soltanto attraverso una riorganizzazione sociale che significa migliore
distribuzione dei compiti del lavoro ed una rivalutazione dell'uomo come
persona, possibile tramite il controllo delle nascite, che permette più
spazio e serenità al singolo individuo e attraverso l'incentivazione dei
rapporti di amicizia.
Dunque, le soluzioni proposte non sono, nella sostanza, affatto nuove né
originali.
Egli è convinto che, nonostante tutto ciò, vi siano anche motivi fondati
di ottimismo per la natura umana: "Prendendo in considerazione e
utilizzando le inclinazioni che ci sono innate, la prognosi non è affatto
infausta. Le nostre ricerche etologiche ci hanno intanto mostrato che la
pulsione aggressiva in noi innata ha degli antagonisti naturali: col loro
aiuto siamo in condizione di allacciare e conservare legami con gli altri
uomini nel mondo. E' certo che sussiste in noi una forte pulsione innata
alla socialità." (32) E ancora: "Tramite il rapporto personale
madre-figlio, si sviluppa in noi uomini la fiducia originaria, sulla base
della quale si dispiega l'atteggiamento fondamentale verso la società e
quindi, genericamente, la capacità di un impegno sociale." (33)
Vanno allora rafforzati i legami fra i congeneri e questo è compito della
famiglia.
Dunque il motivo per cui Eibl-Eibesfeldt parla di "ottimismo"
sta nel fatto che l'uomo è, aristotelicamente, per natura, per
predisposizione innata un essere sociale, quindi non porta "in fronte
nessun marchio di Caino" (34), vale a dire che la tesi "homo
homini lupus" è inaccettabile, almeno nella sua interpretazione più
radicale. Ha piuttosto più ragione di esistere la tesi secondo la quale
"noi siamo anche, per natura, degli esseri buoni." (35)
Ha dunque senso parlare di una possibile via alla pacificazione e per
incamminarci su di essa egli propone un intervento di tipo pedagogico,
un'educazione alla pace. A questo punto si aprono vaste prospettive e
molteplici orientamenti programmatici, in linea con i diversi orientamenti
ideologici, che spaziano dal suggerimento di reprimere le tendenze
aggressive, a quello opposto di incentivarle.
Per Eibl-Eibesfeldt è necessario effettuare un programma educativo che
"non smorzi semplicemente gli impulsi aggressivi, bensì li
socializzi in modo tale che essi non vengano impiegati a fini
distruttivi."(36) Per fare questo è importante che i bambini abbiano
la possibilità di fare le proprie esperienze aggressive, per apprenderne
l'effetto di su di sé e sugli altri. Questa convinzione a proposito
dell'atteggiamento che genitori e educatori devono assumere nei confronti
delle manifestazioni aggressive dei bambini è sostenuta da numerosi
psicologi; soprattutto sono i nuovi orientamenti pedagogici che
valorizzano maggiormente, rispetto al passato, questa forma di
espressione, poiché partono dal presupposto che "un bambino
aggressivo è un bambino sano, che cresce bene (...)". (37) Creare
una cultura della pace significa anche educare all'autocontrollo, alla
tolleranza e al rispetto della diversità. Inoltre è importante coltivare
tutte le forze antagoniste all'aggressività: i modelli comportamentali
innati preposti alla formazione del vincolo di gruppo e richiami di
acquietamento con tutta la serie di rituali culturali basati su di essi.
Egli scrive: "La pace è un traguardo che l'umanità può
raggiungere. Essa è conforme alle nostre inclinazioni e noi la
ricerchiamo. E' il fine cui tendono le religioni superiori e le ideologie,
ciascuna delle quali, in questo senso, crede di rappresentare l'interesse
generale." (38)
Dunque si può pensare che l'uomo abbia in sé le potenzialità di volgere
al servizio della pace le funzioni che fino ad ora sono state svolte dalla
guerra.
3.6. R.E. LEAKEY e R. LEWIN: CIRCOSTANZE
AMBIENTALI E PREDISPOSIZIONE GENETICA
Il tema dell'origine dell'aggressività è stato
affrontato anche da due studiosi di archeologia fossile, Richard E. Leakey
e Roger Lewin, che hanno affiancato i loro studi di archeologia dell'uomo
fossile con materiale tratto dall'etologia, dalla paleontologia e
dall'etnologia.
Questi autori si dichiarano contrari alla teoria dell'ereditarietà
dell'istinto aggressivo sostenuta da Konrad Lorenz e divulgata da Robert
Ardrey.
Leakey e Lewin non condividono la tesi secondo la quale nella specie umana
è connaturata una tendenza ineluttabile alla dominazione di un territorio
e all'aggressione.
Essi sostengono l'impossibilità di formulare una teoria sulla natura
umana in modo così preciso, in quanto le prove utilizzate per affermarla
sono assolutamente poco rilevanti per quanto concerne il comportamento
umano e inoltre gli indizi a disposizione mostrano in modo più
convincente la natura cooperativa dell'uomo, piuttosto che quella
aggressiva.
Essi scrivono: "Suggerire, come facciamo, che gli uomini non siano
per natura reciprocamente aggressivi, non implica necessariamente che noi
siamo istintivamente ben disposti verso i nostri simili. Nei gradini più
bassi del regno animale, i conflitti vengono in gran parte risolti
attraverso finte battaglie rituali. Ma procedendo nel sentiero
dell'evoluzione, il comportamento, anche se entro certi limiti, comincia a
dipendere sempre più dall'apprendimento, che negli animali sociali
avviene appunto attraverso l'educazione nell'ambito del gruppo." (39)
Da queste affermazioni emergono forti analogie con l'interpretazione
sostenuta all'interno delle teorie neo-comportamentiste di cui si
tratterà nel 4° capitolo.
Quest'interpretazione non può comunque essere assimilata a quella di
Berkowitz o Bandura perché gli autori attribuiscono un ruolo determinante
al patrimonio genetico che consente all'animale di mettere in pratica un
certo comportamento appreso.
Per Leakey e Lewin "l'uomo non ha una particolare predisposizione né
per l'aggressività né per la concordia, ma è piuttosto la cultura a
tessere la trama delle società umane." (40)
Questo significa che l'aggressività può venire influenzata, indotta o
inibita, da particolari situazioni ambientali, come ad esempio variazioni
nella disponibilità di importanti risorse (spazio, cibo).
Gli autori polemizzano anche con coloro che additano il nostro passato
evolutivo per spiegare ed ancora di più per giustificare l'aggressività
del nostro secolo.
Così anche per la guerra "Non dobbiamo rivolgerci al nostro
patrimonio genetico per cercare i semi della guerra" (41) la quale
venne resa possibile e considerata potenzialmente vantaggiosa quando
l'uomo passò da un modo di vita nomadico tipico dei cacciatori a quello
sedentario degli allevatori e agricoltori.
In questo modo la guerra venne resa possibile, "ma non
inevitabile" (42) ed è proprio qui che interviene il ruolo della
cultura con i suoi valori e le sue ideologie sociali e politiche, con i
suoi diversi gradi di rispetto e tolleranza reciproca. Ne consegue che è
proprio il nostro bisogno in cooperazione collettiva che rende possibili
le guerre.
Per Leakey e Lewin è un non senso voler giustificare la tendenza degli
uomini alla violenza, ricorrendo all'ancestrale istinto della caccia. La
loro ipotesi è che la caccia non ha causato l'aggressività
intraspecifica, ma ha piuttosto favorito la socializzazione. La tesi
dell'ereditarietà dell'istinto aggressiva è "una pericolosa
invenzione" che ha come conseguenza il dispensare "la società
dal tentativo di modificare il male che è nel mondo". (43)
Questa è la critica che con maggior frequenza viene mossa a Lorenz e agli
istintivisti in genere. Anche se, a proposito di questa polemica, Irenaus
Eibl-Eibesfeldt [1979] prende le difese di Lorenz sostenendo che il
fondatore dell'etologia non ha mai parlato di un impulso siffatto
all'aggressività, anzi spesso ha insistito sulla necessità di ricercare
le cause in modo scientifico e sul fatto che se si vuole contrastare
l'istinto aggressivo non bisogna accettarlo come qualcosa di metafisico e
ineluttabile, ma indagarne le cause naturali.
NOTE AL 3° CAPITOLO
(1) BONINO - SAGLIONE, op. cit., pag. 29.
(2) K. LQRENZ, L'aggressività, Oscar Mondadori,
Milano, 1990, pagg. 42-43.
(3) Ibidem, pag. 59.
(4) Ibidem, pag. 75.
(5) Ibidem, pag. 76.
(6) Ibidem, pag. 82.
(7) Ibidem, paq. 103.
(8) Ibidem, pag. 285.
(9) Ibidem.
(10) K. LORENZ, L'anello di Re Salomone, trad. it.
di L. Scwarz, Adelphi, Milano. 1967. pagg. 173-174.
(11) K. LORENZ, L'aggressività, op. cit., pag.
285.
(12) Ibidem, pagg. 315-316.
(13) BONINO - SAGLIONE, op. cit.,, pagg. 87-88.
(14) K. LORENZ, L'aggressività, op. cit., pag.
375.
(15) BONINO - SAGLIONE, op. cit., pag. 33.
(16) E. FROMM, Anatomia della distruttività umana,
op. cit., pag. 55.
(17) Ibidem, pag. 50.
(18) R. ARDREY, L'istinto di uccidere. Le origini e
la natura animale dell'uomo, (1961) tr. it. di L. Formigari, Feltrinelli,
Milano, 1968, pag. 30.
(19) Ibidem, pag. 341.
(20) Ibidem.
(21) Ibidem, pag. 342.
(22) D. MORPIS, La scimmia nuda. Studio zoologico
sull'animale uomo, trad. it. M. Bergami, Bompiani, Milano, 1968, pag. 10.
(23) Ibidem, pag. 187.
(24) Ibidem, pagg. 187-188.
(25) D. MAINARDI, L'animale culturale, Rizzoli ed.,
Milano, 1974, pag. 161.
(26) D. MORRIS, La scimmia nuda, op. cit., pag.
190.
(27) I. EIBL-EIBESFELDT, Amore e odio, trad. it. di
G. Pettenati, Adelphi, Milano, 1971, pag. 94.
(28) Ibidem, pag. 96.
(29) Ibidem, pag. 97.
(30) Ibidem, pag. 99.
(31) Ibidem, pag. 159.
(32) Ibidem, pagg. 286-287.
(33) Ibidem, pag. 287.
(34) Ibìdem, pag. 288.
(35) Ibidem.
(36) I. EIBL-EIBESFELDT, Etologìa della guerra,
tr. it. di G. Longo, Bollati-Boringhieri, Torino, 1990, pag. 238.
(37) E. BELOTTI - E. BIGI, Margherite nella vita di
coppia, CELTIS ed., Brescia, 1989, pag. 176.
(38) I. EIBL-EIBESFELDT, Etologia della guerra, op.
cit., pag. 240.
(39) R.E. LEAKEY - R. LEWIN, Origini. Nascita e
possibile futuro dell'uomo, tr. it. di P. e M.A.Bulgarelli, Laterza, Bari,
1979, pagg. 212-213.
(40) Ibidem, pag. 213.
(41) Ibìdem, pag. 221.
(42) Ibidem.
(43) Ibidem, pag. 10.
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