Pierangela Martina

 

 

Aspetti teorici dell'aggressività

 

 

Capitolo 3

L'aggressività nelle teorie etologiche e biologiche

 

 

 

3.1.         L’ORIGINE DELL’ETOLOGIA

3.2.        K. LORENZ: L’ISTINTO COMBATTIVO

3.3.        R. ARDREY: L’ISTINTO DI UCCIDERE

3.4.        D. MORRIS: L’ANIMALE UOMO

3.5.        I. EIBL - EIBESFELDT: ETOLOGIA DELLA GUERRA

3.6.        P. E. LEARNEY e R. LEWIN: CIRCOSTANZE AMBIENTALI E PREDISPOSIZIONE GENETICA

 

 
 

3.1. L'ORIGINE DELL'ETOLOGIA

L'interpretazione dell'aggressività che si fonda sulla teoria degli istinti considera il comportamento aggressivo come programmato filogeneticamente e quindi non acquisito.
Questo schema di comportamento ha una sua meta propria, il raggiungimento della quale permette la sopravvivenza dell'individuo o della specie.
L'istinto aggressivo era già stato annoverato tra le forze istintuali da Mc Dougall [1908], il quale lo aveva definito "istinto di pugnacità" [Fromm, 1973]. Con il termine "istinto" si vuole intendere un meccanismo nervoso tipico di una determinata specie, sensibile a particolari stimoli interni o esterni che, attraverso un'organizzazione specifica mette in atto movimenti e comportamenti che contribuiscono alla conservazione dell'individuo e della specie. Ciò significa anche che differenti specie hanno differenti istinti.
Non è possibile localizzare l'istinto in uno specifico organo, infatti si preferisce parlare di meccanismo e non di organo, proprio perché uno stesso organo può presiedere a differenti meccanismi.
Oltre alle teorie psicoanalitiche già viste nel capitolo 2°, esiste tutta una serie di ricerche in campo etologico che, partendo dall'ipotesi istintivista, può dare rilevanti contributi allo studio dell'aggressività.
L'etologia come scienza nasce negli anni trenta con i lavori di K. Lorenz e di Tinbergen, che sono fra i maggiori esponenti. Gli etologi studiano la vita degli animali nel loro habitat naturale e in particolare studiano i comportamenti di adattamento dell'animale al suo ambiente, evitando gli artifici della situazione sperimentale del laboratorio. Il metodo usato dagli etologi è ben diverso da quello usato dagli studiosi di psicologia animale, in particolare i comportamentisti, i quali pongono l'animale in situazione sperimentali che stimolano l'apprendimento di nuovi comportamenti.
Etologia, con le parole che Lorenz ha presentato al Congresso mondiale di etologia presso l'Università di Parma, significa semplicemente applicare allo studio del comportamento i classici metodi usati in biologia fin dai tempi di Darwin, e cioè quelli che sulla base delle somiglianze e differenze tra gli esseri viventi tentano di ricostruire l'evoluzione [cit. in Bonino-Saglione, 1978].
Dunque gli etologi seguono un metodo comparativo che però non significa,come molti hanno interpretato, semplice trasposizione tra il comportamento animale e quello umano, o la messa in evidenza del lato animale dell'uomo. L'importanza del metodo comparativo consiste,come giustamente osservano S. Bonino e G. Saglione "nel mostrare come determinati atteggiamenti, metodi e principi che vengono usati nello studio degli animali, possono essere applicati anche nell'uomo" (1) Il metodo più importante è senz'altro quello dell'osservazione diretta, che privilegia la descrizione del fenomeno, prima di passare all'analisi e all'individuazione delle cause.
Erich Fromm è tra coloro che si mostrano molto critici nei confronti del metodo usato in etologia. A proposito dell'opera di Lorenz di cui si tratterà in seguito, E. Fromm scrive: "Il suo metodo principale, comunque, non è tanto quello dell'auto-osservazione, quanto delle analogie ricavate dal confronto del comportamento di certi animali con quello dell'uomo. Scientificamente parlando, tali analogie non dimostrano niente, anche se sono suggestive e gradevoli per chi ama gli animali. [...] Il suo metodo principale è quello dell'analogia: scopre somiglianze fra il comportamento umano e quello degli animali che ha studiato, e ne conclude che entrambi i tipi di comportamento hanno la stessa causa. " (2)
D'altra parte è vero che Lorenz, esasperando il principio della comune origine degli animali, non manca di sottolineare analogie tra uomini e animali tali da indurlo a scrivere che il comportamento di un'oca selvatica innamorata è uguale "fin nei più ridicoli particolari" a quello dell'uomo.

3.2. K. LORENZ: L'ISTINTO COMBATTIVO

Il comportamento aggressivo è fra quelli che hanno attratto maggiormente l'attenzione degli etologi. Nel 1963 K. Lorenz pubblica Das sogenannte Böse. Zur Naturgeschichte der Aggression. Quest'opera ebbe grande fortuna ed ancora oggi è considerata di grande interesse sia per la sua attenta descrizione che per le considerazioni espresse con un linguaggio semplice e comprensibile anche per i non specialisti.
L'aggressività, letta in chiave etologica, è un istinto che esige una scarica periodica; questo è proprio il punto di contatto con la teoria freudiana che, come si è visto, interpreta l'aggressività attraverso un modello idraulico.
Il cambiamento e la selezione sono per Lorenz i fattori che determinano l'evoluzione ed hanno grande importanza nell'organizzare modelli di comportamento che sono funzionali alla specie.
L'istinto aggressivo o combattivo per esempio ha la specifica funzione di garantire la sopravvivenza dell'individuo e della specie.
Lorenz, e gli etologi in genere, sono soliti distinguere l'aggressività rivolta verso individui di specie diversa (rivolta, ad esempio, verso la preda) da quella che si estrinseca nei confronti degli individui della stessa specie (aggressività intra-specifica). Infatti, dal punto di vista della fisiologia del comportamento, la prima è fondamentalmente diversa dalla seconda, in quanto le motivazioni dell'animale che combatte sono del tutto dissimili da quello che caccia. Infatti Lorenz afferma che un cane che avvista una lepre e tenta di acciuffarla mostra esattamente la stessa espressione, fra l'ansioso ed il felice, di quando saluta il suo padrone. Quindi il comportamento aggressivo vero e proprio è solamente quello intra-specifico ed all'origine è, per Lorenz, un impulso biologicamente adattivo, innato e spontaneo che ha una funzione di grande importanza: la conservazione della specie.
Dunque l'aggressività così intesa non è negativa per il mondo animale, ma è uno strumento di organizzazione degli esseri viventi che permette la conservazione della vita, anche se può capitare che a volte rechi distruzione al sistema.
Riferendosi all'espressione di Darwin "la lotta per l'esistenza" Lorenz sostiene che "in realtà la lotta alla quale alludeva Darwin, e che fa progredire l'evoluzione, è in prima linea la concorrenza fra parenti prossimi (lotta intra-specifica) ". (3)
Anche se il vero tema del libro di Lorenz è l'aggressività intra-specifica, egli riferisce anche di casi in cui la lotta è di tipo inter-specifico, sottolineando come in tutti i conflitti di questo tipo la funzione di conservazione della specie è molto più evidente che in quelli intra-specifici.
Egli distingue tre casi di aggressività interspecifica: il comportamento aggressivo del predatore verso la preda; la reazione aggressiva della preda verso il predatore, la "reazione critica" di colui che, attaccato da un nemico più forte, non vedendo altra soluzione, reagisce con la forza della disperazione attaccando l'aggressore.
Ma Lorenz sostiene che vi è un equilibrio naturale interspecifico che viene conservato, equilibrio che invece risulta disturbato nell'uomo.
Dunque, secondo l'analisi di Lorenz, non è il nemico predatore a minacciare direttamente l'esistenza di una specie animale, ma il concorrente. Questa tendenza istintiva verso un comportamento aggressivo è essenziale per l'individuo come per la specie, infatti svolge alcune funzioni fondamentali. La distribuzione degli esseri viventi della stessa specie nello spazio vitale disponibile è utile e necessaria al fine di evitare i pericoli della sovrappopolazione. Scrive Lorenz:
"questa aggressività territoriale, un meccanismo molto semplice dal punto di vista della fisiologia del comportamento, assolve in maniera assolutamente ideale il compito di distribuire animali di una stessa specie con giustizia rispetto a tutto l'insieme di quella specie, per tutta l'area disponibile. Anche il più debole, sia pure in uno spazio più ristretto, può esistere e riprodursi". (4)
Dunque gran parte degli impulsi aggressivi viene utilizzata per la conservazione del territorio nel quale l'animale compie le più importanti attività biologiche, fra cui, appunto, quella della riproduzione e della nidificazione.
All'inizio della stagione della riproduzione, l'animale maschio sceglie generalmente un suo territorio: quando un altro maschio si avvicina ai confini di esso, viene minacciato e, se non fugge, viene decisamente attaccato.
Il confine del territorio viene segnato con metodi diversi a seconda della specie. Molti uccelli, ad esempio, usano il metodo acustico, cioè i maschi cantando avvertono gli altri individui che quel territorio è occupato. Questo segnale ha la duplice funzione di allontanare i maschi e di attirare le femmine, di modo che il territorio da individuale diventa familiare.
Alcuni mammiferi (topo, cane, ecc.) segnano il territorio con l'odore della loro urina, altri (giaguaro) incidono la corteccia degli alberi, altri ancora (alcune antilopi) depongono sui cespugli, sulle rocce o per terra una secrezione di alcune ghiandole situate intorno all'orbita.
Quando l'animale varca i confini del suo territorio prova un sentimento di insicurezza, diventa irrequieto, mostra paura; mentre quando si trova nel suo territorio è più coraggioso ed aggressivo e mette in fuga intrusi persino più forti di lui.
Un'altra funzione dell'istinto aggressivo è quella della selezione attraverso il combattimento tra rivali.
Si tratta di una selezione sessuale degli individui più orti, che ha lo scopo di eliminare gli elementi meno dotati per migliorare il livello della qualità della specie ed è anche strettamente connessa alla difesa della discendenza. "Già Charles Darwin aveva giustamente riconosciuto che la selezione sessuale, la salvezza dei più forti e migliori animali per la riproduzione, si realizza sostanzialmente attraverso i combattimenti degli animali rivaleggianti, soprattutto dei maschi. La forza del padre offre naturalmente un'immediata garanzia per la buona riuscita della prole di quelle specie in cui egli partecipa attivamente alla cura dei piccoli e soprattutto alla loro protezione". (5) L'aggressività interviene anche nel regolare e dirigere il comportamento dell'individuo nella società in cui vive, attraverso un principio ordinatore che permette una normale convivenza. Questo principio è definito da Lorenz "principio gerarchico" e rappresenta la coscienza di ognuno di quelle che sono le proprie possibilità di difesa e quindi di vita. E' normale che in ogni gruppo i singoli tendano a collocarsi in una gerarchia per cui "ognuno degli individui viventi nella comunità sa quale degli altri è più forte o più debole di lui, in modo che ognuno si possa tirare indietro senza lottare davanti al più forte, e possa a sua volta pretendere che il più debole di lui si ritiri senza lottare ogni volta che si incontrino". (6)
E' evidente che mediante questo principio gerarchico molte occasioni di lotta, per esempio per il possesso del cibo, tra due individui dello stesso gruppo, vengono notevolmente limitate per via "naturale". Ci sono poi aspetti molto curiosi e singolari che attendono sempre al principio gerarchico. Lorenz ha osservato che se, in un gruppo di cornacchie, una femmina di "basso rango sociale" si accoppia con un maschio di più alta condizione, automaticamente aumenta la sua considerazione presso gli altri componenti del gruppo.
Indipendentemente dalla funzione che svolge, l'aggressività per Lorenz è un istinto ineliminabile e quindi non può essere soppresso, ma può essere reso meno dannoso attraverso dei processi di ri-direzione. Infatti scrive: "La ri-direzione dell'attacco è l'espediente più geniale che l'evoluzione abbia inventato per costringere l'aggressività su binari innocui."(7)  Per definire tale meccanismo Lorenz si serve del termine ritualizzazione, intendendo che certi comportamenti perdono nel corso della filogenesi la loro originale funzione per diventare pure cerimonie simboliche, puri movimenti rituali. Sono comportamenti "stereotipati e convenzionalizzati" di sottomissione e di pacificazione che provocano nell'aggressore (compagno di specie) l'inibizione della spinta aggressiva. Il rito ha quindi la funzione di opporsi all'aggressività, di dirottarla verso canali innocui e frenarne i suoi esiti dannosi alla conservazione della specie.
Questo primitivo meccanismo inibitore costituisce una prima forma di comunicazione e genera un "vincolo personale", in quanto gli animali, che sono per natura aggressivi, hanno avuto la necessità di collaborare per difendere il territorio e la prole dunque per conservare la specie. La comunicazione che nasce dalla ritualizzazione e che serve a inibire l'aggressività, favorisce la comprensione reciproca. Scrive Lorenz: "Un vincolo personale, un'amicizia individuale si trovano soltanto negli animali con un'aggressività intra-specifica altamente sviluppata, anzi questo vincolo è tanto più saldo quanto più aggressiva è la rispettiva specie animale." (8) Lorenz riporta l'esempio del corteggiamento dei ciclidi, pesci ossei di acqua dolce, osservando come le femmine assumono comportamenti innescanti il combattimento nei maschi eccitati, i quali lo attuano contro un altro compagno di specie che si trova nelle vicinanze. Questo è anche ciò che succede ad un uomo esasperato che pesta il pugno sul tavolo piuttosto che in viso a colui che lo ha fatto arrabbiare, proprio perché la rabbia pretende una via d'uscita nonostante certi meccanismi d'inibizione.
Ai fini della tesi di Lorenz assumono grande importanza moti di pacificazione ri-diretti che deviano l'aggressione da certi individui ad altri e comunicano all'avversario la propria disposizione pacifica, ad empio attraverso il riso. In questo modo per Lorenz si pongono le basi per rapporti esclusivi e costanti paragonati all'amicizia ed all'amore. "Il vincolo personale, l'amore, s'è formato senza dubbio in molti casi da aggressività intra-specifica, in diversi casi noti attraverso ritualizzazioni di un attacco o di una minaccia ri-diretti. Dato che i riti così formatisi sono legati alla persona del compagno e dato che poi in qualità di azioni istintive indipendenti diventando un bisogno, essi rendono anche la presenza del compagno un bisogno insopprimibile e il compagno stesso l'animale con la valenza di casa." (9)
Anche gli atteggiamenti di sottomissione sono importanti al fine di frenare l'aggressione; essi sono costituiti da quei moduli comportamentali mediante i quali un individuo riconosce la superiorità del nemico e cessa il combattimento mostrandogli, a volte, un punto vitale del proprio corpo. Il lupo per esempio offre all'avversario che gli è superiore il lato marcato estremamente vulnerabile del suo collo, così come il cane sembra implorare il nemico per ottenere la grazia offrendogli le sue vene giugulari.
Scrive Lorenz in L'anello di Re Salomone: "C'è proprio qualcosa da imparare anche per noi uomini! Io per lo meno ne ho tratto una nuova e più profonda comprensione di un meraviglioso detto del Vangelo che spesso viene frainteso e che finora aveva suscitato in me solo una forte resistenza istintiva: "se qualcuno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra .. ". L'illuminazione mi è venuta da un lupo: non per ricevere un altro schiaffo, devi offrire al nemico l'altra guancia, no, devi offrirgliela proprio per impedirgli di dartela." (10)
E' significativo osservare come i freni che bloccano l'aggressività degli animali nei confronti dei soggetti appartenenti alla stessa specie, sono maggiormente sviluppati nei predatori i quali sono provvisti di armi potenti.
E sono proprio gli animali dotati di una forte aggressività intraspecifica quelli che maggiormente sviluppano i vincoli personali che si possono definire di amicizia e di amore. Per Lorenz l'aggressività sarebbe filogeneticamente più antica dell'amore "L'aggressività intra-specifica è di milioni d'anni più vecchia dell'amicizia personale e dell'amore [...]. Si dà quindi benissimo l'aggressività intra-specifica senza il suo antagonista, l'amore, ma viceversa non c'è amore senza aggressività." (11)
Per tutti questi motivi Lorenz sembra convinto che nel mondo animale non esista un reale pericolo che una specie si estingua a causa dell'aggressività. Nell'uomo invece questo pericolo è assai presente infatti Lorenz sostiene che nel caso del genere umano il ritmo dello sviluppo naturale ha creato condizioni alle quali l'uomo non è filogeneticamente preparato. Nella specie umana mancano infatti molti dei meccanismi autoinibitori dell'aggressività presenti nelle specie inferiori. Il comportamento aggressivo diventa fine a se stesso, perde il suo carattere di conservazione della specie e si trasforma in cieca distruttività intraspecifica. Lorenz individua alcune cause dello squilibrio fra l'enorme potenzialità offensiva e i meccanismi istintivi di inibizione, squilibrio che rappresenta uno spaventoso pericolo per l'umanità. Accanto alla difficoltà di adattarsi alla vita moderna, con i suoi ritmi frenetici e i suoi sforzi ridotti e i conseguenti squilibri nella convivenza sociale, Lorenz individua nella sempre maggior disponibilità di armi e nel particolare tipo di queste un possibile incentivo alla distruttività. Infatti l'uso delle moderne armi comandate a distanza esclude il contatto diretto cori l'aggredito e questo ne aumenta la pericolosità. "L'uomo che preme il pulsante d'innesco è così totalmente schermato dal vedere, sentire o altrimenti realizzare emozionalmente le conseguenze della sua azione che la può compiere con impunità, anche se è afflitto del peso di una buona immaginazione. Soltanto così si può spiegare come un buon uomo, che non riuscirebbe quasi a dare uno scapaccione ben meritato a un bambino discolo, si ritrovi senz'altro il coraggio di lanciare missili o di stendere tappeti di bombe incendiarie su città addormentate, condannando così ad una terribile morte fra le fiamme centinaia e migliaia di amabili bambini." (12)
Anche per S. Bonino - G. Saglione [1978] è necessario chiedersi per quali ragioni nella specie umana la ritualizzazione dell'aggressività sia così difficoltosa. Infatti scrivono: "La ragione basilare per cui il comportamento dell'uomo è scarsamente ritualizzato è a nostro parere da ricercarsi nella plasticità tipica dell'uomo. Rispetto agli animali l'uomo non viene alla luce con un corredo di reazioni rigide e stereotipate, programmate e poco variabili. L'uomo è invece, come più volte abbiamo già notato, scarsamente dotato sul piano istintuale; anche i comportamenti filogeneticamente determinati sono nell'uomo più plastici e maggiormente legati alle influenze ambientali e dell'ontogenesi. Questa plasticità è alla base del prodigioso sviluppo e della stupefacente complessità del comportamento umano, capace di far fronte alle situazioni più nuove e insospettate. [...] La rigida determinazione del comportamento è inversamente proporzionale all'evoluzione filogenetica. Una reazione rigidamente stereotipata e preordinata è alla base di un equilibrio labile, che non è in grado di tener conto delle variazioni di una situazione e di adattarvisi plasticamente." (13)
Dunque per l'uomo, forse assai di più che per l'animale, è illusorio sperare che il rimedio all'aggressività consista nel tenersi lontano dalle situazioni che la innescano. L'aggressività esplode anche in mancanza di condizioni ambientali scatenanti; infatti l'individuo inquieto che sente aumentare in sé la rabbia, è disposto a cercare, persino ad immaginare, le più piccole occasioni atte ad innescarle (comportamento appetitivo).
Allora l'unica soluzione appare quella di incanalare l'aggressività, ri-dirigendola verso forme di scarica periodica come ad esempio le competizioni sportive, l'entusiasmo per la scienza e per le arti. Si tratta, per Lorenz, di una vera e propria catarsi, di una ritualizzazione che ha come scopo quello di impedire gli effetti dell'aggressione socialmente dannosa e mantenere invece invariate le funzioni per la conservazione della specie umana.
Per fare ciò è necessario che l'uomo si appelli alle sue facoltà razionali in modo da educarsi ad un controllo cosciente e responsabile della sua istintiva pulsione alla lotta.
Lorenz conclude la sua opera con una grande dichiarazione di speranza: speranza nella selezione naturale e speranza nella razionalità umana. Scrive: "Sappiamo che nell'evoluzione dei vertebrati il vincolo dell'amore personale e dell'amicizia fu un'invenzione che fece epoca, creata da due grandi costruttori quando divenne necessario per due o più individui d'una specie aggressiva vivere pacificamente insieme e cooperare ad un fine comune. Sappiamo che la società umana si è costituita sulle fondamenta di questo vincolo, ma dobbiamo accettare il fatto che il vincolo è diventato troppo limitato per comprendere tutto quanto dovrebbe: blocca l'aggressione soltanto fra quanti si conoscono fra loro e sono amici1 mentre si tratta di bloccare le ostilità tra gli uomini di tutte le nazioni e di tutte le ideologie. L'ovvia conclusione è che l'amore e l'amicizia dovrebbero abbracciare tutta l'umanità, che tutti noi dovremmo indiscriminatamente amare tutti i nostri fratelli umani. Questo non è un comandamento nuovo. (…) Credo nel potere della ragione umana, come credo nel potere della selezione naturale. Credo che la ragione può e vorrà esercitare una pressione selettiva nella direzione giusta. Credo che in un futuro non troppo lontano questo doterà i nostri discendenti della facoltà di adempiere il più grande e il più bello di tutti i comandamenti. (14)
E' certamente lecito il dubbio di chi può ritenere utopistiche e prive di indicazioni concrete per quanto concerne l'attuazione di strategie articolate di prevenzione dell'aggressività, come anche può essere condivisibile la critica di chi ravvisa caratteristiche di pregiudizialità nell'affermazione dei presupposti innatistici dell'aggressività stessa.
Tuttavia Lorenz "come del resto tutta la corrente etologica, ha il merito di aver chiarito che l'aggressività non dipende solo dall'ambiente e che essa non ha carattere distruttivo dal punto di vista biologico e negativo dal punto di vista morale. E' un fatto innegabile che l'aggressività svolge un ruolo importante nello spingere l'uomo a raggiungere sempre nuovi traguardi." (15)
Una critica dettagliata alle teorie di Lorenz viene formulata da E. Fromm (1973) che non perde l'occasione per sottolineare come l'esasperato darwinismo di Lorenz abbia viziato l'analisi che egli ha condotto sull'aggressività: "Il Darwinismo sociale e morale predicato da Lorenz è un romantico paganesimo nazionalista che tende ad osservare la vera comprensione dei fattori biologici, psicologici e sociali determinanti per l'aggressione umana." (16)
Attraverso un confronto con la tesi freudiana espressa in Perché la guerra? (1933) Fromm individua un'analogia fra i due autori istintivisti: nessuno dei due è soddisfatto della conclusione a cui è giunto e cioè che la guerra è inestirpabile perché risultato di un istinto. Ma Fromm si mostra molto polemico nei confronti del discorso sviluppato da Lorenz che egli considera poco originale in quanto i suggerimenti che l'etologo fornisce "non si spingevano oltre il cliché abusato dei semplici precetti" (…) " (17) senza dare indicazioni valide sul come fare per evitare la guerra e l'ostilità fra le persone.
Fromm dedica tutta la parte seconda del suo libro alle prove contro le tesi istintiviste avvalendosi di studi di neurofisiologia, psicologia animale, paleontologia e antropologia che non confermano l'ipotesi secondo la quale l'uomo è dotato di una pulsione aggressiva innata.

3.3. R. ARDREY: L'ISTINTO DI UCCIDERE

Robert Ardrey, drammaturgo e antropologo, si è occupato del nesso tra aggressività e origine dell'uomo, soprattutto nel suo libro intitolato L'istinto di uccidere, noto in particolare per il suo carattere divulgativo e per l'originalità delle tesi sostenute.
Egli si rifà principalmente al pensiero di Raymond Dart, un professore di anatomia, che nel 1924 scoprì i resti di un ominide, che poi chiamò Australopithecus africanus. Il professor Dart, studiando i resti di una quarantina di babbuini rinvenuti in Tanzania, dedusse che l'australopiteco (due milioni di anni fa) usava già le armi e precisamente il femore di un'antilope. Sarebbe stato, dunque, l'uso delle armi e l'attività predatoria dell'australopiteco a favorire il suo sviluppo biopsichico nel corso del tempo fino ad arrivare all'homo sapiens.
Riportando le parole di Dart, Ardrey scrive: "Molto tempo fa, forse molti milioni di anni or sono, una progenie di scimmie era scaturita dal tronco dei primati non aggressivi. Per ragioni di necessità ambientale, esse adottavano consuetudini predatorie. Per ragioni di necessità predatoria esse progredirono. Così imparammo in primo luogo a stare in posizione eretta, per le necessità di una vita predatoria. Imparammo a correre in cerca di selvaggina attraverso la gialla savana africana. Le nostre mani erano ormai libere di colpire e lanciare, non avevamo più bisogno di un muso prominente, e così esso scomparve. E, mancando di denti ed artigli atti alla lotta, ricorremmo per necessità all'uso delle armi. Un sasso, un bastone, un osso pesante, per la scimmia assassina nostra antenata significarono il margine della sopravvivenza. Ma l'uso delle armi significava nuove e sempre più numerose esigenze di coordinazione dei muscoli, del tatto e della vista, per il sistema nervoso. E così nacque finalmente il cervello grande, così finalmente nacque l'uomo." (18)
Da queste poche righe risulta chiara la tesi secondo la quale non è l'uomo ad aver creato l'arma, ma viceversa, è l'arma che ha creato l'uomo.
Ardrey ne deduce allora che per l'uomo è essenziale l'uso delle armi, cioè l'uccidere, in quanto proprio questa necessità è stata il motore della sua evoluzione. Ardrey, nell'ultimo capitolo intitolato significativamente I figli di Caino avanza l'ipotesi sulle possibili conseguenze di una guerra nucleare: lo sterminio di centinaia di milioni di persone avrebbe come conseguenza una notevole inibizione dell'istinto ad usare le armi. E questo è proprio il punto critico: può l'uomo sopravvivere senza armi? Ardrey si pone questo interrogativo, anche se sembra avere già chiara la risposta. Egli si domanda: "Come potremmo tirare avanti senza la guerra? [...] E' la sola domanda relativa al futuro che abbia un minimo di realismo, nell'età nostra; perché, se non riusciamo a tirare avanti senza la guerra, il futuro sarà carente di problemi umani come di uomini. [...] Che cosa accadrebbe ad una specie alla quale venisse meno, nel futuro, il principale mezzo di espressione, anzi il suo unico mezzo, in ultima istanza, per risolvere i conflitti? Che cosa accadrebbe di una specie che ha consacrato le sue principali esigenze al perfezionamento e al conflitto delle armi, e adesso giunge alla fine d'una strada dove non è possibile più miglioramento o confitto?" (19)
Qui Ardrey mostra di avere poca fiducia nel genere umano e nelle sue capacità creative. Il suo ragionamento parte dall'analisi di alcuni fatti storici nei quali le guerre e le battaglie hanno da una parte permesso il progredire del Cristianesimo e della civiltà e dall'altra hanno ottenuto la libertà per i popoli. Questi, secondo Ardrey, sono dati di fatto, dai quali bisogna partire, senza scandalizzarci o "avere troppa fretta nel liquidare la guerra come un male assoluto".(20)
L'eterno conflitto delle armi è per lui l'unico mezzo che l'uomo ha utilizzato per le decisioni ultime: "Chiunque può suggerire ragionevoli alternative al giudizio delle armi. Ma poi non siamo creature della ragione se non ai nostri stessi occhi." (21)
Dunque, né la civiltà, né la ragione sembrano poter offrire ancore di salvezza all'umanità condannata per natura al conflitto delle armi; pena la sua estinzione.

3.4. D. MORRIS: L'ANIMALE UOMO

Basandosi sempre sugli studi di paleontologia e di etologia comparata integrati dall'osservazione diretta del comportamento umano, anche Desmond Morris, uno zoologo inglese, ha condotto le sue ricerche orientandosi soprattutto verso l'osservazione di quei comportamenti istintivi che, secondo lui, mantengono ancora l'impronta dei nostri antichissimi progenitori animali. Il suo metodo "consiste soprattutto nel non tener conto delle ramificazioni particolareggiate della tecnologia e della verbalizzazione e nel concentrarsi in quegli aspetti della nostra esistenza che hanno un evidente corrispettivo in altre specie, attività cioè come il modo di nutrirsi, di pulirsi, di dormire, di combattere, di accoppiarsi e di aver cura dei piccoli." (22)
Nella sua opera dal provocatorio titolo La scimmia nuda. Studio zoologico sull'animale uomo [1968], Morris sostiene la tesi che l'uomo ha fatto ricorso alle armi artificiali originariamente per usarle come mezzo di difesa contro altre specie e per uccidere le prede: quindi per esplicare l'aggressività interspecifica.
Solo in un secondo momento le armi artificiali vennero usate anche nell'ambito della lotta intraspecifica e vennero sempre più perfezionate soprattutto nel senso che la distanza tra l'assalito e l'assalitore poté diventare sempre maggiore e questo "per poco non fu la nostra rovina". (23)
Infatti egli sostiene che sia l'uomo, sia gli animali hanno i medesimi comportamenti nelle situazioni di lotta, negli atti di minaccia, di "ritualizzazione", di pacificazione ecc., ma l'unica differenza consiste nel fatto che l'uomo, attraverso la tecnologia, ha imparato a combattere a distanza e questo ha tutta una serie di conseguenze molto pericolose per il genere umano.
Scrive infatti: "[...] il giusto scopo dell'aggressione intra-specifica a livello biologico consiste nel sotto-mettere il nemico, non nell'ucciderlo. Le fasi finali dell'uccisione vengono evitate in quanto il nemico fugge, oppure si sottomette. In entrambi i casi lo scontro finisce e la controversia è risolta. Quando invece l'attacco viene effettuato da una distanza che non consente che i segnali di pacificazione del perdente vengano decifrati dal vincitore, l'aggressione continua ad infuriare violentemente. Può risolversi solo mediante un confronto diretto, accompagnato da una degradante sottomissione o da una fuga precipitosa del nemico. Nelle moderne aggressioni a distanza, non si può osservare nessuno dei due casi, per cui il risultato consiste in uno sterminio di entità sconosciuta in qualunque altra specie. [...] Quando migliorammo questa importante caratteristica in rapporto alla preda da cacciare, essa ci fu molto utile, ma adesso ci si è ritorta contro." (24)
Del medesimo parere è anche D. Mainardi quando scrive: "... la nostra enorme abilità di produrre arnesi che uccidono a lunga distanza vanifica totalmente i segnali di resa, di sottomissione, di paura, che in una situazione naturale possono bloccare un'azione di aggressività". (25)
Per evitare che questo fatto ci porti ad una rapida estinzione della specie Morris propone una serie di soluzioni: un massiccio e reciproco disarmo, l'eliminazione del patriottismo dei diversi gruppi sociali, fornire e favorire sostituti innocui e simbolici della guerra, migliorare il controllo intellettivo della tendenza aggressiva. Queste soluzioni rivelano tutte dei limiti di efficacia e applicabilità per cui Morris ritiene ce "l'unico modo di risolvere il problema in maniera biologicamente sana consiste in un massiccio spopolamento o in una rapida diffusione della nostra razza su altri pianeti, se possibile associata all'effettuazione delle altre azioni già dette." (26)
Se invece la popolazione continuerà ad aumentare con la stessa spaventosa rapidità di oggi, l'aggressività si svilupperà in maniera incontrollabile e drammatica. Il sovraffollamento eccessivo causerà uno stress e una tensione sociale che distruggeranno l'organizzazione della nostra comunità, operando direttamente contro il miglioramento del controllo intellettivo ed aumentando paurosamente le probabilità di un'esplosione emotiva.
Per Norris questa tendenza si può prevenire soltanto con una notevole diminuzione del numero delle nascite.
Dunque la soluzione proposta non lascia adito ad equivoci, anche se è lecito nutrire dei dubbi sull'efficacia di questa proposta.

3.5. I. EIBL - EIBESFELDT: ETOLOGIA DELLA GUERRA

Utilizzando in parte schemi interpretativi analoghi a quelli di Lorenz anche I. Eibl-Eibesfeldt ha trattato il tema dell'aggressività in particolare nei testi: Amore e odio ed Etologia della guerra, scritti rispettivamente nel 1971 e nel 1979.
Sono proprio le analogie con Lorenz e l'analisi di tipo etologico che giustificano la trattazione di questo autore nel presente capitolo, anche se molti degli sviluppi del suo pensiero, ed in particolare le sue proposte di intervento sulla società appartengono più propriamente ad un ambito psicosociale. Quando Eibl-Eibesfeldt parla di aggressività si esprime in termini di pulsione. Egli ha osservato e studiato principalmente molte specie di animali e ne conclude che "il comportamento aggressivo di moltissimi vertebrati è determinato da adattamenti filogenetici: il modulo basale dei decorsi motori connessi a tale comportamento si presenta come una coordinazione ereditaria. Inoltre, il comportamento di lotta non è sempre puramente reattivo: la spontaneità e l'appetizione della lotta, dimostrabili in animali senza esperienza sociale, fa concludere in favore di meccanismi pulsionali." (27)
Per Eibl-Eibesfeldt dunque le ipotesi secondo cui la condotta aggressiva negli animali è la conseguenza di un procedimento di apprendimento, non sono sostenibili. D'altra parte però egli sostiene che ciò non vuole significare che all'apprendimento non competano alcune funzioni nello sviluppo del comportamento aggressivo. Infatti, come mostrano anche gli esperimenti di Scott [1974] un topo può diventare molto aggressivo a seguito di una serie di vittorie nella lotta e, viceversa, meno aggressivo a seguito di sconfitte.
Per quanto riguarda l'aggressività nell'uomo, Eibl-Eibesfeldt è convinto che non ci sia al mondo gruppo umano che possa dirsi esente dalla tendenza aggressiva, contrariamente a quanto afferma per esempio l'antropologa R. Benedict nel suo libro Modelli di cultura [1934], portando ad esempio gli indiani Zuni.
In realtà si tratta di definire più chiaramente il significato della parola aggressività: probabilmente nel caso degli Zuni l'estensione di questo concetto è stata limitata solo al caso particolare della lotta armata fra gruppi. Infatti è vero che in questo popolo non ci sono conflitti di gruppo, ma, allo stesso tempo, esistono invece riti iniziatici caratterizzati da un estrema crudeltà.
Eibl-Eibesfeldt scrive: "Certo vi sono differenze culturali nell'aggressività umana: ma una dimostrazione convincente che un gruppo umano sia completamente esente da aggressività non è stata finora data. Un tale gruppo potrebbe certamente esistere soltanto in aree riservate molto protette, o in qualità di minoranza tollerata entro un gruppo più ampio che ne garantisse la protezione; ma l'aggressività1 come predisposizione1 pare essere diffusa su tutta la terra." (28)
Così come sostiene Lorenz, anche per Eibl-Eibesfeldt l'aggressività ha la funzione specifica di delimitare territorialmente i gruppi e formare i ranghi. Inoltre "l'aggressività territoriale ha promosso l'espansione dell'uomo sulla terra e il suo insediamento anche in aree inospiti: i popoli più aggressivi o più progrediti nella tecnologia delle armi sospingevano gli altri in territori marginali." (29)
Da queste parole risulta innegabile la funzione positiva dell'aggressività, anche se subito dopo egli afferma che non sempre tutto ciò che un tempo aveva valore adattivo mantiene nel tempo tale funzione utile alla conservazione della specie e al bene comune. Intatti può capitare che i cambiamenti delle condizioni ambientali mutino un adattamento nel suo contrario, quindi in uno svantaggio dal punto di vista della selezione. Particolarità del genere umano è l'aggressività messa in atto per difendere la proprietà intellettuale, le credenze e le proprie convinzioni; "è l'irraggiamento dell'aggressività nel dominio dello spirito" (30) che ci fa addirittura diffondere aggressivamente le idee e persino gli ideali umanitari.
La necessità di vivere in società con gli altri esseri umani induce a riflettere sul problema del controllo dell'aggressività e Eibl-Fibesfeldt suggerisce la gerarchia di rango (quella che in Lorenz era definita ordine gerarchico), come valido mezzo di ordinamento sociale. Egli infatti sostiene che l'uomo è in grado dì accettare le condizioni che rendono possibile una gerarchia di rango e questa può evitare gravi lotte e conflitti tra fratelli e permettere una convivenza senza grossi perturbamenti.
Un punto sul quale Eibl-Eibesfeldt si differenzia radicalmente da Lorenz riguarda le modalità di formazione del vincolo tra gli individui. Come già affermato, per Lorenz, a fondamento di questo legame e in ultima analisi dell'amore, sta una ri-direzione dell'aggressività, infatti per il padre dell'etologia l'aggressività precede nel tempo l'amicizia e l'amore i quali sono completamente derivati, appresi perché necessari alla sopravvivenza della specie.
Contrariamente a ciò Eibl-Eibesfeldt afferma che "l'amore non è primariamente figlio dell'aggressività, ma certamente nato insieme allo sviluppo della cura della prole che ne comprende la difesa; e poiché il gruppo può essere considerato come una famiglia allargata, la difesa di gruppo, con le sue forti emozioni, è certo da derivarsi dalla difesa della prole e della famiglia: la difesa comune della prole (e del gruppo) lega. Fra gli animali che non curano la prole, come per esempio i rettili o gli anfibi, non conosciamo né difesa di gruppo né partnership di lotta; la loro aggressività si differenzia chiaramente, su questo punto, quella delle specie che hanno cure parentali." (31).
E' chiaro che per Eibl-Eibesfeldt amore e vincolo sono di origine innata, in quanto strettamente correlati alla cura della prole e non appresi.
Grande attenzione nei suoi studi è dedicata all'analisi dei comportamenti inibitori e acquietanti dell'aggressività: il saluto e il sorriso che vengono considerati l'uno come una forma ritualizzata di un impulso inizialmente aggressivo e poi mutato in modalità per allacciare legami, e l'altro, allo stesso modo, come modalità che ha lo scopo di fondare un vincolo, di stabilire un rapporto tra due persone ed evitare così che tra loro possa instaurarsi un comportamento aggressivo.
Le osservazioni e le considerazioni a riguardo dell'aggressività nei gruppi sociali odierni (Eibl-Eibesfeldt scrive negli anni '70) confermano un aumento rilevante dell'aggressività all'interno dei gruppi più che fra i gruppi stessi. Sono molteplici i fattori che hanno contribuito a generare questo fenomeno: la società di massa ha portato tra gli uomini legami sempre più rari e sempre più superficiali; la gerarchia di rango esistente nei gruppi sociali, fortemente messa in crisi dallo sviluppo di un sapere critico nei confronti dell'autorità e della tradizione; il sovraffollamento dovuto allo sviluppo demografico e al prolungamento della durata della vita..
Queste sono, secondo lui, alcuni dei motivi che hanno causato l'aumento dell'aggressività nei gruppi; a tale situazione si può rimediare soltanto attraverso una riorganizzazione sociale che significa migliore distribuzione dei compiti del lavoro ed una rivalutazione dell'uomo come persona, possibile tramite il controllo delle nascite, che permette più spazio e serenità al singolo individuo e attraverso l'incentivazione dei rapporti di amicizia.
Dunque, le soluzioni proposte non sono, nella sostanza, affatto nuove né originali.
Egli è convinto che, nonostante tutto ciò, vi siano anche motivi fondati di ottimismo per la natura umana: "Prendendo in considerazione e utilizzando le inclinazioni che ci sono innate, la prognosi non è affatto infausta. Le nostre ricerche etologiche ci hanno intanto mostrato che la pulsione aggressiva in noi innata ha degli antagonisti naturali: col loro aiuto siamo in condizione di allacciare e conservare legami con gli altri uomini nel mondo. E' certo che sussiste in noi una forte pulsione innata alla socialità." (32) E ancora: "Tramite il rapporto personale madre-figlio, si sviluppa in noi uomini la fiducia originaria, sulla base della quale si dispiega l'atteggiamento fondamentale verso la società e quindi, genericamente, la capacità di un impegno sociale." (33) Vanno allora rafforzati i legami fra i congeneri e questo è compito della famiglia.
Dunque il motivo per cui Eibl-Eibesfeldt parla di "ottimismo" sta nel fatto che l'uomo è, aristotelicamente, per natura, per predisposizione innata un essere sociale, quindi non porta "in fronte nessun marchio di Caino" (34), vale a dire che la tesi "homo homini lupus" è inaccettabile, almeno nella sua interpretazione più radicale. Ha piuttosto più ragione di esistere la tesi secondo la quale "noi siamo anche, per natura, degli esseri buoni." (35)
Ha dunque senso parlare di una possibile via alla pacificazione e per incamminarci su di essa egli propone un intervento di tipo pedagogico, un'educazione alla pace. A questo punto si aprono vaste prospettive e molteplici orientamenti programmatici, in linea con i diversi orientamenti ideologici, che spaziano dal suggerimento di reprimere le tendenze aggressive, a quello opposto di incentivarle.
Per Eibl-Eibesfeldt è necessario effettuare un programma educativo che "non smorzi semplicemente gli impulsi aggressivi, bensì li socializzi in modo tale che essi non vengano impiegati a fini distruttivi."(36) Per fare questo è importante che i bambini abbiano la possibilità di fare le proprie esperienze aggressive, per apprenderne l'effetto di su di sé e sugli altri. Questa convinzione a proposito dell'atteggiamento che genitori e educatori devono assumere nei confronti delle manifestazioni aggressive dei bambini è sostenuta da numerosi psicologi; soprattutto sono i nuovi orientamenti pedagogici che valorizzano maggiormente, rispetto al passato, questa forma di espressione, poiché partono dal presupposto che "un bambino aggressivo è un bambino sano, che cresce bene (...)". (37) Creare una cultura della pace significa anche educare all'autocontrollo, alla tolleranza e al rispetto della diversità. Inoltre è importante coltivare tutte le forze antagoniste all'aggressività: i modelli comportamentali innati preposti alla formazione del vincolo di gruppo e richiami di acquietamento con tutta la serie di rituali culturali basati su di essi. Egli scrive: "La pace è un traguardo che l'umanità può raggiungere. Essa è conforme alle nostre inclinazioni e noi la ricerchiamo. E' il fine cui tendono le religioni superiori e le ideologie, ciascuna delle quali, in questo senso, crede di rappresentare l'interesse generale." (38)
Dunque si può pensare che l'uomo abbia in sé le potenzialità di volgere al servizio della pace le funzioni che fino ad ora sono state svolte dalla guerra.

3.6. R.E. LEAKEY e R. LEWIN: CIRCOSTANZE AMBIENTALI E PREDISPOSIZIONE GENETICA

Il tema dell'origine dell'aggressività è stato affrontato anche da due studiosi di archeologia fossile, Richard E. Leakey e Roger Lewin, che hanno affiancato i loro studi di archeologia dell'uomo fossile con materiale tratto dall'etologia, dalla paleontologia e dall'etnologia.
Questi autori si dichiarano contrari alla teoria dell'ereditarietà dell'istinto aggressivo sostenuta da Konrad Lorenz e divulgata da Robert Ardrey.
Leakey e Lewin non condividono la tesi secondo la quale nella specie umana è connaturata una tendenza ineluttabile alla dominazione di un territorio e all'aggressione.
Essi sostengono l'impossibilità di formulare una teoria sulla natura umana in modo così preciso, in quanto le prove utilizzate per affermarla sono assolutamente poco rilevanti per quanto concerne il comportamento umano e inoltre gli indizi a disposizione mostrano in modo più convincente la natura cooperativa dell'uomo, piuttosto che quella aggressiva.
Essi scrivono: "Suggerire, come facciamo, che gli uomini non siano per natura reciprocamente aggressivi, non implica necessariamente che noi siamo istintivamente ben disposti verso i nostri simili. Nei gradini più bassi del regno animale, i conflitti vengono in gran parte risolti attraverso finte battaglie rituali. Ma procedendo nel sentiero dell'evoluzione, il comportamento, anche se entro certi limiti, comincia a dipendere sempre più dall'apprendimento, che negli animali sociali avviene appunto attraverso l'educazione nell'ambito del gruppo." (39)
Da queste affermazioni emergono forti analogie con l'interpretazione sostenuta all'interno delle teorie neo-comportamentiste di cui si tratterà nel 4° capitolo.
Quest'interpretazione non può comunque essere assimilata a quella di Berkowitz o Bandura perché gli autori attribuiscono un ruolo determinante al patrimonio genetico che consente all'animale di mettere in pratica un certo comportamento appreso.
Per Leakey e Lewin "l'uomo non ha una particolare predisposizione né per l'aggressività né per la concordia, ma è piuttosto la cultura a tessere la trama delle società umane." (40)
Questo significa che l'aggressività può venire influenzata, indotta o inibita, da particolari situazioni ambientali, come ad esempio variazioni nella disponibilità di importanti risorse (spazio, cibo).
Gli autori polemizzano anche con coloro che additano il nostro passato evolutivo per spiegare ed ancora di più per giustificare l'aggressività del nostro secolo.
Così anche per la guerra "Non dobbiamo rivolgerci al nostro patrimonio genetico per cercare i semi della guerra" (41) la quale venne resa possibile e considerata potenzialmente vantaggiosa quando l'uomo passò da un modo di vita nomadico tipico dei cacciatori a quello sedentario degli allevatori e agricoltori.
In questo modo la guerra venne resa possibile, "ma non inevitabile" (42) ed è proprio qui che interviene il ruolo della cultura con i suoi valori e le sue ideologie sociali e politiche, con i suoi diversi gradi di rispetto e tolleranza reciproca. Ne consegue che è proprio il nostro bisogno in cooperazione collettiva che rende possibili le guerre.
Per Leakey e Lewin è un non senso voler giustificare la tendenza degli uomini alla violenza, ricorrendo all'ancestrale istinto della caccia. La loro ipotesi è che la caccia non ha causato l'aggressività intraspecifica, ma ha piuttosto favorito la socializzazione. La tesi dell'ereditarietà dell'istinto aggressiva è "una pericolosa invenzione" che ha come conseguenza il dispensare "la società dal tentativo di modificare il male che è nel mondo". (43)
Questa è la critica che con maggior frequenza viene mossa a Lorenz e agli istintivisti in genere. Anche se, a proposito di questa polemica, Irenaus Eibl-Eibesfeldt [1979] prende le difese di Lorenz sostenendo che il fondatore dell'etologia non ha mai parlato di un impulso siffatto all'aggressività, anzi spesso ha insistito sulla necessità di ricercare le cause in modo scientifico e sul fatto che se si vuole contrastare l'istinto aggressivo non bisogna accettarlo come qualcosa di metafisico e ineluttabile, ma indagarne le cause naturali.

 

NOTE AL 3° CAPITOLO

(1) BONINO - SAGLIONE, op. cit., pag. 29.

(2) K. LQRENZ, L'aggressività, Oscar Mondadori, Milano, 1990, pagg. 42-43.

(3) Ibidem, pag. 59.

(4) Ibidem, pag. 75.

(5) Ibidem, pag. 76.

(6) Ibidem, pag. 82.

(7) Ibidem, paq. 103.

(8) Ibidem, pag. 285.

(9) Ibidem.

(10) K. LORENZ, L'anello di Re Salomone, trad. it. di L. Scwarz, Adelphi, Milano. 1967. pagg. 173-174.

(11) K. LORENZ, L'aggressività, op. cit., pag. 285.

(12) Ibidem, pagg. 315-316.

(13) BONINO - SAGLIONE, op. cit.,, pagg. 87-88.

(14) K. LORENZ, L'aggressività, op. cit., pag. 375.

(15) BONINO - SAGLIONE, op. cit., pag. 33.

(16) E. FROMM, Anatomia della distruttività umana, op. cit., pag. 55.

(17) Ibidem, pag. 50.

(18) R. ARDREY, L'istinto di uccidere. Le origini e la natura animale dell'uomo, (1961) tr. it. di L. Formigari, Feltrinelli, Milano, 1968, pag. 30.

(19) Ibidem, pag. 341.

(20) Ibidem.

(21) Ibidem, pag. 342.

(22) D. MORPIS, La scimmia nuda. Studio zoologico sull'animale uomo, trad. it. M. Bergami, Bompiani, Milano, 1968, pag. 10.

(23) Ibidem, pag. 187.

(24) Ibidem, pagg. 187-188.

(25) D. MAINARDI, L'animale culturale, Rizzoli ed., Milano, 1974, pag. 161.

(26) D. MORRIS, La scimmia nuda, op. cit., pag. 190.

(27) I. EIBL-EIBESFELDT, Amore e odio, trad. it. di G. Pettenati, Adelphi, Milano, 1971, pag. 94.

(28) Ibidem, pag. 96.

(29) Ibidem, pag. 97.

(30) Ibidem, pag. 99.

(31) Ibidem, pag. 159.

(32) Ibidem, pagg. 286-287.

(33) Ibidem, pag. 287.

(34) Ibìdem, pag. 288.

(35) Ibidem.

(36) I. EIBL-EIBESFELDT, Etologìa della guerra, tr. it. di G. Longo, Bollati-Boringhieri, Torino, 1990, pag. 238.

(37) E. BELOTTI - E. BIGI, Margherite nella vita di coppia, CELTIS ed., Brescia, 1989, pag. 176.

(38) I. EIBL-EIBESFELDT, Etologia della guerra, op. cit., pag. 240.

(39) R.E. LEAKEY - R. LEWIN, Origini. Nascita e possibile futuro dell'uomo, tr. it. di P. e M.A.Bulgarelli, Laterza, Bari, 1979, pagg. 212-213.

(40) Ibidem, pag. 213.

(41) Ibìdem, pag. 221.

(42) Ibidem.

(43) Ibidem, pag. 10.

 

 

 

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