Pierangela Martina

 

Aspetti teorici dell'aggressività

 

Capitolo 1

Le immagini dell'ira e dell'aggressività nella filosofia occidentale

 

 

 

1.1.      LA FILOSOFIA ANTICA

1.2.       LA FILOSOFIA MEDIOEVALE E RINASCIMENTALE

1.3.       HOBBES, CARTESIO E SPINOZA

1.4.       DALL’ILLUMINISMO A NIETSCHE

 

 

 

La psicologia è una scienza relativamente recente. Fin verso la fine del XIX secolo, le rappresentazioni più significative dell'aggressività (nell'uomo) sono quelle elaborate nel pensiero filosofico. Da Platone a Nietzsche è possibile tracciare sinteticamente un quadro dell'evoluzione del significato attribuito dalla cultura occidentale all'aggressività umana (intesa come abito nel senso aristotelico del termine (1), tendenza, disposizione a comportamenti lesivi del prossimo) e all'ira (intesa come moto violento dell'animo che si manifesta in reazioni impetuose e subitanee contro qualcuno, cioè come passione).
Certamente i concetti di aggressività e ira non coincidono, ma sono comunque strettamente congiunti nella trattazione dei vari filosofi, anzi per Aristotele l'analisi dell'abito, cioè della virtù e del vizio (nel nostro caso l'aggressività) è molto più importante di quella della passione (nel nostro caso l'ira) e degli atti da essa generati, poiché "non sono volontari allo stesso modo gli abiti e gli atti; degli atti noi siamo padroni dal principio alla fine conoscendone le particolarità, degli abiti siamo padroni solo all'inizio, poiché ci sfuggono gli accrescimenti di essi volta per volta, così come succede nelle malattie" (2).

 

1.1. LA FILOSOFIA ANTICA

Nella filosofia greca, il mito platonico del carro alato e dell'auriga (3) costituisce la prima significativa rappresentazione della natura umana, nella quale sia possibile individuare la funzione dell'aggressività nell'economia del comportamento umano.
Da un lato "l'anima irascibile", simboleggiata dal cavallo bianco, contribuisce, con "l'anima concupiscibile", simboleggiata dal cavallo nero, a rendere difficile e disagevole la guida del carro (cioè la persona umana che deve essere guidata dalla ragione, rappresentata dall'auriga), ma dall'altro lato il cavallo bianco è bello e buono, generato da genitori siffatti. Cioè l'anima irascibile è per così dire "neutrale" tra i due estremi (la parte razionale e quella concupiscibile) e può "allearsi" con l'una e con l'altra parte. In altri termini, l'aggressività non è giudicata negativamente come la concupiscenza, ma se "guidata" dalla ragione può cooperare con essa al raggiungimento di fini positivi per la natura umana.
Questo aspetto è ulteriormente sviluppato nel libro IX della Repubblica, dove la parte irascibile dell'anima è definita come quella "che aspira tutta e sempre a dominare e vincere e ottenere buona fama" (4). Correlativamente ai tre tipi di anima, vengono definiti tre fini della vita umana, in ordine gerarchico decrescente, cioè la sapienza, il coraggio e il piacere (5), distinzione che poi sarà ripresa da Aristotele (6). L'aggressività, se guidata dalla ragione, genera quindi il comportamento coraggioso nella guerra, che nella cultura greca era un comportamento assolutamente virtuoso. Dalla tripartizione dell'anima umana, Platone fa poi derivare il fondamento della divisione in classi della società "giusta": governanti, soldati e produttori.
Nel periodo giovanile, in tutt'altro contesto, Platone aveva già affrontato il tema del coraggio. Nella parte finale del Protagora (7), nell'ambito della discussione nel rapporto intercorrente tra sapienza e virtù, viene affermato il valore del coraggio e "l'andare alla guerra" viene definito bello, buono e piacevole. Si può ritenere quindi che, nella cultura antica, in conseguenza dell'assenza di ogni condanna etica della guerra e della violenza, la valutazione dell'aggressività fosse necessariamente molto diversa da quella dell'età contemporanea, e quindi gli aspetti positivi di essa fossero molto più facilmente accettabili dal contesto sociale.
Nel pensiero di Platone, inoltre, l'impostazione nettamente dualistica è presente anche sul piano antropologico: la netta contrapposizione tra ragione e corporeità (vista come causa di tutti i mali dell'uomo), la visione dell'anima imprigionata nel corpo, lo portano ad attribuire tutte le caratteristiche peggiori all'anima concupiscibile (il cavallo nero). Ciò, per contrapposizione porta ad una valutazione maggiormente positiva dell'anima irascibile, vista come disposizione permanente dell'uomo ad agire volitivamente e risolutamente: ad essa viene attribuito il ruolo di radice ultima del coraggio, che nella scala di valori platonica, rappresenta, dopo le virtù intellettuali, la massima tra le virtù pratiche, quelle virtù che Aristotele definì come virtù etiche.
Ancora più articolata appare l'analisi dell'atteggiamento aggressivo dell'uomo nell'Etica nicomachea di Aristotele, che tratta separatamente il coraggio rispetto alla collera (ira).
Per Aristotele "il coraggio è cosa moralmente bella. Pertanto anche il suo fine è tale." (8); esso è il giusto mezzo tra viltà e temerarietà. Poco dopo, pero, tra le forme improprie di coraggio, Aristotele delinea anche quell'atteggiamento di chi agisce per impetuosità, atteggiamento che sembra simile al coraggio, ma non è in realtà coraggio (9): "i coraggiosi agiscono dunque spinti dal bello, e l'impetuosità collabora con loro, le bestie invece agiscono sotto la spinta del dolore: infatti reagiscono per il fatto di essere ferite o di avere paura [...]. Non vi è pertanto coraggio per il fatto che, spinte dal dolore e dall'impetuosità, muovono contro il pericolo, senza prevedere nessuna delle conseguenze terribili . . ." (10). Aristotele si interro ga anche sulle conseguenze negative del coraggio e in particolare sul pericolo di morire. E quanto più il coraggioso "possederà le virtù nella sua totalità e più sarà felice, più si addolorerà della morte: infatti per un tale uomo più che per qualunque altro, vivere e degno di pregio, e costui dalla morte è privato di beni grandissimi e ne ha consapevolezza; e questo è doloroso. Ma egli non è per nulla meno coraggioso, anzi forse lo è anche di più, perché sceglie deliberatamente il bello che si realizza nella guerra in cambio di quei beni" (11).
Nel libro IV invece Aristotele tratta dell'ira a proposito delle virtù della mitezza. La mitezza è il giusto mezzo tra la collera e la mancanza di irascibilità (12). I collerici sono descritti come coloro che si adirano con chi non devono e più di quanto devono, ma anche rapidamente cessano di adirarsi. Viceversa "i caratteri pungenti sono difficili a riconciliarsi e restano in collera per molto tempo: giacché essi trattengono la loro impetuosità. La tranquillità ritorna loro quando abbiano reso il contraccambio. Infatti la vendetta fa cessare la collera, ingenerando piaceri invece del dolore" (13).
In ultima analisi, la differenza più rilevante tra Platone e Aristotele è da ricercarsi nella diversa concezione antropologica.
Per Platone l'anima irascibile si contrappone a quella concupiscibile, che è considerata sempre negativa per i destini dell'uomo.
Aristotele, in contrapposizione al dualismo platonico, afferma una concezione unitaria dell'uomo. Un'unica anima razionale svolge anche le funzioni inferiori e quindi l'irascibilità, come tutte le altre passioni, non è né buona né cattiva in sé, ma diventa buona se guidata e governata dalla ragione (che la dirige verso il "giusto mezzo" attraverso scelte deliberate) e invece diviene viziosa se genera nell'uomo comportamenti in contrasto con il suo fine razionalmente raggiungibile, che è la felicità.
Nell'età ellenistica, ed in particolare nel pensiero stoico, si ha un mutamento di prospettiva. Tutte le passioni umane non sono più considerate come una componente naturale dell'uomo, ma, a differenza di Platone e Aristotele, gli stoici ritengono che le passioni possono essere estirpate e il saggio, che è virtuoso e quindi necessariamente e di conseguenza felice, debba estirparle. Le passioni sono la conseguenza di errori di valutazione, di cattiva abitudine, sono figlie della stoltezza.
Ed è proprio nella prospettiva stoica che Seneca tratta dell'ira, nel dialogo De ira, che rappresenta sicuramente la più ampia trattazione di questo tema nella intera letteratura filosofica latina. Per Seneca, l'ira è la più "triste e frenetica" di tutte le passioni. "Le altre passioni infatti hanno in loro qualche cosa di tranquillo e di placido, in questa invece tutto e concitazione e impeto e rovello e desiderio furente e inumano di armi, di sangue, di supplizi .. ." (14). Essa è paragonabile ad una breve follia (15). Tra tutte le passioni è la più difficile da occultare: "Le altre passioni appaiono, l'ira emerge." (16).
I suoi effetti sono descritti in termini drammatici: "Nessun flagello è stato più nocivo al genere umano. Tu vedrai i massacri, i veleni, le accuse reciproche, le rovine della città e gli eccidi di interi popoli [...], gli incendi non arginati dalle mura, ma regioni immense illuminate dalle fiamme" (17).
Seneca sviluppa ampie argomentazioni per mostrare che l'ira non appartiene alla natura umana, ma è solo conseguenza di comportamenti viziosi e conclude: "Chi dunque ignora maggiormente la natura se non colui che vuole assegnare alla migliore ed alla più perfetta delle sue opere questo vizio feroce e pernicioso?" (18).
Non solo l'ira, ma tutte le passioni mantengono la loro connotazione negativa, in esplicita polemica con Aristotele, poiché esse posseggono l'uomo e non possono essere possedute; se esistono non possono non sfuggire al controllo della ragione (19).
Seneca ritiene di fondamentale importanza stabilire con certezza che lira non sia naturale, non sia un puro impulso, paragonabile agli impulsi corporei (come i brividi quando si ha freddo o il russare o la vertigine), ma sia conseguenza di errato giudizio, poiché gli impulsi sono invincibili e inevitabili, mentre le passioni possono invece essere estirpate. In conclusione, l'ira, per Seneca, è "un vizio volontario dell'animo e non di quelli che sono quasi un destino della natura umana e che si producono anche nei più saggi . . ." (20).



1.2. FILOSOFIA MEDIOEVALE E RINASCIMENTALE

Nel Medioevo, il filosofo che più ampiamente e magistralmente ha trattato il problema delle passioni (e quindi anche l'ira) è certamente S. Tommaso d'Aquino, che nella Summa theologiae ha dedicato al tema ben 27 questioni (dalla n. 22 alla n. 48 della I,II).
Va innanzi tutto notato che S. Tommaso, a differenza di Cartesio e Spinoza, come si vedrà, distingue chiaramente e con rigore la nozione di passione, intesa come moto affettivo della sensibilità umana, come moto appetitivo causato dall'immaginazione del bene o del male e come tale moralmente neutro (né buono né cattivo in sé) dalle virtù o dal vizio corrispondenti, intesi come abiti, cioè come disposizioni permanenti, anche se spesso lo stesso termine del linguaggio comune può indicare sia la passione sia il vizio (ed è proprio il caso dell'ira).
Per S. Tommaso, l'ira è una delle cinque passioni della facoltà irascibile dell'anima, insieme alla speranza, alla disperazione, all'audacia e al timore. S. Tommaso mette in luce una certa ambivalenza dell'ira, che "è una passione composta in qualche modo da passioni contrarie" (21), in quanto riguarda un oggetto, la vendetta, desiderata come un bene ed un altro oggetto, la persona nociva, che ha scatenato l'ira, concepita come malevola per il soggetto. Per l'Aquinate, l'ira e una passione naturale, come tutte le passioni, ma per un verso è meno naturale della concupiscenza, poiché il cibo e i piaceri venerei sono più naturali della vendetta, ma dall'altro è più naturale della concupiscenza, sia perché "l'ira implica la ragione più della concupiscenza" (22), sia per ragioni di tipo fisiologico (S. Tommaso da questo punto di vista faceva riferimento ad Ippocrate ed Avicenna) ormai del tutto storicamente superate. L'ira è inoltre meno grave dell'odio.
S. Tommaso propone una classificazione delle specie dell'ira, tratta da S. Giovanni Damasceno, che distingue tra ira biliosa, iracondia e furore (accanimento) (23). La prima si accende rapidamente, ma presto finisce; la seconda è accompagnata dal ricordo del male subito e le sue conseguenze si protraggono nel tempo, mentre la terza è l'ira covata che si scatena al momento della vendetta. Secondo S. Tommaso "L'unica cosa capace di muovere all'ira è un danno che rattrista [...] quando gli uomini sono minorati si affliggono con più facilità. Ecco perché gli inferiori e gli infelici sono più portati all'ira: perché si addolorano con più facilità" (24). Ma anche coloro che hanno dei pregi si irritano grandemente: così il ricco disprezzato nella sua ricchezza e l'oratore disprezzato nella sua arte oratoria e così via. Più uno è infelice e più ingiustamente disprezza.
Secondo S. Tommaso l'ira è la passione che "più chiaramente ostacola l'uso della ragione" (25), in quanto, poiché quest'ultima abbisogna delle facoltà sensitive, i cui atti vengono impediti se il corpo è alterato (ad es. ubriachezza, sonno, ecc.), l'ira produce il massimo di alterazione fisiologica e ciò ostacola il corretto funzionamento della ragione. Il turbamento causato dall'ira può essere così grave "da impedire del tutto di parlare, e allora si ammutolisce" (26). Molto diverso diviene il discorso quando dall'analisi delle passioni si passa alla disamina dei vizi.
L'ira è inserita nella grande famiglia degli abiti viziosi che si oppongono alla virtù della temperanza: gola, ubriachezza, lussuria, incontinenza, ira, crudeltà, superbia, curiosità, ecc.
Innanzi tutto l'incontinenza relativa all'ira è meno grave e vergognosa di quella relativa alla concupiscenza. Ciò sia perché i moti dell'ira partecipano in qualche modo della ragione e sono meno disordinati di quelli della concupiscenza, sia perché l'ira tende ad agire apertamente, mentre la concupiscenza cerca l'oscurità, sia perché "il moto dell'ira segue maggiormente la complessione fisica, data l'immediatezza dei moti di collera che portano all'ira (...). Infatti è anche più frequente il caso che da persone iraconde nascano iracondi, piuttosto che da persone sensuali nascano dei sensuali. Ora, ciò che deriva dalle predisposizioni fisiche è più degno di compatimento." (27). L'ira non è necessariamente peccaminosa: è tale solo se "Uno si adira di più o di meno di quel che esige la retta ragione. Se invece uno si adira conformemente alla retta ragione, allora l'ira è lodevole" (28).
S. Tommaso individua anche le conseguenze dell'ira, sempre intesa come abito vizioso e non come passione, che sono sei: rissa, tracotanza (TUNOR MENTIS), insulto, clamore (parlare disordinato e confuso), indignazione e bestemmia. Indignazione e tracotanza (nel senso di irritazione, tensione, "vento infuocato che riempie il petto" sono conseguenze dell'ira anteriore, che è nel cuore. Se l'ira si manifesta in parole, ed è comunicata ai nostri simili abbiamo il clamore, la bestemmia e l'insulto. Se invece si esterna in atti fisici contro il prossimo abbiamo la violenza, cioè la "rissa". Tuttavia l'ira non è la fonte primaria dell'odio: "Sebbene l'odio nasca talora dall'ira, esso ha una causa più profonda da cui nasce direttamente, e cioè la tristezza o dolore (...). Perciò è giusto che l'odio sia stato fatto derivare più dall'accidia che dall'ira" (29).
Nella cultura rinascimentale italiana si trova un rapido, ma significativo, accenno ai tema dell'ira in Giordano Bruno e segnatamente nel Dialogo II dello Spaccio de la bestia trionfante (1584). La Sapienza, protagonista del dialogo, afferma che le religioni ed i costumi non vanno valutati in base ad aspetti esteriori, ma in base alle virtù che insegnano e propongono. Da questo punto di vista, in opposizione a S. Tommaso d'Aquino, è più meritoria la virtù che mitiga l'ira piuttosto di quella che frena la libidine: "non tanto arrida a quello che ha frenato il fervore della libidine, che forse è impotente e freddo, quanto a quell'altro ch'ha mitigato l'empito de l'ira, che certo non è timido, ma paziente (30).



1.3. HOBBES, CARTESIO E SPINOZA

Nel pensiero del '600, sono particolarmente interessanti le analisi di Hobbes, Cartesio e Spinoza.
Per Hobbes le passioni sono turbamenti naturali dell'animo, determinati dall'avversione o dal desiderio rispetto al male o al bene apparenti e più immediati; esse sono per lo più negative per l'uomo, poiché la ragione, se usata rettamente, ci indica il vero bene per l'uomo. "Mentre il vero bene deve essere ricercato guardando lontano, cosa che è propria della ragione, il desiderio coglie al bene presente non curante dei mali maggiori a questo necessariamente legati." (31). In questo quadro l'ira è concepita come "la speranza improvvisa di poter superare opponendosi o resistendo ad un male incombente" (32). Per Hobbes, l'ira nasce molto spesso dal sospetto di essere disprezzati e si concretizza nella speranza di procurare un grave danno a colui che ci disprezza. Quest'analisi dell'ira è inserita in una visione antropologica nettamente pessimistica. Nel Leviatano (1651), negando la concezione aristotelica, Hobbes ritiene che l'uomo non sia affatto per natura un animale politico, portato ala vita sociale.
Abbandonato al puro piano della spontaneità naturale, l'uomo gli sembra più che altro contraddistinto da un animalità violenta e da una tensione a sopraffare i suoi simili: "homo homini lupus".
Questa citazione di Plauto rappresenta correttamente la natura dell'uomo. Tuttavia, questa lotta di tutti contro tutti, che sarebbe così connaturale all'essere umano, rende problematico il mantenimento di quel bene che è stato identificato come primario: la sopravvivenza, e di conseguenza quella di tutti gli altri beni (arti, ricchezza, amicizia, ecc.). Così nel momento in cui l'uomo scopre la sua natura di animale violento e prevaricatore, al tempo stesso, percepisce con la ragione la sua inclinazione alla pace e la sua accettazione del potere dello Stato.
In tutt'altro quadro si muove l'analisi cartesiana della collera. Cartesio, che nel pensiero moderno riprende il dualismo platonico tra anima e corpo in una nuova prospettiva filosofica, interpreta il corpo umano in modo meccanicistico, paragonandolo ad una macchina complessa. Le passioni sono così concepite come spiriti animali o movimenti interni del corpo che servono a disporre gli organi quali il cuore o il fegato da cui dipende il "temperamento" del sangue (Trattato sull'uomo, XI, 1649). L'interazione tra corpo e anima è così concepita: "La piccola ghiandola posta al centro del cervello (la ghiandola pineale) può essere mossa da un lato dall'anima e dall'altro dagli spiriti animali, che [...] sono solo dei corpi; ora succede spesso che le due spinte siano contrastanti e che la più forte impedisca l'effetto dell'altra." (33).
In questo quadro va collocata l'analisi della collera, che per Cartesio è "una specie di odio o di avversione contro coloro che fanno del male o hanno tentato di farlo, non a chiunque indifferentemente, ma, in particolare, a noi. Così essa implica gli stessi elementi dell'indignazione con questo in più: che è fondata su un'azione che ci riguarda e di cui desideriamo vendicarci (questo desiderio di vendetta, infatti, l'accompagna quasi sempre).
E' direttamente opposta alla riconoscenza, come l'indignazione alla benevolenza; ma è senza paragone più violenta delle altre tre passioni, perché il desiderio di respingere le cose nocive e di vendicarsi è più urgente di tutti. Il desiderio unito all'amore per se stessi fornisce alla collera tutta l'agitazione del sangue che il coraggio e l'ardimento possono causarci e l'odio fa sì che specialmente il sangue bilioso proveniente dalla milza e dalle venoline del fegato riceva quest'agitazione ed entri nel cuore dove, per la sua abbondanza e per la natura della bile che vi si mescola, il calore è più aspro e bruciante di quanto non possa accadere per l'amore o per la gioia." (34).
Cartesio distingue due specie di collera: una molto più pronta, ma che ha tuttavia effetti limitati e può facilmente essere placata e l'altra, in cui predomina l'odio e la tristezza, che non è tanto evidente a prima vista, ma la sua forza aumenta a poco a poco per l'eccitazione di un bruciante desiderio di vendetta.
Per Cartesio le persone "più orgogliose, basse e meschine si abbandonano di più a questa specie di collera" (35).
Ben diversa è l'analisi delle passioni in Spinoza. Per questo pensatore la passione è una causa del comportamento umano, causa che è presente se e solo se noi non agiamo", cioè non siamo causa adeguata e totale di ciò che accade fuori di noi. Cioè, per Spinoza, noi patiamo o siamo passivi "quando in noi avviene alcunché, o deriva dalla nostra natura, di cui non noi siamo se non una causa parziale" (36). In una prospettiva molto simile a quella stoica, le passioni sono viste come cause "esterne", inadeguate, non corrispondenti alla nostra autentica natura razionale.
La passione è un'idea confusa: la nostra mente agisce se ha idee adeguate e patisce necessariamente in quanto ha idee inadeguate.
Come per S. Tommaso (e per S. Agostino) l'aggressività deriva dall'odio. "Chi ha in odio qualcuno cercherà di arrecargli male, a meno che non tema che da esso non gli venga un male maggiore; . . ." (37). L'ira è definita come il desiderio, da cui siamo spinti per odio, a produrre del male a chi odiamo (38), mentre la crudeltà o sevizia è "il desiderio col quale uno è spinto a far del male a chi ama o a colui del quale ha compassione" (39).

 

1.4. DALL'ILLUMINISMO A NIETSCHE

Nel Settecento, il tema delle passioni è affrontato particolarmente dai filosofi moralisti inglesi e scozzesi (Shaftesbury, Hutcheson, Hartley, Mandeville, Ferguson e Stewart), ma per necessità di sintesi ci si soffermerà solo sull'analisi più significativa che è quella di David Hume.
Per Hume la collera ("anger") è una conseguenza dell'odio: da questo punto di vista il filosofo scozzese riprende un tema già trattato da Spinoza e ancora prima da S. Tommaso, anche se insiste sulla totale non essenzialità della collera rispetto all'odio: la collera nasce sempre dall'odio, ma l'odio non produce necessariamente la collera, anche se di fatto si può osservare empiricamente che la collera segue sempre l'odio. Scrive Hume: "Le passioni dell'amore e dell'odio sono sempre seguite da benevolenza o collera, o meglio sono a loro collegate. E' proprio tale unione ciò che distingue soprattutto queste affezioni dall'orgoglio e dall'umiltà. Queste ultime infatti sono mere emozioni dell'anima, non accompagnate da nessun desiderio e non ci spingono immediatamente all'azione. Amore e odio, invece, non si chiudono in se stessi, né si fermano all'emozione da essi prodotta, ma spingono la mente verso qualcos'altro." (40). Amore e odio producono dunque desideri di felicità o infelicità per chi è rispettivamente amato o odiato, ma tali desideri "non sono assolutamente essenziali all'amore o all'odio"(41).
Diciotto anni dopo (1757), nella Dissertazione sulle passioni, Hume si esprimeva diversamente; "L'amore è sempre seguito dal desiderio che la persona amata sia felice, e dall'avversione per la sua infelicità; così come l'odio suscita il desiderio che la persona odiata sia infelice e l'avversione per la sua felicità. Questi opposti desideri sembrano essere originariamente ed essenzialmente uniti alle passioni dell'amore e dell'odio, per la stessa costituzione della natura umana di cui non possiamo fornire ulteriori spiegazioni." (42).
Nell'Ottocento, Hegel, anche se non tratta esplicitamente dell'ira e dell'aggressività, è il primo filosofo che sostiene non esservi una distinzione netta e qualitativa tra normalità e "follia" (noi diremmo disturbo psichico), ma solo una differenza di grado. Qui Hegel si ispirava alle teorie e ai metodi di cura del medico Philippe Pinel (1745-1826) direttore dei manicomi della Bicetre e poi della Salpetrière e professore della scuola medica di Parigi, espressamente citato dallo stesso Hegel (43). Pertanto, una "passione d'odio violento", come potrebbe essere quella che porta ad un comportamento aggressivo, in concreto non è facilmente classificabile come comportamento folle o come un semplice errore di valutazione. Per Hegel, la follia è definita come contraddizione interna del soggetto come io diviso: "Il soggetto si trova, in questo modo, in contraddizione con la sua totalità, sistematizzata nella sua coscienza, e la determinatezza particolare, che non ha scorrevolezza e non è ordinata e subordinata. Il che è la follia." (44). Le manifestazioni estreme dell'aggressività ricadono per Hegel in questa fattispecie.
Per Schopenhauer, l'aggressività è una caratteristica naturale ed ineliminabile della natura animale e quindi dell'uomo, poiché nella natura vi è necessariamente la lotta di tutti contro tutti: "In tutta la natura questa lotta continua, anzi solo per essa la natura sussiste. Questa lotta universale raggiunge l'evidenza più chiara nel mondo animale che ha per proprio nutrimento il mondo vegetale ed in cui, inoltre, ogni animale diventa preda e nutrimento di un altro (.. .), in quanto ogni animale può conservare la propria esistenza solo col sopprimerne costantemente un'altra." (45). Ciò è necessario poiché l'essenza della realtà, il noumeno che agisce nascosto dal mondo apparente della realtà fenomenica, è la volontà una e indivisibile che si manifesta nei vari individui. Schopenhauer cita l'hobbesiano "homo homini lupus", sostenendo che esso è la condizione non solo dell'uomo, ma di tutta la natura, dominata dalla volontà inconscia e cieca, eterna e indistruttibile.
Nel corso dell'Ottocento il tema della lotta di tutti contro tutti sarà ripreso in contesti diversi da Darwin, Spencer, e dal cosiddetto "darwinismo sociale". Nietzsche è il primo filosofo che mette in luce ed analizza un aspetto importante dell'aggressività: l'autoaggressività.
Per Nietzsche vi sono due morali: quella dei guerrieri (i signori dell'antichità, i cui valori sono la fierezza, la gioia, la salute, l'amore sensuale, l'inimicizia e la guerra) e quella dei sacerdoti che privilegia la condizione dei poveri, degli impotenti e degli umili.
Il Cristianesimo storico, per Nietzsche, ha sostenuto questo secondo tipo di morale: "Il Cristianesimo storico, cioè concreto e non puramente dottrinale, ha prodotto un tipo di uomo malato e represso, in preda a continui sensi di colpa, che avvelenano la sua esistenza. Infatti, poiché tutti gli istinti che non si scaricano all'esterno si rivolgono all'interno, l'uomo cristiano al di là della maschera di serenità è psichicamente un autotormentato, che nel suo risentimento nasconde un'aggressività rabbiosa contro la vita." (46).
"C'è qualcosa di non sano in tali aristocrazie sacerdotali e nelle consuetudini che vi predominano, ostili all'azione, in parte pigramente covate, in parte sentimentalmente esplosive, la cui conseguenza sembra essere [... una] condizione malaticcia " (47).
La repressione dell'aggressività genera cattiveria: "I sacerdoti, come è noto, sono i nemici più malvagi - e perché? Perché sono i più impotenti." (48).
Da questa situazione, per Nietzsche comune a gran parte della cultura moderna, è possibile una via d'uscita? E' possibile superare il risentimento e l'autotormento? Per Nietzsche ciò è possibile solo abbandonando la condizione alienata dell'uomo moderno per tendere al superuomo. Ma anche il mondo del superuomo non è privo di aggressività. Dice Zarathustra: "Dovete amare la pace come un mezzo per nuove guerre. E la pace breve più della lunga. Non vi consiglio il lavoro, ma il combattimento. Non vi consiglio la pace, ma la vittoria [...]. Voi dite che è la buona causa che santifica la guerra. Ma io vi dico che è la buona guerra che santifica qualunque causa." (49).


NOTE AL 1° CAPITOLO

(1) Aristotele, Etica , LIBRO II, 4, 1105b19 -1106a12.

(2) Ibidem, LIBRO III, 7, 1114 b3O - 1115 a3; (tr. it. di F. Amerio, La Scuola, Brescia, 1960, pag. 79)

(3) Platone, Fedro, 246 a - 249 b.

(4) Platone, Repubblica, LIBRO IX, 58l a - b; (tr. it. di F. Sartori, Laterza, Bari, 1970, pag. 329)

(5) Platone, Repubblica, LIBRO IX, 582 c, 583 a.

(6) Aristotele, Etica nicomachea, LIBRO I, 3, 1095 bl4- 1096 a5.

(7) Platone, Protagora, 359 b - 360 a.

(8) Aristotele, Etica nicomachea, LIBRO III, 10, 1115 b 21-24; (tr. it. di M. Zanotta, Rizzoli, Milano, 1986, pagg. 225-227).

(9) Ibidem, LIBRO III, 11, 1116 b23 - 1117 a10.

(10) Ibidem, (tr. it.pagg. 233-235).

(11) Ibidem, LIBRO III, 12, 1117 b10-15 (tr. it. pag. 239).

(12) Ibidem, LIBRO V, 11, 1125 b26-30.

(13) Ibidem, 1126 a20-23; (tr. it.pag. 299).

(14) Seneca, De ira, LIBRO I-I, 1; (tr. it. di A. Valli Picardi, Notari, Milano, 1928, pag. 29).

(15) Ibidem, LIBRO I, I, 2.

(16) Ibidem, LIBRO I, I, 7, (tr. it. pag. 31).

(17) Ibidem, LIBRO I, II, 1; (tr. it. pagg. 31-33).

(18) Ibidem, LIBRO I, V, 3; (tr. it. pag. 41).

(19) Ibidem, LIBRO I, XVII, 1.

(20) Ibidem, LIBRO II, II, 2; (tr. it. pag. 87).

(21) S. Tommaso d'Aquino, Summa theologica, I, Il, p. 46, art. 2; (tr. it. a cura dei Domenicani Italiani, Salani, Milano, 1961, vol. IX, pag. 346).

(22) Ibidem, I, II, q. 46, art.5; (tr. it., vol. IX, pag. 352).

(23) Ibidem, I, II, q. 46, art. 8.

(24) Ibidem, I, II, q. 47, art. 3; (tr. it. vol. IX, pag. 368).

(25) Ibidem, I, II, q. 48, art. 3; (tr. it., vol. IX, pag. 378).

(26) Ibidem, I, II, q. 48, art. 4; (tr. it., vol. IX, pag. 380).

(27) Ibidem, II, II, q. 156, art. 4; (tr. it., vol. XXI, pag. 310).

(28) Ibidem, II, II, q. 158, art. 1; (tr. it. vol. XXI, pag. 328).

(29) Ibidem, II, II, q. 158, art. 7; (tr. it., vol. XXI, pag. 346).

(30) G. BRUNO, Spaccio de la bestia trionfante, Dialogo II, Rizzoli, Milano, 1985, pag. 165.

(31) T. HOBBES, De homine, XII, 1; (tr. it. di A.Negri in "Elementi di filosofia: il corpo - l'uomo", UTET, Torino, 1972. pag. 602).

(32) Ibidem, XII, 4.

(33) R. DESCARTES, Les Passions de l'Ame, I, art. 47; (tr. it. di E. Garin in Cartesio - "Opere filosofiche", Laterza, Roma-Bari, 1986, vol. IV, pag. 31).

(34) Ibidem, III, art. 199; (tr. it., vol. IV, pag. 113).

(35) Ibidem, III, art. 202; (tr. it., vol. IV, pag. 115).

(36) B. SPINOZA, Ethica, Parte III, def. II; (tr. it. di E. Troilo, Melita, La Spezia, 1990, pag. 177).

(37) Ibidem, Parte III, prop. XXXIX; (tr. it., pag. 213).

(38) Ibidem, Parte III, def. XXXVI; (tr. it., pag. 250)

(39) Ibidem, Parte III, def. XXXVIII; (tr. it., pag. 250).

(40) D. HUME, A Treatise of Human nature, voi. II, Dent., London, 1966 - Book II, Part II, VI, pag. 84; (tr. it. di E. Lecaldano e E. Mistretta in "Opere", Laterza, Bari, 1971, vol. I, pag. 394).

(41) Ibidem. pag. 85; (tr. it. pag. 385).

(42) D. HUME, Dissertation on the Passions in Four Dissertations (tr. it.di E. Mistretta, in "Opere", cit., vol. II, pagg. 386-387).

(43) G. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Parte III, § 408, nota 35; (tr. it. di B. Croce, ed. Laterza, Bari, 1975, vol. II, pag. 408).

(44) Ibidem, § 408; (tr. it., vol. II, pag. 407).

(45) A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, II, § 27; (tr. it. di G. Pasqualotto, in "Pensiero filosofico e morale", Le Monnier, Firenze, 1981, pag. 66).

(46) N. ABBAGNANO - G. FORNERO, Filosofi e filosofie nella storia, Paravia, Torino, 1986, vol. III, pagg. 322-323.

(47) F. NIETZSCHE, Genealogia della morale, I, 6; (tr. it. di M. Vannini, Theorema, Milano, 1993, pag. 44).

(48) F. NIETZSCHE, Così parlò Zaratustra (tr. it. di M. Montanari, Rizzoli, Milano, 1965, pagg. 57-58).

(49) Ibidem, (tr. it., pag. 45).




 

 

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