Maurilio Lovatti,
 Giovanni XXIII, Paolo VI e le ACLI

 Morcelliana, Brescia 2019, pag. 274, € 25

 

 

 

 

 

Introduzione di Roberto Rossini, presidente nazionale delle ACLI

 

Non consultarti con le tue paure, ma con le tue speranze e i tuoi sogni.
Non pensate alle vostre frustrazioni, ma al vostro potenziale irrealizzato.
Non preoccupatevi per ciò che avete provato e fallito, ma di ciò che vi è ancora possibile fare.

 (Papa Giovanni XXIII)

La Chiesa deve venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola, la Chiesa si fa messaggio, la Chiesa si fa colloquio.
 (Papa Paolo VI)

La vita delle Acli ha camminato parallela alla vita della Chiesa. Parallela, vicina, quasi mai sovrapposta, senza indebite invasioni di campo. La storia millenaria della Chiesa, la storia di qualche decennio delle Acli all'interno della storia secolare d'Italia: anche solo questa evidenza ci dice che ogni soggetto vede, giudica e agisce con orizzonti temporali differenti. Eppure le vicinanze contaminano e aiutano a rispondere alle contingenze dei tempi. Viviamo sotto lo stesso tempo: occorre realizzare se la direzione di marcia sia la medesima.

Il libro che avete tra le mani è come una sorta di “storia spirituale” delle Acli, colta in un segmento limitato ma assai significativo, che va dagli anni di papa Giovanni XXIII a quelli di Paolo VI. È stato un periodo particolarmente fecondo, perché nella contingenza di una fase di profondo cambiamento – gli anni Sessanta e Settanta – si sono confrontati visioni e giudizi differenti. A volte hanno arricchito, a volte hanno separato. Questo libro prova ad indagarli e a spiegarli. D'altra parte il rapporto tra fede e politica è un nodo difficile da slegare e mai risolto una volta per tutte, con modalità che si... legano ai tempi da vivere. Agire da cristiani in politica e nel sociale durante gli anni Sessanta, non è stato la stessa cosa che farlo negli anni dell'unità d'Italia o durante il fascismo. Cambiano le modalità: le parole, i temi, le questioni, gli strumenti, i soggetti.

Ma oltre alle modalità, cambiano anche le tonalità: la fede ha a cuore una concezione dell’uomo a cui la politica può ispirare la propria azione assumendo anche un tono differente, più rivendicativo o riformista o resistente, più o meno distaccato o coinvolto. Eppure la ratio, il motivo, è sempre uguale: adottare la carica rivoluzionaria del cristianesimo per plasmare l’esistente ad una maggiore aderenza all'umano. Nel rapporto tra fede e politica questo significa essere come un lievito che fa fermentare. La fede nel Vangelo consente di guardare con la stessa capacità critica ogni regime politico, ma anche di collaborare lealmente con gli uomini e le donne di buona volontà affinché il sistema in vigore sia quanto più vicino possibile alla speranza cui si tende. Per questo occorrerà mettersi al servizio dei poveri e degli ultimi, di combattere il malcostume denunciando le ingiustizie, di animare la città restituendo alla politica il significato di unità e progresso.

Il rapporto tra fede e politica si gioca anche nel rapporto con la nostra Chiesa. Di solito, nello stile, si è sempre riconosciuto il ruolo di concetti quali autonomia e laicità. Livio Labor ebbe a dichiarare – ad esempio – che come Acli «abbiamo sempre cercato di essere creativi nel vivere la morale sociale cristiana di fronte ad un mondo che cambiava. […] Le Acli in ogni situazione devono essere caratterizzate da scelte innovative e credibili. E sempre con metodo induttivo, facendo esperienze che sono originali perché radicate nella vita. […] Le Acli non hanno confini segnati da nessuno, se non dalla loro creativa fatica nelle lotte dei lavoratori». Questa funzione motrice e propositiva nella Chiesa e nella società italiana, di dialogo politico ed ecclesiale, presuppone l’autonomia delle scelte, con la possibilità anche di sbagliare. Per il laico l'autonomia è un fatto di responsabilità e di dovere, prima ancora che di diritto. Definisce lo status di adultità del laico, che guidato dai principi e dall’ispirazione cristiana, compie un atto proprio di riflessione e discernimento, operando, dunque, una scelta, di cui si assume la responsabilità. L’autonomia è pluralismo, quindi, anche delle scelte politiche compatibili con la coscienza cristiana. Proprio nella fede risiede il fondamento dell’autonomia perché Dio, per il cristiano, è la garanzia della propria libertà. Se, dunque, la fede è l’orizzonte in cui l’uomo si colloca con tutta la sua realtà, il passaggio da questo alle scelte concrete non è diretto, ma esistenziale, dialettico e storico, induttivo: in esso si gioca tutta l’autonomia e tutta la libertà dell’uomo e del credente.

Poiché il Vangelo si declina in tutti gli ambiti della vita, si esprime anche quello politico. Com'è ormai largamente consolidato nella dottrina, le gerarchie ecclesiastiche hanno il dovere di indicare ai laici il rischio di decisioni e scelte che contraddicono valori e principi fondamentali, lasciando poi i passi successivi alle scelte autonome dei laici stessi, guidati dalla propria coscienza. Ma solo coscienze solide e formate sono capaci di distinguere tra una passiva o vuota accoglienza di indicazioni gerarchiche e l’esercizio di un ruolo autorevole che prende fino in fondo in carico le sollecitazioni provenienti dagli ambienti ecclesiastici, riflettendole e maturandole, contribuendo a definirle secondo la propria sensibilità e a tradurle in scelte operative, senza debolezze. L’autonomia è un habitus esigente: richiede al cristiano un supplemento d’impegno e di considerazione, di crescita e di maturazione, di coraggio, di capacità di identificare le situazioni di disagio e di svantaggio, di favorire le modalità di partecipazione orizzontale, di immaginare strumenti e risorse per prendere decisioni tempestive ed efficaci. Quest'ultima sottolineatura è importante: ogni tanto si coglie un'eco rivendicativa quando si parla di autonomia. Ma l'autonomia ha direttamente a che fare con la necessità di operare nel concreto, nel “fare” politica e nell'educare il cittadino alla partecipazione e alla vita democratica. Sono tutti compiti che – per statuto - non può assumersi la Chiesa in modo diretto: sono compiti dei laici. È anche sotto questo senso che apprezziamo l'espressione di Achille Grandi sul “grande compito”, che – in molta misura - continua l'opera di creazione. Dunque bisogna “sporcarsi le mani” con la realtà, col proprio tempo.

Poiché inseriti nella società umana, vicini e solidali con i suoi drammi e le sue aspirazioni, i cristiani sono chiamati a collaborare per risolvere i problemi e risolvere i problemi insieme, come affermava Don Milani: questo è lo stile della politica. Così anche le Acli hanno inteso stare nel mondo: nate e costituite in ambito cattolico le Associazioni non sono mai state fuori dalla realtà, ma sempre dentro di essa, per promuovere i valori morali e civili necessari alla trasformazione in meglio della società, anche abitando il luogo più delicato e maggiormente compromesso, quello della politica. Occorre, però, vivere le realtà del mondo, nella vita normale di ogni giorno, partecipare ai drammi e alle sofferenze, stare a fianco delle persone, testimoniando la speranza trasformativa del cristiano, la capacità profetica di un futuro che viene e per il quale bisogna operare. I Papi che, con la loro profondissima umanità e senso dell'umano, hanno insegnato al mondo a confrontarsi con la realtà, ad immergersi nel nuovo che emergeva, non a temerlo o a fuggirlo sono i Papi del Concilio Vaticano II, di cui si parla in questo libro. Sono stati Papi che hanno restituito vitalità alla Chiesa e l’hanno consegnata al nuovo millennio, non limitandosi a profetizzare sventure che inducono al disimpegno, ma concentrandosi su quanto si può fare per migliorare lo stato delle cose. È questa una lezione che è stata fatta propria anche dai pontefici che li hanno seguiti, così fino all'attuale Papa Francesco.

Ci sono stati, nel periodo storico considerato in questo libro, momenti nei quali l'elaborazione culturale e le decisioni assunte dagli organi dirigenti nazionali delle ACLI sono apparse allontanarsi dal magistero della Chiesa. Il momento più difficile, doloroso per il Pontefice, come pure per tutto il movimento, è stato il 19 giugno 1971, quando Paolo VI ha deplorato pubblicamente le ACLI per aver “voluto mutare l'impegno statutario del movimento e qualificarlo politicamente, scegliendo per di più una linea socialista, con le sue discutibili e pericolose implicazioni dottrinali e sociali.” Tuttavia, con il distacco storico che oggi ci è consentito, dopo quasi mezzo secolo, possiamo comprendere come le divergenze vertessero su questioni contingenti, soprattutto sull'unità politica dei cattolici, allora ritenuta ancora indispensabile dal Papa per garantire la tenuta democratica dell'Italia. Tali divergenze non hanno tuttavia mai incrinato l'adesione delle ACLI alla visione della Chiesa e del mondo del grande pontefice bresciano, alla sua volontà di attuare pienamente il Concilio, alla sua visione missionaria della Chiesa, alla consapevolezza che evangelizzazione e promozione umana sono strettamente connesse e non possono essere separate. Così come le ACLI hanno sempre condiviso l'orientamento montiniano-francese, per usare le parole dello storico Fulvio De Giorgi, che valorizza il ruolo dei laici nell'apostolato, non riducendolo ad una mera esecuzione delle direttive della gerarchia ecclesiastica. E altrettanto hanno condiviso e cercato di tener presente nella loro azione la visione non totalmente negativa del mondo moderno, sancita dalla costituzione pastorale Gaudium et spes, che ha trovato in Montini un convinto sostenitore ancor prima di essere elevato al soglio pontificio, in una concezione delle realtà che si richiama all'insegnamento di Jacques Maritain, di cui Montini stesso fu in gioventù un traduttore e un ammiratore, nonostante gli ambienti tradizionalisti della Chiesa lo avversassero. Per questo le ACLI sono particolarmente liete ed orgogliose che la Chiesa abbia elevato all'onore degli altari san Paolo VI, che può essere considerato un fondatore e un padre spirituale delle ACLI.

A questo punto – in conclusione - è legittimo porsi un interrogativo sui nostri tempi, sulla modernità avanzata con la sua pluralità di riferimenti culturali, che impone anche ai laici cattolici e alle gerarchie di ripensarsi. In senso generale si può affermare che la perdurante debolezza delle istituzioni repubblicane spesso riduce ad uno strumentale interesse l’esigenza di tener conto di ciò che il cattolicesimo rappresenta nel Paese. I problemi che condizionano lo sviluppo del nostro Paese chiedono oggi un supplemento di impegno, ma non solo concreto, così come abbiamo sostenuto fino ad adesso. Perché sono posti in discussione anche i fini della convivenza civile: e questo, in ultima istanza, pone anche una questione spirituale. Sotto questo profilo si tratta di aumentare, non di ridurre, la partecipazione. Ma con modalità e tonalità assai differenti che nel recente passato. Va anzitutto riscoperto il senso profondo del “politico”, affinché nell'azione la politica ancora sia una delle forme più alte della carità, come ebbe a dichiarare Paolo VI.

Concentrarsi sull’impegno caritativo e solidale è meritorio, ma non è sufficiente: attira molti consensi, ma da solo non basta. L'utilità è oggi un criterio di straordinaria importanza: ma va coniugato con la ricerca delle ragioni vere del perché si sta insieme. Senza questa ricerca la presenza e la capacità di rinnovamento del cattolicesimo politico si sono indebolite, lasciando che il voto cattolico fosse oggetto delle brame delle diverse formazioni partitiche che, a tale scopo, si sono mostrate ossequiose e riverenti verso la Chiesa. Questa è una stagione che ha tolto molto protagonismo ai movimenti, alle associazioni, alle comunità, agli ordini religiosi. Questi, invece, sarebbero soggetti che non consentirebbero di separare la carità dalla politica: la politica come forma di “carità lunga”, la carità come orizzonte entro il quale inscrivere una politica profondamente umana perché “di senso”.

Per questo noi continuiamo a pensare che la fede cristiana sia una preziosa risorsa di senso nella società contemporanea. L’esito non scontato ma importante dell’esercizio di una reale autonomia è la crescita di tutti i soggetti coinvolti. Certamente le scelte opinabili dei laici sono passibili di errore e pur tuttavia senza sbagliare non si impara e, soprattutto, non c’è presenza, né vera condivisione. Le Acli si sono sempre sforzate nella loro storia di dare contenuto al termine “partecipazione” nella logica di una effettiva e responsabile autonomia, ribadita contro ogni logica di partito, per influenzare la politica e condurla ad un radicale rinnovamento, avvertito come improrogabile dalla gente e anche dalla Chiesa. Del resto, la presenza sulla scena politica di soggettività politiche diverse dà un’articolazione più ampia e autentica alla democrazia. Pur non potendo quantificare quanto questo abbia contribuito alla crescita della Chiesa nel suo insieme, abbiamo ugualmente l’ambizione di credere che non sia stato irrilevante. Solo mediante l’autonomia, segno di contraddizione, è possibile l’arricchimento e la maturazione di tutti gli attori in campo. Lo scambio e il confronto è possibile solo sulla scorta del reciproco riconoscimento e della reciproca indipendenza: non si può abdicare al ruolo, non si può stare al di sotto di questo livello, se si vuole fare la propria parte.

A volte, in modo induttivo, si fatica a “leggere” gli eventi che si vivono e a capire cosa essi ci stiano dicendo e a quale azione si stiano chiamando ad operare. È lo sforzo del discernimento. Oggi – per dirla da donne e uomini che vivono il secolo – abbiamo consapevolezza di essere immersi in un profondo cambiamento, grave e fors'anche assai pericoloso. Alcune faglie si sono aperte e qualche camminamento non è più possibile. Quale strada prendere? Da quali luci farsi guidare? Lumina civitatis, lux in Domino: anche le luci della città possono essere luce in Dio se riusciamo a discernere le luci “giuste”, quelle che la fede ci sa indicare. Bisogna allenare lo sguardo.

La storia che l'amico Maurilio Lovatti – che ringrazio particolarmente, per la rigorosa curiosità e la sempre gratuita disponibilità – ci regala, è una storia di “allenamenti dello sguardo”. Poi si sono giocate anche partite molto dure: ma i soggetti in campo sapevano bene quale fosse la posta in gioco, con quali modalità si giocasse e con quale spirito. Noi oggi ne facciamo esperienza. Questo è un pezzo della nostra storia. Ne siamo fieri e grati a chi ci ha preceduto.

 

 

 

 

 

Maurilio Lovatti
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Giovanni XXIII, Paolo VI e le ACLI

Maurilio Lovatti Indice generale degli scritti

 

 

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