Maurilio Lovatti Marino Carboni e le ACLI Marino Carboni è eletto presidente delle ACLI dal Consiglio nazionale il 5 novembre 1972, con un largo consenso (74 voti su 92), quando ha 39 anni. Carboni era nato a Castel d'Aiano, in provincia di Bologna, il 22 settembre 1933. All'età di 19 anni lascia la famiglia per iscriversi a Scienze politiche all'Università Cattolica di Milano. A Milano Carboni conosce Livio Labor e ne diviene uno dei suoi principali collaboratori. Nel 1955 è chiamato a Roma dallo stesso Labor per occuparsi della Scuola centrale di formazione e sempre a Roma terminerà gli studi universitari. Nell'inverno del 1959, mentre si recava ad un incontro per conto delle ACLI, è investito da una moto e riporta una grave commozione cerebrale. Rimane per un mese in ospedale e poi si riprende gradualmente. Fedelissimo di Labor, durante la presidenza di Ugo Piazzi (1960-1961) partecipa attivamente all'opposizione interna del Moc (Movimento operaio cristiano); dopo il congresso di Bari del 1961 diviene segretario organizzativo e poi vicepresidente dal 1968. Da Gabaglio a Carboni: un delicato e complesso passaggio di consegne La particolare
debolezza della posizione del presidente nazionale Emilio Gabaglio dopo le elezioni
politiche del 1972, l'ostilità manifesta della DC e la difficoltà a
ristabilire rapporti proficui col mondo cattolico e con la gerarchia portano
gran parte della maggioranza emersa nel Congresso di Cagliari
(aprile 1972) e in particolare gli esponenti più accorti di essa, come Carboni
e Rosati, a cercare d'attuare un cambiamento più significativo della
linea politica delle ACLI, con il dichiarato intento di valorizzare la
dimensione educativa e formativa del movimento, ridimensionandone invece
l'impegno più direttamente politico, e in particolare le critiche esplicite
e polemiche verso la DC. Fin dalla sua costituzione la presidenza Carboni si impegna a cercare di ricostruire un rapporto di dialogo e di collaborazione col mondo cattolico, nel tentativo di superare le lacerazioni con la gerarchia ecclesiastica che erano culminate nella deplorazione di Paolo VI, e di far venir meno l'ostilità dei vertici democristiani, manifestatasi in particolare dal 1970, dopo il congresso di Torino e l'ipotesi socialista di Vallombrosa. Si tratta di un disegno ritenuto inderogabile, ma molto difficile da realizzare, perché nel contempo e prioritariamente il gruppo dirigente delle ACLI intende procedere nel rispetto dei deliberati congressuali di Torino e Cagliari, e quindi escludendo un ritorno al collateralismo e al sostegno dell'idea dell'unità politica dei cattolici in Italia. Marino Carboni e la presidenza nazionale, benché determinati, appaiono consapevoli della difficoltà di realizzazione di tale strategia. Il tentativo di distensione con la gerarchia inizia fin con i primi passi della presidenza Carboni. Parlando a Genova, il presidente nazionale ribadisce la disponibilità al confronto coi vescovi: "Siamo e rimaniamo disponibili al dialogo con l'episcopato italiano […] perché si trovi il modo per assicurare alle ACLI, anche attraverso la presenza dei sacerdoti, l'indispensabile alimentazione cristiana. Non chiediamo avalli o coperture per le nostre opinabili scelte; desideriamo soltanto che il fondamento cristiano della nostra presenza e della nostra azione risalti […] anche per l'interesse pastorale che la comunità ecclesiale italiana non può non avere verso un'organizzazione di massa che quel fondamento assume a principio della propria esistenza e della propria iniziativa." (Comunicato stampa del 5 febbraio 1973, in Le ACLI per lo sviluppo della società italiana (1972-75), ACLI, Roma 1975, vol. 2, pp. 11-13, alla p. 13) Il Consiglio nazionale delle ACLI del 24 e 25 febbraio 1973, dopo un confronto informale con il gruppo sacerdotale della Pastorale del lavoro della CEI, approva un lungo e articolato documento sul problema dei rapporti ecclesiali, che costituisce il quadro di riferimento per l'azione delle ACLI volta a ricucire, anche solo parzialmente, lo strappo del 1971: "Le ACLI hanno confermato di voler assumere […] il messaggio evangelico e l'insegnamento della Chiesa come fondamento della loro azione e quindi come ragione d'essere del movimento e riferimento costante della sua proposta educativa e del suo impegno sociale; in tal modo l'insieme delle esperienze che le ACLI realizzano nel movimento operaio e nella società italiana esplicitamente si richiama all'annuncio cristiano di salvezza, così come è proposto dal Magistero della Chiesa in risposta alle esigenze storiche dell'uomo; […] conseguentemente l'impegno formativo, rivolto ai dirigenti ed agli iscritti – e da esplicare secondo la visione cristiana dell'uomo e della storia – resta uno degli scopi essenziali delle ACLI e va tradotto in iniziative atte a costruire nelle ACLI una autentica esperienza di vita cristiana. Tale impegno mantiene un valore ontologicamente primario, anche quando storicamente si traduce in una testimonianza caratterizzante di azione nella dimensione sociale." (Documento sul problema dei rapporti ecclesiali, allegato al VCN del 24-25 febbraio 1973, in ASA, Serie Organi statutari, b. 8; AS, 11 marzo 1973) Le tesi di Torino e Cagliari sono confermate, seppure con un linguaggio più cauto e meno dirompente: "L'impegno diretto sul terreno sociale che le ACLI realizzano nel movimento operaio e nella società, si traduce nella organizzazione dei lavoratori cristiani che intendono concorrere alla costruzione di una nuova società con una proposta che mira ad assicurare, secondo giustizia, lo sviluppo integrale - cioè materiale e spirituale di tutti gli uomini e di ogni uomo. Tale impegno resta vitalmente ancorato al fondamento cristiano dell'associazione ed è naturalmente sensibile alle indicazioni pastorali dei Vescovi. Esso però, per la sua stessa natura, in quanto cioè esercitato da laici secondo le indicazioni del Concilio, esige l'assunzione di un'autonoma responsabilità della organizzazione in quanto tale, in modo che non sussistano pericoli di strumentalizzazione o compromissione per i Pastori sulle molteplici scelte opinabili proprie della azione in campo sociale e politico; […] La funzione complessiva delle ACLI, così come emerge dal congresso di Cagliari, è quella di un movimento che […] intende promuovere la partecipazione sociale dei lavoratori cristiani per la costruzione di una nuova società e che, contestualmente, intende svolgere un'intensa opera formativa – religiosa, morale e sociale – tra quanti scelgono di aderire alle ACLI stesse." Dopo una lunga riflessione sulla natura dell'azione sociale delle ACLI, il documento si conclude con un messaggio ai vescovi: "Il Consiglio nazionale delle ACLI, nell'assumere la responsabilità di evidenziare ai Vescovi l'autenticità delle ACLI, così come è configurata nella loro storia e riassunta nelle deliberazioni del XII Congresso, manifesta esplicitamente la volontà di attuare l'esperienza di formazione e di vita cristiana dell'organizzazione in un tipo di dialogo con i Vescovi che, pur non riproponendo le forme del «consenso» istituzionalizzato, corrisponda alla dichiarata qualificazione cristiana del movimento; le ACLI riconfermano quindi la piena disponibilità […] ad un fecondo collegamento con i momenti della pastorale del lavoro, come pure l'impegno di presenza degli aclisti nelle iniziative da questi promosse. […] A partire dall'autenticità del fondamento cristiano delle ACLI possono essere agevolmente individuati gli spazi e i momenti specifici di formazione e di vita cristiana nei quali può pienamente e senza strumentalizzazioni esplicarsi un impegno non episodico dei sacerdoti […] Il Consiglio nazionale ritiene che su tali basi possa costruirsi un tessuto nuovo di rapporti […] valido per la comunità ecclesiale e per la classe lavoratrice in Italia." (ivi, p. 16) Il documento è approvato a maggioranza: 52 voti favorevoli, 22 contrari e 5 astenuti. Votano contro la sinistra di Brenna e il gruppo di Gabaglio. (AS, 11 marzo 1973) Per la sinistra Michele Giacomantonio, pur essendo favorevole al dialogo con la gerarchia, si esprime con durezza contro il documento della presidenza Carboni che prefigura un confronto caratterizzato "dall'opportunismo e dal clericalismo." Per Gabaglio invece il documento tradisce gli orientamenti assunti dal congresso di Cagliari poiché "il valore ontologicamente primario riconosciuto alla formazione sconvolge il delicato equilibrio che si era realizzato […] tra i due poli caratterizzanti le ACLI, quello educativo e quello sociale, e porta ad una autolimitazione in negativo. Se non si tratta di pura affermazione di principio non potrà che pesare negativamente sulla prassi delle ACLI, rischiando di isolarci dalla maggioranza del movimento operaio." Per Gabaglio vengono intaccate "le conquiste di autonomia e di laicità che avevano caratterizzato le ACLI negli ultimi anni." Nonostante l'impegno dispiegato dalla presidenza Carboni, la disponibilità delle ACLI a riprendere il dialogo con la gerarchia non produce effetti significativi nel breve e medio periodo, anche se va ricordato che timidi e limitati tentativi di disgelo possono esser considerati la partecipazione attiva delle ACLI al convegno del Vicariato sui mali si Roma (febbraio 1974) e al convegno nazionale di studi, promosso dalla Commissione per i problemi sociali della CEI, sulla partecipazione del 15-17 marzo 1974, presieduto da mons. Santo Quadri, che svolge la relazione introduttiva, e a cui interviene anche mons. Enrico Bartoletti, segretario della CEI. Se molto lenti, quasi impercettibili sono i progressi nei rapporti con la gerarchia, molto più rapidamente la presidenza Carboni ricuce i rapporti con la sinistra DC e in particolare con Forze Nuove. Già nel Consiglio nazionale del 7 e 8 luglio 1973, in occasione della costituzione del IV governo Rumor, che segnava il ritorno al centro sinistra, dopo la parentesi centrista del governo Andreotti-Malagodi, Domenico Rosati propone un documento, approvato poi con 39 voti favorevoli e 19 contrari, che esprime il plauso delle ACLI per la formazione della nuova maggioranza con il PSI: "Al conseguimento di questo risultato hanno dato un contributo determinante tutte le forze popolari che […] hanno impedito che si consolidasse la linea involutiva che mirava alla sconfitta del movimento operaio." (AS, 15 luglio 1973) Non si tratta però di un consenso acritico; il documento approvato precisa che il centro sinistra deve dimostrare coi fatti di saper intervenire per modificare il "meccanismo economico" e invertire le priorità nei consumi e nella produzione, perché "il centro sinistra ha già fallito una volta su questo terreno; un nuovo insuccesso nelle presente aggravata situazione non permetterebbe prove di appello." Nel dibattito Dolores Deidda di GA rileva nel documento "un tifo abbastanza sfacciato per il nuovo governo" e Luigi Borroni parla polemicamente di "orgia di soddisfazione per il nuovo assetto governativo." Il referendum sul divorzio Il 1 dicembre 1970 era stata definitivamente approvata dal Parlamento la legge Fortuna-Baslini sul divorzio, col voto contrario della DC. Fin dall'anno precedente le ACLI avevano assunto un atteggiamento critico verso la proposta di legge, confermando "la loro fedeltà ai valori dell'indissolubilità della famiglia fondata sul Sacramento del matrimonio" e affermato: "Il divorzio non può essere in ogni caso considerato la soluzione ai mali e ai problemi obiettivi della famiglia." (VCN del 8 dicembre 1969, in ASA, Serie Organi Statutari, b. 8) Subito dopo l'approvazione della legge era stato diffuso un appello agli italiani da parte di 25 personalità del mondo cattolico, nel quale si annunciava la volontà d’indire un referendum abrogativo della legge. L’appello era firmato tra gli altri da Gabrio Lombardi, Giorgio La Pira, Augusto Del Noce, Sergio Cotta, Carlo Felice Manara, Enrico Medi, Alberto Trabucchi ed affermava: "Noi siamo persuasi che l'introduzione del divorzio non corrisponda alla volontà della grande maggioranza degli italiani." (Messaggio del Comitato promotore del referendum, in G. Lombardi, Perché il referendum sul divorzio? 1974 e oltre, ARES, Milano 1988, pp. 39-41, alla p. 39). Il Comitato promotore del referendum, coordinato da Lombardi aveva iniziato ad operare nella primavera del 1971, raccogliendo 1.370.134 firme, depositate presso la Corte di Cassazione il 19 giugno 1971. Paolo VI, ancor prima dell'approvazione della legge, aveva manifestato vivissima preoccupazione per la paventata introduzione dell'istituto del divorzio in Italia. In un appunto del 15 giugno 1970 aveva scritto: "Quale sfortuna sarebbe per l'Italia, per la sua tradizione giuridica, per la solidità dell'istituto familiare e della compagine sociale, per la pedagogia del costume e del concetto autentico dell'amore, per il senso del dovere, per la sorte di tanti figli orfani di genitori infedeli alle loro responsabilità, per la divisione degli animi risultante e per l'obbligo della protesta doverosa per i cattolici e la Chiesa. Sarebbe atto politico infelicissimo." (cit. in M. G. Vian, Montini e il divorzio trent'anni dopo, in «Vita e Pensiero», 2004, n. 3, pp. 101-105, alla p. 104). Se il giudizio totalmente negativo sulla legge e la preoccupazione per le sue conseguenze permangono costanti, l'atteggiamento di Paolo VI sulla questione dell'opportunità del referendum ha subito invece variazioni nel corso dei tre anni successivi all'approvazione della legge sul divorzio, poiché i motivi a favore e contro sembravano opporsi in un groviglio difficilmente districabile. Pur con la riserva dovuta alle fonti parzialmente non consultabili, in un primo momento sembrano prevalere le ragioni a favore della consultazione popolare; infatti il card. Agostino Casaroli ha conservato nelle sue carte un appunto manoscritto del Pontefice del 21 novembre 1971: "Allo stato presente delle cose, penso che sia dovere e interesse attenersi alla difficile, ma lineare prova del referendum, anche se dubbio ne sia il risultato. E' un rischio audace, ma che dà credito a chi lo affronta per lealtà democratica e cristiana, e che impegna ogni corrente di sana ispirazione morale a dare fiducia a chi lo affronta con franchezza politica, e obbliga la coscienza cattolica del Paese a ritrovare energie e unità." (ivi, pp. 104-105) Tuttavia due anni dopo, incoraggia i tentativi di mediazione per evitare il referendum, e ricevendo in udienza il 18 agosto 1973 mons. Enrico Bartoletti, segretario della CEI, manifesta un orientamento diverso: "Il Santo Padre […] teme che spingere al referendum sia invitare ad un eroismo dei cattolici italiani, pastoralmente inutile." (cit. in A. Riccardi, Vescovi d'Italia. Storie e profili del Novecento, S. Paolo, Cinisello B. (MI) 2000, p. 189). Tali esitazioni si possono spiegare tenendo presente che, da un lato, per la concezione filosofica e culturale del Pontefice, l’indissolubilità del matrimonio scaturiva dal diritto naturale, era un valore umano e non solo cristiano e ciò induceva a giustificare la battaglia affinché le leggi dello Stato la promuovano e la difendano, tuttavia d'altro lato, nella concreta situazione politica italiana, la competizione referendaria era strumentalizzata politicamente da Fanfani e dalle componenti più conservatrici della DC, che l'avrebbe dovuta affrontare a fianco della destra missina, e inoltre non era condivisa da molti intellettuali cattolici, e quindi rischiava di produrre ulteriori lacerazioni nel tessuto ecclesiale, già tormentato dalla contestazione dei cattolici del dissenso. Ad esempio, il rettore dell'Università cattolica, Giuseppe Lazzati, scrive a Paolo VI per esprimere la sua netta contrarietà allo strumento referendario per cercare di abrogare la legge sul divorzio: "Non posso […] nascondere la mia viva preoccupazione che per la difesa di un principio e valore di tanta elevatezza e di tanta delicatezza ad un tempo quale è quello dell'indissolubilità del matrimonio, si scelgano modi che potrebbero, a mio modesto avviso e al di là delle intenzioni di chi sembra volerli, aggravare un male che solo modi suggeriti da superiore sapienza potranno contenere. Alludo al referendum, la cui fonte di democraticità è fuori di dubbio, ma che per la materia cui si applicherebbe mi sembra gravido di conseguenze negative." (Lettera di Giuseppe Lazzati a Paolo VI del 25 dicembre 1970, in «La Discussione», 18 aprile 1988). La stessa contrarietà al referendum abrogativo Lazzati la manifesta in un intervista: "Pur restando intatta la contrarietà dei cattolici al divorzio, essi non possono imporre a chi non crede una legge che solamente la fede rende possibile. E' questione di libertà: la Chiesa è esplicita nel dichiarare che la fede non si impone, e ciò non può non avere le sue conseguenze." («Avvenire», 3 marzo 1974). Anche tra i più stretti collaboratori del Pontefice vi sono pareri contrapposti: mons. Giovanni Benelli, Sostituto alla Segreteria di Stato, spesso in sintonia con le posizioni di Fanfani, era ad esempio decisamente favorevole al referendum, mentre mons. Bartoletti, più vicino a Moro, desiderava evitarlo. Il Consiglio nazionale delle ACLI il 10 febbraio 1974, nell'imminenza di una presa di posizione ufficiale dei vescovi, vota a maggioranza un documento, in cui si afferma: "Il valore fondamentale, cristiano ed umano, della indissolubilità della famiglia, che è compito dei cristiani affermare nella società in un contesto pluralistico rispettoso della libertà di tutti. Nella concreta traduzione storica di questo principio, che esclude atteggiamenti integralistici o immotivate rinunce, i lavoratori cristiani delle ACLI sono coerenti col fondamento statutario dell'organizzazione e naturalmente sensibili alle indicazioni pastorali dei Vescovi, impegnandosi ad evitare ogni degenerazione dello scontro del referendum a «guerra di religione» ed ogni strumentalizzazione propagandistica." (VCN del 9-10 febbraio 1974, in ASA, Serie Organi statutari, b. 8; QAS, 1974, n. 10-12, pp. 187-90). Il documento non contempla una esplicita indicazione per il sì al referendum, a differenza di analoghi documenti coevi di associazioni e movimenti cattolici, ma si limita a prendere atto di una naturale sensibilità delle ACLI a considerare le indicazioni pastorali dei vescovi, che sarebbero state pubblicate una decina di giorni dopo. Si tratta di una posizione abbastanza originale per il mondo cattolico, poiché pur non fornendo esplicite dichiarazioni di voto, incoraggia in qualche modo a tener nel debito conto l'orientamento della CEI e della gerarchia, favorevole all'abrogazione della legge, e come tale nelle aspettative della maggioranza potrebbe forse essere accettata o semplicemente tollerata come male minore da una parte di quegli aclisti che erano orientati in coscienza a votare per il no. In realtà sia il presidente Carboni, sia il vice Rosati sono per il no al referendum, ma non rendono nota la loro convinzione personale per non interrompere del tutto i rapporti con la gerarchia e per non danneggiare le ACLI. (Rosati ha votato no al referendum ed è certo che anche Carboni abbia fatto altrettanto; colloquio con l'autore del 14 aprile 2018 a Roma). Inoltre il documento approvato non ignora e nemmeno minimizza i pericoli della strumentalizzazione politica del referendum: "Le ACLI hanno già denunciato i pericoli di una strumentalizzazione dello scontro sul divorzio a vantaggio di quelle forze che non da oggi hanno dimostrato di operare per mettere in crisi le basi stesse della nostra democrazia e delle libere istituzioni su cui si fonda. Occorre in particolare stabilire una precisa ed inequivocabile linea di demarcazione, a tutti i livelli, nei confronti delle rinnovate velleità reazionarie e fasciste di trarre vantaggio da una grave spaccatura tra le forze democratiche e popolari che si riconoscono nella Costituzione democratica nata dalla Resistenza. Una grave responsabilità incombe a questo proposito sui cattolici democratici, della cui tradizione le stesse ACLI si sentono partecipi: occorre impedire che il patrimonio storico di libertà che essi hanno costruito in Italia venga dilapidato in una contrapposizione frontale e senza sbocchi." Le minoranze interne, sia la componente di sinistra guidata da Brenna, sia la pattuglia gabagliana che si era astenuta sull'accordo programmatico sulla base del quale era sorta la presidenza Carboni nel novembre 1972, non condividono comunque il documento proposto dalla presidenza, soprattutto perché manca la distinzione tra la doverosa difesa dei valori sul piano dei principi e l'autonomia della leggi dello Stato, che valgono per tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro concezioni religiose e filosofiche. Le minoranze contrappongono dunque un proprio documento, molto critico verso le responsabilità della DC, accusata di "sostanziale collusione con gli ambienti della destra clericale", nel quale si sottolinea esplicitamente la libertà di coscienza dell'elettore, che non deve essere in alcun modo coartata da precise indicazioni elettorali. L'obiettivo delle minoranze è di ottenere una piena ed esplicita neutralità delle ACLI nella competizione referendaria, con la garanzia del disimpegno delle strutture locali. Anche la commissione nazionale delle ACLI per i problemi delle lavoratrici si era già espressa il 27 gennaio per il disimpegno delle ACLI. Sulla stessa linea si erano orientate in precedenza le ACLI lombarde, con un assemblea tenuta a Bergamo il 19 gennaio. Nel dibattito Gabriele Gherardi, vicino a Gabaglio, afferma: "Io voterò per il mantenimento del divorzio. Lo farò come cattolico […] per contribuire cioè a liberare la Chiesa, di cui mi sento figlio, dall'equivoco concordatario e giuridicista." (QAS, 1974, n. 10-12, p. 57). Per Gherardi il documento sul referendum è l'ultimo atto di una serie di cedimenti: "Chiedo al Consiglio nazionale di prendere atto del fatto che dopo 15 mesi di svendita, non c'è più molto da salvare che valga la pena di essere salvato a questo prezzo." (ivi, p. 59). Durissimo è Michele Giacomantonio della sinistra: "Il problema di questa maggioranza non è la base, ma è la Gerarchia e la DC, è l'autonomia profondamente compromessa di questo movimento […] oggi Carboni si schiera di fatto con Gedda e Fanfani." (ivi, p. 77). Opposta è l'interpretazione del sen. Vittorio Pozzar, convinto sostenitore del sì, per il quale il problema non è "la scelta tra partecipazione e disimpegno, ma la scelta del modo di partecipare ad una campagna in favore dell'abrogazione della legge sul divorzio, che deve essere un modo tutto nostro, responsabile e sereno." (ivi, p. 63). Il documento è approvato dal Consiglio nazionale con 60 voti a favore e 24 contrari, con 12 assenti. (VCN del 9-10 febbraio 1974). Tra i contrari, oltre ai gruppi di Brenna e Gabaglio, anche il delegato nazionale di Gioventù Aclista, Alessandro Tesini. Due giorni dopo la conclusione del Consiglio nazionale, il direttivo nazionale di Gioventù Aclista riunito a Roma, approva un durissimo documento sul referendum, che se pur formalmente e alla lettera non in contraddizione con quello del Consiglio nazionale, risulta apertamente dissonante nel tono e nei contenuti dalla linea ufficiale delle ACLI appena definita. Il referendum è giudicato come una scelta "voluta dalle forze clericali e reazionarie per deviare l'attenzione dei lavoratori dai loro oggettivi bisogni ed interessi." Senza esitazioni, GA ritiene di sottolineare "i pericoli reali cui la campagna per il referendum portata avanti dalla DC e dalla destra espone non solo l'avanzata dei lavoratori, ma lo stesso quadro istituzionale democratico. […] L'iniziativa referendaria non [ha] né giustificazioni religiose né giustificazioni politiche. […] Non si può certo sostenere che l'indissolubilità del matrimonio, predicata dal Vangelo, e quindi la concezione della famiglia come rapporto d'amore fedele ed indissolubile, deve essere messa ai voti invece che affidata alla testimonianza dei cristiani. […] Il direttivo mentre ribadisce la propria concezione dell'indissolubilità del matrimonio […] riconferma i principi del pluralismo, della libertà di coscienza e delle scelte in una società che vuol essere democratica e non intollerante dal punto di vista religioso." (Documento allegato alla lettera di Sandro Tesini, delegato nazionale di GA, ai presidenti provinciali e regionali delle ACLI del 7 marzo 1974, prot. n. 733, in ASA, Serie GA, b. 30, fasc. Comitato nazionale GA del 16-17 marzo 1974). Domenico Rosati, responsabile della stampa aclista, ne rifiuta la pubblicazione su ACLI Oggi. Nella successiva riunione della presidenza Alessandro Tesini, delegato nazionale di GA, afferma che la decisione di Rosati è immotivata per il metodo, in quanto GA non è un organo periferico del movimento, ma anche nella sostanza, perché non ritiene ci sia disaccordo formale tra il documento di GA e le indicazioni del Consiglio nazionale. Rosati precisa che la richiesta è stata generica e cioè con illustrazione verbale del documento, ribadisce le riserve esplicitate a GA e si rimette al parere della presidenza. Precisa che ACLI Oggi "non si può configurare come organo interno". Carboni condivide l’operato di Rosati "che rientra perfettamente nell’ottica delle decisioni assunte: il fatto che GA sia organo nazionale e non periferico rafforza il vincolo alle conclusioni del Consiglio Nazionale". Tesini "ribadisce il suo punto di vista e si riserva di valutare meglio la decisione". (VP, 20 febbraio 1974, punto 11, lettera d). Tesini, appoggiato da tutto il gruppo dirigente di GA decide di diffondere alla stampa il documento approvato. Un così aperto conflitto tra la presidenza nazionale e Gioventù Aclista non si era mai verificato nell'ormai trentennale storia delle ACLI. La presidenza è nuovamente convocata d'urgenza il 22 febbraio, solo due giorni dopo la precedente riunione. Carboni informa che, dopo l’ampio dibattito in presidenza il 20 febbraio, nonostante il formale invito a GA a non pubblicizzare all’esterno il documento, "oggi esso è riportato ampiamente sui giornali e con titoli per noi pericolosissimi; ricorda anche che prima della convocazione del direttivo Tesini gli aveva riferito che era previsto un documento sulla situazione generale del paese, ma non sul divorzio. Di fronte a questi, è urgente decidere un atteggiamento che permetta di evidenziare all’interno e all’esterno, chi gestisce il movimento. Ciò anche per le conseguenze che questo andazzo ha rispetto al mondo cattolico, nei cui confronti in particolare, rischiamo di annullare mesi di lavoro." (VP, 22 febbraio 1974, punto 1). Rosati si associa alle osservazioni di Carboni e propone di sospendere l'attività del movimento giovanile, "per quanto di nostra competenza" e la convocazione del comitato di GA. Non ritiene che "si possono prendere in considerazione denunce ai probiviri o commissariamenti. L’unica strada è quella del blocco degli aiuti della struttura e dei finanziamenti. Decisione da gestire spiegando chiaramente alle presidenze provinciali le motivazioni che l’hanno provocata, nonostante le ripetute occasioni di compromesso; occorre inoltre riavviare l’esperienza di GA in provincia dove le condizioni lo consentono. D’altra parte, anche se è una misura dura non ci sono alternative." La presidenza approva, "pur nel rammarico di dover assumere simili atteggiamenti e decisioni", con Tesini assente dalla riunione. Un paio di giorni dopo, su ACLI Oggi è pubblicato un comunicato stampa, nel quale la presidenza nazionale rende noto di aver deciso di "deplorare politicamente il comportamento dei responsabili di Gioventù Aclista, dissociando completamente la propria responsabilità." (AO, 25 febbraio 1974, p. 4). La sinistra ACLI (Gabaglio e Brenna) definisce la decisione "grave, in quanto la presidenza nazionale si è arrogata poteri che lo statuto non prevede e quindi a maggior ragione non gli attribuisce, compiendo un atto che non trova riscontro alcuno nella prassi di trent'anni di vita delle ACLI. Il comportamento della presidenza nazionale è pertanto inaccettabile e costituisce un attentato alle norme, scritte e non, sulle quali si fonda il patto associativo." (Comunicato allegato alle lettera di Sandro Tesini del 7 marzo 1974). Si tratta di uno scontro interno, dai toni durissimi, espresso anche attraverso comunicati pubblici, ampiamente riportati dalla stampa nazionale, che non ha precedenti nella storia delle ACLI e che mostra la centralità e l'importanza, politica, ecclesiale e perfino emotiva, delle vicende connesse al referendum. Nel frattempo, il 21 febbraio 1974, il Consiglio episcopale permanente, riunito a Roma, diffonde un comunicato in cui si afferma che la CEI "ritiene suo dovere dare, a quanti vogliono vivere nello spirito del Vangelo le attuali vicende del nostro Paese, un orientamento dottrinale e una direttiva pastorale circa l'unità della famiglia e l'indissolubilità del matrimonio. Alla luce della parola di Dio, la Chiesa ha costantemente insegnato che il matrimonio è indissolubile, non soltanto come sacramento, ma anche come istituto naturale. Solo infatti una mutua donazione personale e perenne dei coniugi garantisce alla famiglia il raggiungimento della sua interiore pienezza e l'adempimento della sua funzione sociale, soprattutto educativa. […] Il cristiano, come cittadino, ha il dovere di proporre e difendere il suo modello di famiglia. Il cristiano, come tutti gli altri cittadini, deve partecipare responsabilmente alla costruzione di un retto ordine civile e impegnarsi perché le leggi corrispondano ai precetti morali e al bene comune. Questa partecipazione, necessaria sempre, diventa più urgente quando i valori fondamentali della famiglia sono insidiati da una legge permissiva che, di fatto, giunge a favorire il coniuge colpevole e non tutela adeguatamente i diritti dei figli, degli innocenti, dei deboli. In cosi grave circostanza nessuno può stupirsi se i Pastori adempiono la loro missione di illuminare le coscienze dei fedeli e se questi, consapevoli del loro diritto-dovere, difendono la unità della famiglia e l'indissolubilità del matrimonio servendosi dello strumento costituzionale del referendum. […] Un leale confronto di idee sui principi e sui valori della famiglia non può per nessuno diventare pretesto per una guerra di religione." (NC, 1974, pp. 55-56). Il documento dei vescovi è approvato all'unanimità, ma la stampa laica riporta il dissenso del card. Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino, che abbandona la riunione prima del voto. (F. De Santis, I vescovi contro il divorzio adottano la linea dura, in «Corriere della Sera», 23 febbraio 1974). Mons. Pellegrino aveva consentito che il settimanale La Voce del Popolo, della diocesi di Torino, pubblicasse interventi sia a favore sia contro l'abrogazione della legge sul divorzio, e tre settimane dopo rilascia una dichiarazione in cui afferma: "Devo constatare che nella nostra diocesi è presente chi, pur riconoscendo la dottrina dell'indissolubilità, […] non sente di collocarsi tra coloro che vogliono l'abrogazione della legge in questione, e questo per motivi di libertà di coscienza, di pace sociale e di valutazioni politiche contingenti. […] Poiché la piena comunione ecclesiale è un bene da difendere e conservare col massimo impegno, le differenze di opinioni non derivanti dal rifiuto dell'indissolubilità, ma da motivazioni di ordine storico, non devono diventare motivo di divisione." («Avvenire», 13 marzo 1974). Anticipando di pochi giorni il comunicato ufficiale dei Vescovi, diversi e qualificati intellettuali cattolici, pur condividendo il valore dell'indissolubilità del matrimonio, si schierano a favore della legge sul divorzio, non ritenendo che un principio valido per la religione cristiana o per una determinata visione antropologica debba essere imposto a tutti i cittadini. Tra i firmatari dell' Appello dei cattolici democratici per il no al referendum del 17 febbraio 1974 troviamo Pietro Scoppola, Giuseppe Alberigo, Francesco Traniello, Paolo Prodi, Piero Pratesi, Franco Bassanini, Raniero La Valle, Pasquale Saraceno, Luigi Pedrazzi, Tiziano Treu, Giancarlo Mazzocchi e Adriana Zarri, affiancati da autorevoli dirigenti sindacali come Pierre Carniti, Franco Bentivogli, Sandro Antoniazzi, Eraldo Crea e Luigi Macario e da noti giornalisti come Guglielmo Zucconi,Sandro Magister e Ruggero Orfei. (il testo integrale dell'appello e l'elenco completo dei firmatari sono in: Cattolici e referendum: per una scelta di libertà, Coines, Roma 1974). Vi sono anche alcuni dirigenti nazionali delle ACLI, come l'ex presidente Emilio Gabaglio, gli ex vicepresidenti Geo Brenna e Maria Fortunato, e alcuni consiglieri nazionali come Michele Giacomantonio, Gabriele Gherardi, e Giuseppe Reburdo, che naturalmente firmano a titolo personale, anche se non in sintonia coll'orientamento del movimento, se pur espresso a maggioranza. In un discorso tenuto al congresso provinciale delle ACLI di Brescia il 6 aprile, il presidente Carboni, riferendosi alla posizione assunta dal Consiglio nazionale, ne accentua lievemente il significato di invito alla "libera e responsabile maturazione degli aclisti", la cui scelta deve tener conto del valore dell'indissolubilità del matrimonio, ma anche "dei pericoli di strumentalizzazione" del referendum dovuti alle "manovre reazionarie e fasciste" e soprattutto del fatto che l'eventuale abrogazione della legge sul divorzio non rimuoverebbe le "cause che spesso sono alla base, nell'attuale contesto sociale, dei casi di disgregazione e rottura dell'unità familiare". Per questo Carboni formula un appello a "tutte le forze popolari e democratiche affinché evitino di bruciarsi i ponti alle spalle della campagna del referendum." Nello stesso discorso sottolinea come il lavoro "di approfondimento, di ricerca e di verifica" che le ACLI promuovono "contribuisce responsabilmente ad un arricchimento delle motivazioni su cui ciascuno baserà le proprie scelte il 12 maggio." Questo prudente tentativo di correzione nell'interpretazione del documento del Consiglio nazionale è confermato dal fatto che il congresso delle ACLI bresciane approva all'unanimità, col consenso implicito di Carboni, un documento sul referendum, unico atto unanime all'interno delle ACLI in tutta la tormentata campagna referendaria: "Il congresso non può ignorare come il voto del 12 maggio susciti anche tra i cattolici valutazioni sociali e politiche differenziate, anche in ordine al rispetto di convinzioni etiche diverse da quella cristiana. Il congresso ritiene inoltre che le esigenze del bene comune richiedano la tutela del fondamentale diritto di libertà indipendentemente dalle particolari e personali opinioni filosofiche e religiose" (AO, 16 aprile 1974, p. 4). Di fatto il dissenso di molti intellettuali cattolici rispetto al richiamo dei vescovi a votare per l'abrogazione della legge sul divorzio si diffonde a macchia d'olio nelle settimane che precedono il referendum. Perfino Carlo Carretto, prestigioso ex dirigente dell'Azione Cattolica, presidente nazionale dei giovani dal 1946 al 1952, si dissocia pubblicamente: "Voto no perché spero che dopo una buona lezione ricevuta sarà l'ultima volta che noi cattolici oseremo ancora presentarci in pubblico come difensori di un passato compromesso e senza l'afflato della profezia e dell'amore per l'uomo." (Referendum: il no di fratel Carretto, in «La Stampa», 7 maggio 1974). Il 12 maggio 1974 il 59,1% dei votanti si esprime contro l'abrogazione della legge sul divorzio. Paolo VI, tre giorni dopo, parlando ad un'assemblea di sposi novelli, afferma: "Tutti sappiamo […] come una larga maggioranza dell'amatissimo popolo italiano si sia pronunciata in favore d'una legge che ammette una certa facile possibilità di divorzio. Pur troppo. Ciò è per noi motivo di stupore e di dolore anche perché a sostegno della tesi, giusta e buona, dell'indissolubilità del matrimonio è mancata la doverosa solidarietà di non pochi membri della comunità ecclesiale; vogliamo supporre che essi abbiano agito senza rendersi pienamente conto delle gravi conseguenze del loro del loro comportamento, anche se l'autorevole e pubblico richiamo fatto alle esigenze della legge di Dio e della Chiesa non avrebbe dovuto lasciare alcun dubbio. Questa legge, ricordiamolo, non è cambiata." (Paolo VI, Insegnamenti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1963-78, vol. XII, 1974, pp. 428-29). Qualche settimana dopo, nell'omelia dell' 8 giugno, rivolgendosi ai vescovi e pensando al superiore valore dell'unità e della comunione nella Chiesa, ricorda ancora la "dolorosa" conclusione del referendum, ma intende facilitare il superamento delle divisioni interne alla comunità ecclesiale: "Non ne faremo […] un argomento di ormai superate polemiche. Faremo piuttosto un paterno appello agli ecclesiastici e religiosi, agli uomini di cultura e di azione, e ai tenti carissimi fedeli e laici di educazione cattolica, i quali non hanno tenuto conto, in tale occasione, della fedeltà dovuta ad un esplicito comandamento evangelico, ad un chiaro principio di diritto naturale, ad un rispettoso richiamo di disciplina e comunione ecclesiale, tanto saggiamente enunciato da codesta Conferenza Episcopale e da noi stessi convalidato: li esorteremo tutti a dare testimonianza del loro dichiarato amore alla Chiesa e del loro ritorno alla piena comunione ecclesiale." (Ivi, pp. 534-35). Lo stato d'animo del Pontefice dopo il referendum è validamente sintetizzato da Fulvio De Giorgi, che spiega come Paolo VI sia "spiazzato dalle posizioni, affini e contrarie, montiniane, ma contro le sue indicazioni, dei cattolici del no; evidentemente incerto sulla vera lettura da dare alla vicenda (i risultati davano retrospettivamente ragione proprio a chi non voleva il referendum); soprattutto colpito dall'evidenza della necessità, ormai indilazionabile, di un quadro concettuale e pastorale nuovo, oltre ogni paradigma di cristianità." (F. De Giorgi, Paolo VI, il Papa del Moderno, Morcelliana, Brescia 2015, p. 641). Mentre Paolo VI non nasconde "stupore e dolore" per l'esito del referendum, la valutazione delle ACLI cerca invece di coglierne anche gli aspetti positivi, non solo per valorizzare l'atteggiamento educativo e non categorico tenuto nel corso della combattutissima campagna elettorale, ma anche in considerazione degli aspetti politici della questione. Nel comunicato della presidenza nazionale leggiamo: "Emerge […] la tendenza di larghi strati cattolici, non già a rifiutare il valore irrinunciabile dell'indissolubilità del matrimonio, ma a preferire la sua affermazione attraverso la libera testimonianza delle proprie convinzioni in un contesto pluralistico rispettoso della libertà di tutti. […] Sul piano politico, le propensioni involutive dichiarate da alcuni settori più accesi tra i fautori del referendum, così come le radicalizzazioni […] risultano sconfitte dal voto popolare, dal quale […] sono emerse con chiarezza anche la conferma del quadro democratico costituzionale ed un rinnovato rifiuto delle strumentalizzazioni operate dalle forze neofasciste. […] Le ACLI hanno vissuto nella vicenda del referendum una ulteriore fase del travaglio attraversato da tutte le organizzazioni ed esperienze dei cattolici italiani. […] Le ACLI offrono […] la loro esperienza di movimento operaio alla comunità ecclesiale italiana, per l'avvio di una riflessione sulle vicende trascorse anche in vista di un adeguamento delle modalità d'intervento pastorale al mutato livello di sensibilità sociale e culturale, frutto di una evoluzione profonda delle strutture, della mentalità e del costume del popolo italiano" (Documento della presidenza nazionale, 16 maggio 1974). Fin dai primi giorni dopo l'esito del referendum, la sinistra delle ACLI, che si era impegnata attivamente nella campagna per il no dei cattolici democratici, sottolinea il ruolo decisivo dei cattolici che non si erano allineati al fronte abrogazionista guidato dalla DC di Fanfani, e in un comunicato congiunto di Brenna e Gabaglio, diffuso alla stampa, afferma: "La sconfitta della proposta abrogazionista e di tutto quanto essa rappresentava e sottintendeva, non sarebbe stata possibile senza l'apporto di un largo settore della base operaia e popolare d'ispirazione cristiana. Si tratta di una dura sconfitta della linea portata avanti dalla DC." («Avanti», 15 maggio 1974). Nella minoranza di sinistra delle ACLI vi è la consapevolezza dell'importanza storica del voto referendario, poiché per la prima volta nella storia repubblicana italiana l'unità politica dei cattolici era venuta effettivamente meno a livello di massa, e ciò era interpretato come un'affermazione definitiva del pluralismo delle opzioni politiche dei cattolici, in linea con gli orientamenti conciliari e con la Octogesima adveniens di Paolo VI. Peraltro anche i partiti della sinistra tradizionale, il PCI e il PSI, sono consapevoli del significato della svolta determinata dell'esito del referendum. Gabaglio ricorda che lo stesso Berlinguer aveva invitato personalmente gli esponenti cattolici per il no a festeggiare la sera stessa della diffusione dei risultati del referendum. (Colloquio con l'autore, 11 aprile 2018, a Roma). Per attenuare una valutazione prevalentemente politica del referendum, come quella delineata nel comunicato della presidenza nazionale del 16 maggio, la stessa presidenza decide di inviare riservatamente ai vescovi una lunghissima memoria, articolata in 14 capitoli, che considera anche le conseguenze pastorali ed ecclesiali del voto: "Che il risultato possa essere considerato deludente per chi aveva formulato diverse previsioni è un fatto. Ma noi siamo dell'avviso che sarebbe un errore storico e pastorale d'incalcolabile portata quello di ricavarne un'immagine di un Paese ormai in via di scristianizzazione, un Paese diventato lassista e transigente sul piano etico, disponibile a tutte le avventure ipotizzabili in una società secolarizzata e permissiva. Noi crediamo, al contrario, proprio in virtù di una diretta esperienza di contatto con una base popolare certamente rappresentativa, che non vi sia stata, nel no di molti cattolici, una volontà di rinuncia ai principi e alle coerenze di una pratica cristiana, nel matrimonio o in altri campi. Vi è stata invece […] una manifestazione di volontà di vivere e testimoniare i principi in un contesto diverso da quello tradizionale: un contesto pluralistico nel quale il cattolico non si identifica con le leggi che impone, ma con il messaggio che reca alle coscienze e con le opere che porta avanti nella costruzione della società." (Appunto riservato alla CEI, 20 maggio 1974). Nella stessa memoria si fornisce una ricostruzione, dal punto di vista della maggioranza delle ACLI, delle difficoltà nel movimento a recepire pienamente le indicazioni dei vescovi sul referendum: "Quando la notificazione dei vescovi fu pubblicata avvertimmo in noi stessi ed all'interno della nostra organizzazione, alcuni sintomi di disagio; ma per non aggravarli e per non dare ulteriore spazio a posizioni di contestazione radicale, del resto emergenti dovunque, decidemmo di non intervenire ulteriormente, adoperandoci anche per chiarire, specie verso i nostri giovani (e con decisioni assai discusse al nostro interno) il senso della nostra appartenenza ecclesiale e le responsabilità conseguenti, che escludevano comunque atteggiamenti di contestazione o di allineamento a posizioni di rigetto, nel metodo e nel merito, della legittimità e pertinenza della pronuncia della CEI. Questo nostro atteggiamento accrebbe le nostre difficoltà interne ma abbiamo compiuto uno sforzo, per quanto ci riguarda per essere con esso coerenti fino alla fine della prova. Il che non ha impedito, come è noto, episodi di dissenso, ma ha permesso, a tutti i livelli della organizzazione, lo sviluppo di un dibattito autonomo e sereno sui problemi e le prospettive della famiglia in Italia". La presidenza coglie anche l'occasione, quasi per inciso, per ribadire la validità del principio del pluralismo delle opzioni politiche dei cristiani così come definito nella Octogesima Adveniens, laddove si rimprovera il mondo cattolico e, implicitamente, i promotori del referendum di non aver tenuto adeguatamente conto del processo di graduale diffusione del pluralismo nelle comunità cristiane: "Del processo cioè di progressiva distinzione, nel contesto cattolico, tra adesione ai valori di fondo del messaggio cristiano e scelte tecnico-applicative nelle diverse situazioni storiche. E' un processo, questo, che ha trovato larga applicazione già prima del Concilio nell'imponente fenomeno del voto di credenti dislocato su posizioni politiche non raccomandate o sconsigliate o proibite dai vescovi; e che dopo il Concilio si è ulteriormente affermato con una larga legittimazione del pluralismo politico con il corollario di un rifiuto implicito od esplicito di una «politica cristiana» e di una esaltazione di una pratica cristiana della politica. La Octogesima Adveniens e le posizioni dell'episcopato francese hanno agevolato - pur tra molte contraddizioni e forzature di lettura - uno sviluppo in questa direzione". La relazione di Carboni al Consiglio nazionale delle ACLI, il 6 luglio 1974, è ancor più aperta rispetto al comunicato ufficiale della presidenza nel cogliere anche gli aspetti positivi dell'esito referendario, laddove afferma che dal punto di vista sociologico: "L'elettorato italiano, ivi compresi larghi strati popolari di estrazione cattolica, ha ormai assimilato in modo irreversibile certi «valori» che comunemente si fanno risalire alla cultura borghese: «valori» di autonomia individuale come prioritari rispetto ad esigenze comunitarie vere o presunte, ma anche valori di tolleranza e di comprensione (che non necessariamente sono sinonimi di permissivismo) nei confronti delle esigenze e dei bisogni del prossimo. Valori che, anche se con tensioni e ideali diversificati, si ispirano comunque a quei principi di libertà e di giustizia che hanno in passato permesso di realizzare le lotte e le conquiste della Resistenza. Questo ci sembra il significato della conferma della legge divorzista, intesa dalla maggioranza del popolo non solo come affermazione di un diritto di libertà, ma anche come un atto di concreta solidarietà nei confronti di coloro che per sfortunate evenienze hanno visto disgregata la propria comunità familiare." (VCN del 6-7 luglio 1974, in ASA, Serie Organi statutari, b. 8). Nonostante il presidente Carboni sia fortemente impegnato nel tentativo di riappacificare i rapporti con le autorità ecclesiastiche, non si può non cogliere la palese differenza di valutazioni col Pontefice, addolorato per le divisioni della comunità ecclesiale nella campagna referendaria e per le conseguenze negative dell'esito della consultazione elettorale dal punto di vista religioso e morale. La gestione unitaria e il congresso di Firenze Nel Consiglio nazionale del 6 luglio 1974, lo stesso nel quale si discute animatamente degli esiti del referendum sul divorzio, è manifestata da più voci l'esigenza di avviare un processo che porti alla gestione unitaria delle ACLI, ponendo fine ad un triennio di polemiche interne molto forti. Alla fine della riunione è approvato un ordine del giorno che auspica "un ampio confronto a tutti i livelli dell'organizzazione" (VCN del 6-7 luglio 1974) per cercare una ricomposizione unitaria. E' la prima volta che accade dalla formazione della presidenza Carboni (1972) e a prima vista sembra quasi un paradosso che la volontà di cercare una soluzione unitaria si manifesti proprio in seguito alla vicenda referendaria, che aveva registrato contrapposizioni interne particolarmente aspre. In realtà il processo di ricomposizione unitaria che si completa nel congresso di Firenze (aprile 1975) si fonda non tanto sul riavvicinamento delle posizioni politiche delle cinque componenti interne (alla maggioranza guidata da Carboni e Rosati, Autonomia e unità, alla destra di Pozzar e Castellani, Iniziativa di base, e alla sinistra di Brenna, Scelta di classe, si erano aggiunti dopo Cagliari il gruppo guidato da Gabaglio, Alternativa aclista, e quello prevalentemente milanese, Prospettive acliste, di Pietro Praderi) quanto sulla comune percezione che un movimento così frammentato non può sviluppare efficacemente la sua azione in un quadro caratterizzato da calo degli iscritti, presenza di un movimento alternativo (MCL) e difficoltà di rapporti con la DC e la gerarchia. Diventa prioritario, come ripete spesso Domenico Rosati, "salvare il contenitore", e per raggiungere tale obiettivo la conflittualità interna deve necessariamente cessare, o quantomeno esser ridotta significativamente. Per quanto concerne la consistenza numerica degli iscritti alle ACLI, va ricordato che dal massimo storico del 1961 (oltre 718 mila soci distribuiti in oltre 7500 circoli territoriali e nuclei aziendali) il calo più sensibile si era verificato tra il 1969 (627 mila soci) e il 1973 (col minimo storico di 367 mila iscritti) per poi risalire dal 1974 (417 mila iscritti, in oltre 4.600 strutture di base). Va tenuto presente che il calo degli iscritti è dovuto in minima parte alle iniziative scissionistiche, mentre in misura certamente maggiore è dovuto ad una tendenza più generale, post sessantottesca, che vede in calo continuo il numero di associati delle tradizionali organizzazioni cattoliche, a partire dalla stessa Azione Cattolica, molto spesso affiancato da una più intensa e sentita partecipazione attiva alla vita associativa da parte dei militanti più impegnati. Per quanto concerne il rapporto con la DC, esso andrà gradualmente migliorando in seguito alle dimissioni di Fanfani dalla segreteria e l'elezione di Benigno Zaccagnini (luglio 1975) e poi, in particolare con Moro e le componenti di sinistra del partito, si costituirà di fatto un asse sulla politica delle larghe convergenze, come si vedrà più avanti. Alla vigilia del congresso di Firenze, la Commissione per i problemi sociali della CEI, che coordina anche la pastorale del mondo del lavoro, presieduta da mons. Santo Quadri, nell'analizzare la situazione delle ACLI sottolinea la notevole eterogeneità di posizioni all'interno del movimento: "Oggi si ritrovano nel Movimento due tendenze opposte: la sinistra (capeggiata da Brenna e Gabaglio) vorrebbe spendere il movimento per un'esperienza culturale-politica (sulla falsariga dell'ACPol) con una forte accentuazione sulla sinistra ed un legame con alcune formazioni contestative (può contare su circa il 25-30 %) e la maggioranza […] che vuole realizzare un movimento sociale di lavoratori ispirato al cristianesimo." (Nota sulle ACLI, Allegato n. 6 al verbale del Consiglio permanente della CEI del 22-24 aprile 1975, Archivio CEI, Consiglio Permanente, b. 1975). Questa situazione genera confusione e rischi: "La confusione maggiore è provocata dalla cittadinanza ancora concessa nelle ACLI alla sinistra, che chiaramente afferma di dover militare nei partiti di sinistra (PSI, PCI, PSIUP, ecc.) e tra gli extraparlamentari." Il documento arriva ad auspicare scissioni o espulsioni: "E' ormai convinzione abbastanza comune tra gli appartenenti alla maggioranza che le ACLI non possono essere la «casa» di tutte le correnti oggi esistenti." Fino a formulare previsioni: "Alcuni pare usciranno dal movimento per appoggiare forze […] dell'estrema sinistra." Ben diverso è invece l'esito del XIII congresso nazionale delle ACLI, che si apre a Firenze il 10 aprile 1975 ed è molto seguito dalla stampa e dalle radio e televisioni: i giornalisti accreditati sono ben 70, inclusi quelli dei quotidiani della sinistra extraparlamentare (Lotta Continua, Quotidiano dei Lavoratori e Il Manifesto). Sono inoltre presenti 46 delegazioni italiane (partiti, sindacati e associazioni nazionali) e 16 estere, in gran parte delegazioni di sindacati europei e sudamericani d'ispirazione cristiana, oltre a quella del Comitato centrale dei sindacati sovietici, guidata da V. Protozorov. Oltre alla scelta della gestione unitaria, i temi di maggior rilievo sono il confronto, non sempre esplicito, sul compromesso storico proposto da Berlinguer alla fine del 1973, e la questione della presenza dei sacerdoti nelle ACLI. Tutte e tre le questioni sono, sia pure in modo alquanto diverso, foriere di ulteriori difficoltà nei rapporti con la gerarchia ecclesiastica. La gestione unitaria porta di nuovo le minoranza di Brenna e Gabaglio in condizioni d'influire sulle scelte delle ACLI, mentre mons. Giovanni Benelli e diversi vescovi della CEI, come si vedrà più precisamente in seguito, avrebbero desiderato una loro emarginazione, in quanto, anche simbolicamente, rappresentavano il gruppo dirigente deplorato da Paolo VI solo quattro anni prima e i fautori della scelta socialista. Infatti, seppure ufficiosamente, tramite il gruppo dei sacerdoti della Pastorale del lavoro, la Segreteria di Stato vaticana, e segnatamente mons. Benelli, giudica negativamente la prospettata gestione unitaria delle ACLI e "decisamente scoraggiava l'unità come sintomo di non chiarezza." La questione delle aperture al PCI e la disponibilità a ragionare sulle larghe intese inoltre preoccupa quella parte dei vescovi che temevano la definitiva rottura dell'unità politica dei cattolici dopo l'esperienza traumatica del referendum e in vista delle imminenti elezioni amministrative del 1975 col prospettato e paventato "sorpasso" del PCI sulla DC. Nelle quattro giornate di congresso, sia la relazione introduttiva di Carboni, sia i numerosi interventi lasciano trasparire una disponibilità a confrontarsi senza preclusioni preconcette; come ricorda Rosati: "L'assemblea mostra una grande vitalità e i discorsi sulle prospettive politiche si intrecciano con la ricerca di un modo per non sterilizzare l'energia che le ACLI possono ancora produrre." (D. Rosati, L'incudine e la croce, Sonda, Torino 1994, p. 231). Bruno Storti, segretario generale della CISL, applauditissimo, interviene per annunciare la firma dell'accordo sulla scala mobile con la Confindustria, allora guidata da Gianni Agnelli. Nonostante l'approvazione unitaria della mozione finale, le votazioni dei delegati per eleggere 80 consiglieri nazionali si svolgono, sulla base del regolamento congressuale, col sistema proporzionale con voto di lista e preferenze: la lista Carboni-Rosati ottiene il 48% dei voti e 34 seggi; le sinistre il 31% e 22 seggi; la destra di Pozzar e Castellani il 21% e 14 seggi. Considerato che agli ottanta consiglieri eletti in congresso vanno aggiunti quelli designati dalle regioni, complessivamente la componente guidata da Carboni e Rosati raggiunge complessivamente il 55% e quindi ciò garantirebbe la rielezione certa di Carboni alla presidenza, anche indipendentemente dall'accordo unitario tra tutte le componenti; confortato dalla volontà congressuale, Marino Carboni nella replica afferma commosso e soddisfatto: "sono entrato in questa sala come presidente di parte: oggi, lasciando Firenze, so di poter dire che le ACLI hanno dimostrato di volere un presidente di tutti." (Replica del presidente nazionale, in AO, 17 aprile 1975, pp. 2-10, alla p. 10). Mons. Fernando Charrier, presente al congresso con altri sacerdoti della Pastorale del lavoro, esprime immediatamente a Carboni il suo vivo disappunto alla gestione unitaria delle ACLI. (Colloquio di Domenico Rosati con l'autore, 14 aprile 2018, a Roma). Sulla questione della presenza dei sacerdoti nelle ACLI, va rilevato che nella relazione introduttiva del congresso, Carboni a nome della presidenza nazionale sottolinea con soddisfazione che, nonostante il ritiro del consenso nel 1971, e quindi l'eliminazione della figura istituzionale dell'assistente, la presenza e il ruolo propositivo dei sacerdoti nei momenti formativi non sia mai venuto meno. Carboni ricorda che "è stata garantita la presenza del sacerdote in ogni corso o seminario"; che nei corsi residenziali, oltre alla quotidiana celebrazione della messa, "si sono costruiti alcuni significativi momenti personali e comunitari di riflessione sulla Parola" e che si è cercato che si realizzasse nei corsi "un dialogo fraterno anche riguardo alle tensioni e alle problematiche religiose personali o di gruppo presenti in chi è intensamente impegnato nel sociale e rese più acute dall'impatto quotidiano con i conflitti sociali." (Relazione organica della presidenza nazionale al XIII congresso nazionale, ACLI, Roma 1975, p. 57). Sempre sul tema del rapporto con la Chiesa, il documento delle componenti di sinistra delle ACLI per il congresso, dopo aver sottolineato l'importanza della esplicita conferma delle scelta anticapitalista e di classe, auspica "la sperimentazione di [...un] nuovo rapporto tra fede e impegno politico, la continua ricerca di coerenza nell'esser ad un tempo militanti del movimento operaio e membri della comunità ecclesiale." (AO, 18 aprile 1975, pp. 4-5). La mozione finale, approvata unanimemente, sul tema dei rapporti con la Chiesa conferma sia le conclusioni di Cagliari, sia il documento del Consiglio nazionale del febbraio 1973 (che però, come si è visto all'inizio di questo capitolo, era stato approvato col voto contrario dei gruppi di Brenna e Gabaglio) e pertanto: "Ciò esclude che le ACLI possano considerarsi come strumento diretto di evangelizzazione o come supporto organico dell'azione pastorale della Chiesa e riconferma sia la piena responsabilità del movimento nelle proprie opinabili scelte che il rifiuto di ogni strumentalizzazione politica del magistero della Chiesa. In questo spirito le ACLI confermano la propria disponibilità per l'instaurazione di forme e modalità nuove per la presenza dei sacerdoti, richiesta all'Episcopato e positivamente avviata negli ultimi anni nel collegamento con la Pastorale del lavoro." (AO, 17 aprile 1975). Il tentativo del gruppo dirigente delle ACLI di percorrere lo stretto sentiero consistente nel mantener fede alle scelte di Torino e Cagliari e nello stesso tempo prendere le distanze dalle posizioni radicali del dissenso cattolico, particolarmente vivo in quegli anni, trova piena espressione nella mozione finale del congresso, che proclama: "Il rifiuto di ogni atteggiamento integrista e immobilista, come pure di sterile contestazione, così come il superamento di ogni tentazione di «controchiesa», nel presupposto che non di una «chiesa di classe» c'è bisogno, ma di una comunità cristiana che comprenda a fondo le condizioni che motivano la lotta delle classi e quindi anche i problemi che ne derivano per la coscienza cristiana. L'esperienza delle ACLI, come un'espressione cristiana nel movimento operaio, rappresenta - senza trionfalismi, ma senza sottovalutazioni - un tramite per favorire tale presa di coscienza e per mantenere - anche senza mandati o consensi o presunte diplomazie, ma con reale autenticità - un collegamento aperto tra il Vangelo della giustizia e le lotte contro le ingiustizie dell'attuale società che il movimento operaio porta avanti e guida." La lunghissima mozione approvata dal congresso di Firenze, articolata in ben 92 capitoli, contiene un breve ma significativo paragrafo sul compromesso storico: "Le ACLI ritengono altresì che la strategia del «compromesso storico» avanzata dal PCI, per quanto attualmente inagibile [Fanfani era ancora segretario della DC], non possa essere lasciata strumentalmente cadere o superficialmente accettata senza dibattito. Occorre viceversa approfondire i contenuti in una verifica concreta, a partire dalla quale porre correttamente anche i temi di riflessione culturale e politica connessi a questa prospettiva, la cui validità dovrà necessariamente essere verificata nella realtà viva del Paese, superando ogni tentazione verticista o di tipo immobilista. Lo stesso PCI è chiamato ad esplicitare il proprio atteggiamento, specie in ordine al modo di accostarsi al potere, di concepirlo e di gestirlo in un contesto autenticamente democratico." Intervenendo nel dibattito su questo tema, Domenico Rosati, vicepresidente uscente e presidente del congresso, aveva affermato con forza: "E' necessario che qualcuno raccolga la sfida che il PCI lancia ai cattolici democratici." Nonostante la destra interna del sen. Pozzar cerchi di frenare, affermando nella propria mozione congressuale che nei confronti del PCI "rimane […] una diffidenza di fondo, del tutto giustificata, per il suo atteggiamento di fronte ai valori essenziali della libertà e del pluralismo", la stampa e l'opinione pubblica recepiscono la significativa apertura al confronto delle ACLI, al punto che Il Corriere della Sera titola come sintesi Tutte le componenti delle ACLI favorevoli al compromesso storico, osservando come tale orientamento "differenzia sul piano politico contingente le ACLI da tutti gli altri movimenti cattolici organizzati, cristiani per il socialismo e gruppi di base a parte." (F. De Santis, Tutte le componenti delle ACLI favorevoli al compromesso storico, in «Il Corriere della Sera», 12 aprile 1975). Intuendo il disappunto che tale apertura può provocare in ampi settori della DC e dell'episcopato, il presidente Carboni, nella replica finale del congresso, sente il dovere di precisare che le ACLI confermano la volontà di "non spendersi sull'altare di nessuna formula", espressione non a caso riportata da molti quotidiani. (F. De Santis, Hanno trovato un accordo tutte le correnti delle ACLI, in «Il Corriere della Sera», 14 aprile 1975; L. Dell'Aglio, L'unità si fa con la coerenza, in «Il Popolo», 15 aprile 1975). L'evidente disponibilità delle ACLI a confrontarsi con la prospettiva delle larghe intese non nasce da un atteggiamento opportunista (il previsto successo del PCI nelle imminenti elezioni amministrative rendeva il maggior partito della sinistra un interlocutore sempre più autorevole, nonostante le preoccupazioni della gerarchia e di larghi settori della DC), ma è la conseguenza di un processo di revisione ideologica iniziato un anno e mezzo prima, col XX convegno nazionale di studio, a Rimini, dal 10 al 14 ottobre 1973, sul tema Le classi sociali in Italia: per una proposta del movimento operaio. Il convegno è introdotto e profondamente orientato da una articolata e innovativa relazione di Domenico Rosati, (D. Rosati, Relazione introduttiva al XX convegno nazionale di studio, in QAS, 1973, pp. 463-562) che era stata preventivamente sottoposta ad autorevoli studiosi come Paolo Sylos Labini, Achille Ardigò, Ermanno Gorrieri e padre Bartolomeo Sorge, che poi interverranno al convegno. L'elemento più rilevante politicamente consiste nel riconoscimento, esplicito e documentato dal punto di vista economico e sociologico, della presenza, della tendenziale espansione e della rilevanza dei ceti medi in Italia (impiegati, coltivatori diretti, artigiani, commercianti, esercenti, ecc.) con la conseguenza di costringere a rivedere il principale schema interpretativo per l'analisi della società, tratto dal marxismo, secondo il quale la lotta di classe si svolge tra il movimento operaio e grande borghesia, con il progressivo ridimensionamento, fino ad una sostanziale irrilevanza sociale e politica dei gruppi sociali intermedi. Per Rosati la classe operaia e più in generale i lavoratori dipendenti mantengono e rafforzano la tendenza al cambiamento strutturale e politico in una prospettiva caratterizzata da un'aspirazione all'egualitarismo, ma non possono più trascurare o sminuire il ruolo dei ceti medi che, abbandonati a sé stessi e talvolta danneggiati dalla ristrutturazione capitalistica, possono costituire la base popolare del moderatismo e delle "avventure reazionarie". Non poteva sfuggire alla stampa nazionale e all'opinione pubblica la innegabile analogia con le motivazioni che il segretario del PCI Berlinguer aveva addotto, in seguito al golpe cileno, per lanciare la strategia del compromesso storico e per affermare che andava superato il pregiudizio sulla DC come partito che difendeva solo gli interessi del grande capitale e delle forze conservatrici, poiché essa raccoglieva invece il consenso di consistenti settori "di strati popolari, di contadini, di giovani, di donne e anche di operai." Partendo da quest'analisi della società, Rosati proponeva che le ACLI sostenessero una "linea egualitaria delle riforme" come realistica prospettiva per il movimento operaio italiano, capace di superare ideologiche contrapposizioni aprioristiche con i ceti medi borghesi e di trasformare le condizioni di vita, la cultura e il potere nella società italiana nella direzione della riduzione delle disuguaglianze e di creare "un larghissimo consenso democratico sugli obiettivi di riforma". Con la mozione finale, il Congresso di Firenze faceva propria questa impostazione, unanimemente, nel momento in cui auspicava di non lasciar cadere la prospettiva del compromesso storico. L'11 maggio 1975 il Consiglio nazionale delle ACLI rielegge presidente Marino Carboni. Vice presidente unico è Domenico Rosati. Nella presidenza nazionale unitaria per le sinistre entrano Michele Giacomantonio, vicino a Brenna, e Pietro Praderi. Lo stesso Consiglio nazionale istituisce una commissione politica (Carboni, Borroni, Brenna, Castellani, Gabaglio, Pozzar, Praderi e Rosati), che sarà, "senza pregiudizio per le prerogative degli organi statutari, consultata sulle questioni di maggior rilievo della vita delle ACLI", (VCN del 11 maggio 1975, in ASA, Serie organi statutari, b. 8) e che, con la presenza di tutti i leader, intende garantire continuità ed efficacia alla gestione unitaria. Nonostante l'esito del congresso non sia conferme alle previsioni, e forse ai desideri di mons. Quadri, la CEI assume un atteggiamento interlocutorio. Mons. Bartoletti dichiara in assemblea: "Circa l'attuale orientamento delle ACLI, pur riconoscendo alcuni miglioramenti avvenuti, si ritiene prematuro un giudizio di valutazione" (Verbale dell'Assemblea generale della CEI del 1975, lavori del 5 giugno 1975, in Atti della XII Assemblea generale, CEI, Roma 1975, p. 225) e propone di dar mandato alla presidenza, con la commissione per i problemi sociali, di esaminare ulteriormente la questione. Nel corso dello stesso intervento, mons. Enrico Bartoletti comunica che il Consiglio Permanente del 22-24 aprile 1975 non ha ritenuto opportuno, come per le ACLI, "concedere ufficialmente al MCL sacerdoti con la qualifica di assistenti consulenti." (La decisione non era stata citata nel Comunicato ufficiale del Consiglio Permanente, in NC, 1975, pp. 84-86). Due lettere di Carboni a Paolo VI L'11 marzo 1975, in occasione del trentesimo anniversario delle ACLI e poco prima del Congresso di Firenze, il presidente nazionale Marino Carboni invia una lunga lettera a Paolo VI, scritta con la collaborazione di Domenico Rosati (nell'archivio privato del dott. Rosati a Vetralla è conservata la prima stesura manoscritta della lettera, in 11 fogli di colore azzurro, la cui scrittura è dello stesso Rosati. Salvo alcune variazioni nell'introduzione, il testo del manoscritto è quasi del tutto uguale a quello inviato al S. Padre). Carboni si propone di sollecitare l'attenzione del Pontefice sul ruolo e le potenzialità dell'associazione, oltre che per manifestare riconoscenza "per quanto all'opera della Santità vostra si collega alla storia delle ACLI dalle origini ad oggi." Nella premessa, Carboni parte da una constatazione: "Malgrado la gravissima crisi attraversata negli anni passati e culminata nelle travagliate vicende del 1971-72, le ACLI sono e rimangono un importante punto di riferimento e di orientamento per alcune centinaia di migliaia di lavoratori cristiani e, più in generale, per l'intero mondo del lavoro e per l'opinione pubblica; [...inoltre] negli ultimi tempi la loro presenza registra sintomi di incoraggiante ripresa." (Lettera di Marino Carboni a Paolo VI del 11 marzo 1975). Sempre nella premessa Carboni afferma di voler evitare un atteggiamento di semplice "e a quel punto strumentale" richiesta di benevolenza, ponendo invece un quesito diretto ed esplicito: "che cosa la Chiesa si può attendere dalle ACLI di oggi?" Il ritiro del consenso da parte dei vescovi nel 1971 e la storia della presenza sociale del movimento aclista portano il presidente nazionale ad escludere esplicitamente "che le ACLI possano assolvere una funzione di evangelizzazione propria od essere classificate come uno strumento operativo diretto della pastorale della Chiesa nel mondo del lavoro." Con la "stessa franchezza" Carboni afferma: "Le ACLI, nella loro dimensione sociale non intendono rinunciare al proprio fondamento cristiano, che assumono come base della propria ispirazione e quindi della propria stessa ragion d'essere. In questo senso è fuor di dubbio che le ACLI - oserei dire malgrado tutto - intendono continuare a rappresentare una esperienza cristiana nel mondo del lavoro e nella società italiana." Carboni individua con chiarezza e abbondanza di riferimenti quattro ambiti nei quali si è caratterizzata la riflessione autocritica compiuta dal movimento durante la sua presidenza: il modo di intendere la comunità ecclesiale, la revisione dell'ipotesi socialista di Vallombrosa, la visione politica e sindacale, la priorità della dimensione educativa. Sul primo punto la dissociazione dalle posizioni di dissenso ecclesiale più radicale, come quelle di alcune comunità di base o di larga parte dei cristiani per il socialismo, è nettissima: "Se c'era una tendenza a trasformare le ACLI in una sorta di gruppo spontaneo, questa tentazione è stata respinta o marginalizzata; la Chiesa in cui gli aclisti credono non è una chiesa di comodo, senza … i vescovi, ma l'unica Chiesa di Cristo, nella sua organicità e completezza." Per quanto concerne l'ipotesi socialista di Vallombrosa, che ha costituito un fattore determinante nel processo che ha condotto al ritiro del consenso dei vescovi, il presidente ritiene che la riflessione avviata nei convegni di studio nazionali dal 1972 al 1974 abbia permesso "di superare talune formulazioni schematiche del periodo precedente («scelta» socialista, eccetera) non solo in termini di aggiornamento verbale", così come ritiene di prendere le distanze dall'utilizzo del marxismo anche solo come metodo d'analisi sociale, in più occasioni criticato dal Pontefice: "Se l'esperienza e la storia ci dicono […] che non ci si può sottrarre ad un criterio di analisi economica e quindi non si può trascurare […] una lettura critica del marxismo, abbiamo d'altra parte concluso che un'assunzione pura e semplice di un criterio economicistico di giudizio - oltre ad essere in contrasto con la peculiare visione dell'uomo propria del cristianesimo - non fornisce neppure un'immagine completa della realtà, sottovalutando i dati della cultura, della psicologia,della tradizione, della politica che hanno talora un peso determinante." Per quanto riguarda la visione politica generale, Carboni conferma, senza citarla esplicitamente, la scelta anticapitalistica di Torino e il valore dell'unità sindacale, ma esclude che il superamento del capitalismo possa essere il socialismo: "Non possiamo passare sotto silenzio le gravi ingiustizie di fondo su cui si basa un congegno economico che condanna alla fame ed all'insicurezza centinaia di milioni di uomini […] non riteniamo però che esistano soluzioni unilaterali od esclusive: uno sforzo di riflessione e di sintesi va quindi compiuto con il concorso di tutte le forze rappresentative di interessi popolari […] nella piena valorizzazione del metodo democratico a tutti i livelli." Per quanto riguarda infine la consapevolezza della centralità della funzione educativa e formativa del movimento, Carboni ritiene che durante l'esperienza gli ultimi anni essa si sia rafforzata, al punto da subordinare ad essa le prospettive di azione sociale e da escludere "ormai nettamente che le ACLI possano ambire a trasformarsi in un partito o a fungere da supporto ad un qualsiasi partito: la stessa pluralità delle milizie politiche degli aclisti, se crea problemi per qualche aspetto, garantisce su questo punto". Nella parte finale della lettera, Carboni allude implicitamente ad un aspetto che aveva contrariato non poco Paolo VI, ovvero la posizione non del tutto schierata delle ACLI nel fronte abrogazionista della legge sul divorzio nella campagna referendaria dell'anno precedente, e soprattutto la consistente minoranza di aclisti che si erano schierati apertamente per il no, come si è visto sopra. Questo implicito riferimento è inserito in una complessiva deplorazione delle eccessive divisioni interne, che si cercava di andare a sanare proprio col Congresso di Firenze: "Lo stato del dibattito interno ha presentato fenomeni di grave divaricazione e tensione, specie in corrispondenza di episodi che hanno peraltro coinvolto l'intera comunità cristiana del nostro Paese." Carboni conclude la sua lettera al Papa affermando che alla descrizione dello stato del movimento aclista "non segue alcuna richiesta, né potrebbe essere altrimenti" in quanto la sua iniziativa si propone solo di mettere in grado la comunità cristiana di valutare "se e quanto, nella conformazione attualmente esistente ed in via di consolidamento, le ACLI possano costituire per essa motivo di attenzione e spazio di interesse." A tale lettera Paolo VI non risponderà. Tuttavia una risposta indiretta e informale si ha con una lettera privata di mons. Fernando Charrier, a nome del gruppo di sacerdoti della Pastorale del lavoro, che ritiene inopportuno e sbagliato il tentativo di rivolgersi direttamente al Pontefice, scavalcando la CEI e la Segreteria di Stato. Charrier, senza mezzi termini, scrive che la lettera di Carboni "rischia di rovinare tutto." (L'originale della lettera non risulta allo stato reperibile nell'archivio privato, non organicamente catalogato, del dott. Domenico Rosati a Vetralla. Non è nemmeno conservata nell'archivio delle ACLI, trattandosi di lettera privata, è però riportata nella Grande Enciclopedia della Politica, Ebe, Roma 1992-1995, p. 715; la stessa enciclopedia riporta anche il testo integrale delle due lettere di Carboni a Paolo VI). La sera del 24 marzo 1975, durante un incontro con Carboni e Rosati, mons. Santo Quadri comunica che i sacerdoti della pastorale del lavoro parteciperanno al congresso di Firenze a condizione che vi sia l'impegno a confermare in sede congressuale gli orientamenti già deliberati nel consiglio nazionale del febbraio 1973, che come si è visto saranno unanimemente approvati al congresso. Dopo la conclusione unitaria del Congresso di Firenze, il 12 maggio 1975, Carboni scrive una seconda lettera a Paolo VI, che intende essere un completamento ed un aggiornamento della precedente, poiché è centrata sull'interpretazione delle decisioni congressuali sul tema dei rapporti con la Chiesa: "Le posizioni espresse nella mia relazione (specie il passaggio che escludeva ogni atteggiamento di «controchiesa» e ribadiva l'adesione delle ACLI alla «chiesa con i vescovi») sono state vivamente applaudite. Nel dibattito non sono emerse punte di contestazione, neppure da parte degli esponenti più radicalizzati. Complessivamente ne è uscita convalidata la posizione della maggioranza che riproponeva il rapporto con la gerarchia basato sui noti documenti votati all'unanimità dal precedente congresso [di Cagliari] e poi applicati dal Consiglio nazionale del febbraio 1973 (allora non senza vivaci contrasti). Non si può escludere che l'atteggiamento delle «sinistre» sia stato dettato da ragioni di tattica congressuale: dall'esigenza cioè di non «rompere» su un tema così importante. Bisogna però aggiungere che la maggioranza è stata assai ferma su questo punto fini a dichiarare che se non fossero state accettate le sue posizioni sarebbe stata impossibile ogni intesa successiva." (Lettera di Marino Carboni a Paolo VI del 12 maggio 1975). La fase preparatoria del convegno su evangelizzazione e promozione umana Tra il 12 e il 15 febbraio 1974, promosso dal Vicariato di Roma, si svolge il convegno La responsabilità dei cristiani di fronti alle attese di carità e giustizia nella diocesi di Roma, più noto come convegno sui mali di Roma, che segna una svolta significativa nella linea pastorale della Chiesa italiana e che dà inizio ad una fase di riflessione partecipata che porterà al convegno nazionale della CEI su evangelizzazione e promozione umana (novembre 1976). Il convegno sui mali di Roma, a cui partecipano, tramite iscrizione, quasi 4 mila persone (tra cui 550 sacerdoti e 582 studenti universitari) («Il Giorno», 8 febbraio 1974) e a cui pervengono nella fase preparatoria 320 contributi scritti, si conclude con una breve relazione di sintesi di Luciano Tavazza, ex dirigente delle ACLI, esponente di spicco delle organizzazioni di volontariato, che insiste sulla necessità di attuare profondi cambiamenti sociali e che già nel linguaggio appare profondamente innovativa nelle indicazioni pastorali. Ad esempio afferma senza mezzi termini che il "sistema basato sul profitto individuale" riceve "appoggio comodo e richiesto da chi, sotto ipocrite pretese di salvare i valori della già tradita «civiltà cristiana», vuole in realtà difendere le sue posizioni di privilegio e sovvertire, a vantaggio dei potenti, il quadro democratico come via maestra per ribadire l'oppressione dei poveri." (AO, 18 febbraio 1974, p. 5). In effetti i mali di Roma e in particolare delle periferie, erano macroscopici, a partire dalla povertà, dal disagio sociale, dalla dispersione scolastica: la città aveva un tasso di mortalità infantile come il Marocco (il 26 per 1000). Il Vicario, cardinal Ugo Poletti, aveva maturato la convinzione che fosse una città malata e riteneva necessario identificarne i mali ed agire. Era convinto che la situazione fosse inaccettabile, e che gli uomini avessero la possibilità e la vocazione di trasformarla. Erano idee che spiazzavano il dissenso ecclesiale, che contestava l'istituzione ecclesiastica, i suoi legami con la DC, gli interessi immobiliari (specie dei religiosi), il conservatorismo. La Chiesa prendeva atto che Roma era una città povera e conflittuale. Per questo Poletti promuove il convegno e lo conclude prendendo la parola nell'ultima giornata dei lavori. (U. Poletti, Discorso conclusivo del cardinale vicario, 15 febbraio 1974, in La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e di giustizia nella diocesi di Roma. Incontro diocesano promosso dal Vicariato di Roma. S. Giovanni in Laterano, 12-15 febbraio 1974, a cura dell'Ufficio pastorale del Vicariato di Roma, Roma 1974). Al convegno interviene per le ACLI Ferdinando Castellani, presidente provinciale di Roma, e si tratta della prima occasione ufficiale, dopo la deplorazione del 1971, che le ACLI partecipano attivamente e ufficialmente ad un'iniziativa pastorale della Chiesa di così ampio rilievo. Castellani afferma: "Come militanti di un'organizzazione che, con fierezza cristiana e senza rinunce di coerenza al Messaggio, sente come propria la grande battaglia storica di liberazione umana del movimento operaio e, a suo modo, la combatte, diciamo ai fratelli e ai Pastori della comunità ecclesiale di Roma che mettiamo a disposizione questa nostra esperienza […] in spirito di servizio […] Gli aclisti di Roma sono pronti ad una cooperazione coordinata con le altre componenti della comunità ecclesiale […] esprimendo a modo loro le esigenze concrete della fede cristiana in una trasformazione giusta, e quindi necessaria , della società." (AO, 18 febbraio 1974). Alla vigilia del convegno, Castellani aveva definito l'iniziativa "provvidenziale e lungimirante." A suo giudizio la Chiesa "prende coscienza della realtà sociale della città [e] richiama tutti e ciascuno ai doveri assunti, stimola ad i operare." (AO, 14 febbraio 1974). Sull'onda del convegno romano, qualche mese dopo (luglio 1974) si costituisce il comitato promotore per il convegno nazionale Evangelizzazione e promozione umana, presieduto da mons. Enrico Bartoletti, segretario della CEI dal 1972 e arcivescovo emerito di Lucca, che designa come vicepresidenti Giuseppe Lazzati, rettore della Cattolica, e padre Bartolomeo Sorge. Nel comitato vi sono altri intellettuali prestigiosi come Vittorio Bachelet e Pietro Scoppola. Intervenendo a nome della CEI nell'assemblea generale del Sinodo dei vescovi sull'evangelizzazione nel mondo contemporaneo (settembre-ottobre 1974), anche tenendo conto delle indicazioni del convegno romano, mons. Bartoletti afferma: "Gli organismi di comunione e di partecipazione debbono essere rianimati e promossi; l'apostolato e i ministeri dei laici necessitano di ampliamento, diffusione e coordinamento; l'evangelizzazione dei giovani e degli operai deve essere assiduamente curata e portata avanti con metodi nuovi; la collaborazione con le nuove Chiese e l'opera di promozione e di liberazione umana vanno ulteriormente sviluppate: questi problemi riguardano e toccano la Chiesa in Italia non meno che in quasi tutti i paesi del mondo." (NC, 1975, n. 3, p. 38). Nei suoi ultimi due anni di vita (morirà il 5 marzo 1976) mons. Bartoletti si impegna senza sosta per preparare il convegno nazionale, secondo le indicazioni dello stesso Pontefice, con l'intento di far pienamente penetrare nella Chiesa italiana gli orientamenti conciliari. Preziosa è la testimonianza di padre Bartolomeo Sorge su mons. Bartoletti: "Una volta lo stesso Bartoletti mi raccontò come il Papa avesse dei dubbi di fronte alla proposta di far partecipare al convegno Evangelizzazione e promozione umana alcuni delegati delle ACLI e dei cattolici per il no [al referendum], ovvero la voce della contestazione ecclesiale. Secondo Paolo VI quelli erano movimenti che non avevano seguito la gerarchia e che nonostante ciò si sarebbero ritrovati dentro un convegno della Chiesa. Bartoletti rispose. «Santità, se noi non ricuciamo il dialogo con tutti questi fratelli che sono nella Chiesa nonostante la rivoluzione che c'è stata, allora è meglio non fare Evangelizzazione e promozione umana». Il Papa rispose: «Mi fido, andate avanti» e volle essere lui stesso a dire la Messa per i partecipanti sulla tomba di San Pietro. Fu una grande riappacificazione ma soprattutto fu il grande momento della profezia." (B. Sorge, Intervento alla tavola rotonda Paolo VI e la crisi delle ACLI nel 1971, 31 agosto 2001, in A. Scarpitti, Le ACLI e la Chiesa, Aesse, Roma 2002, p. 37). In effetti la decisione d'includere nel comitato promotore del convegno anche i cosiddetti cattolici dissidenti provoca malumori e contrarietà anche tra gli intellettuali cattolici più conservatori o più tradizionalisti presenti all'interno del comitato stesso. In questo senso l'esempio più significativo è quello del prof. Sergio Cotta, insigne filosofo del diritto e docente alla Sapienza, che non solo protesta, ma si dimette anche dal comitato, dopo le prime due riunioni, ritenendo che mettere insieme nel comitato organizzatore del convegno ecclesiale esponenti del comitato promotore per il referendum di abolizione del divorzio e cattolici che avevano preso posizione opposta fosse quantomeno improprio, non essendoci stato un necessario precedente chiarimento delle reciproche posizioni e, soprattutto, una riflessione generale sul rapporto tra cristianesimo e mondo profondamente secolarizzato. («Il Regno - Attualità», 1976, n. 20, p. 467). L'episodio mi è stato confermato dalla figlia prof. Gabriella Cotta il 20 aprile 2018, dal dott. Domenico Rosati il 14 aprile 2018 e da mons. Guido Mazzotta, relatore della causa di beatificazione di Paolo VI, il 30 aprile 2018; Rosati e Mazzotta erano presenti alla riunione nella quale il prof. Cotta ha motivato le sue dimissioni. L'anno precedente il prof. Cotta, assieme ad Augusto Del Noce e Gabrio Lombardi ed altri intellettuali, aveva scritto al Papa, lamentando "lo smarrimento e le divisioni" del mondo cattolico, dovute agli equivoci "sul cosiddetto aggiornamento, sul dialogo, sul pluralismo" e sull'"equivoca libertà di coscienza", chiedendo a Paolo VI "esplicita ed univoca enunciazione e interpretazione dei principi dottrinali, degli autentici insegnamenti conciliari" per evitare "un pluralismo falso ed eccessivo". («Il Regno - Documenti», 1975, n. 1, p. 21). Il 17 aprile 1975 è definitivo il documento base per il convegno, firmato da mons. Bartoletti. (NC, 1975, pp. 92-105). Per la Chiesa italiana si compie una svolta storica: "La prospettiva era ormai coerentemente rinnovatrice, senza le precedenti contraddizioni: finalmente sembrava guadagnata l'unità di fondo, in senso conciliare, della Chiesa italiana, superando le posizioni conservatrici e tradizionaliste. Era ciò a cui Paolo VI aveva mirato fin dal 1963." (F. De Giorgi, Paolo VI, cit., p. 660). Il documento si chiude con un appello alle chiese locali affinché fossero vigilanti nel discernimento comunitario e attive e propositive nell'impegno sociale, in particolare dei laici: "Tutta la Chiesa […] è coinvolta, pur in modi diversi, nell'impegno della promozione umana. Questo impegno deve essere ulteriormente portato avanti, in modo tale che tutte le Chiese particolari e le comunità cristiane prendano coscienza delle situazioni di miseria, di ignoranza, di oppressione e di ingiustizia sociale, se ne assumano le proprie responsabilità e si impegnino a risolverle nello spirito del Vangelo. […] Tutti si rendono conto come particolarmente per la Chiesa del nostro tempo sia di estrema importanza l'educazione e la formazione permanente dei laici, nella fede, nella preghiera e nella carità, affinché sappiano esercitare la loro specifica missione evangelizzatrice." (NC, 1975, p. 104). In particolare il documento, con ampi riferimenti alla Octogesima adveniens e ai Sinodi del 1971 e del 1974, sottolinea insistentemente la connessione inscindibile tra evangelizzazione e promozione umana, tentando di superare ogni tentazione intimistica e individualistica nella vita di fede: "La Chiesa si immerge nella storia, senza tuttavia lasciarsene imprigionare. La dimensione incarnazionistica e immanente e quella escatologica e trascendente; la dimensione personale e comunitaria, storica e metastorica sono due aspetti costanti dell'unico volto della Chiesa. Se l'una prevale su l'altra, o l'una è esaltata e l'altra sottaciuta, la stessa missione della Chiesa ne risulta impoverita." (ivi, p. 100) Sono ribaditi il pluralismo delle scelte politiche e l'attenzione ai segni dei tempi nella società, temi particolarmente cari agli aclisti: "Il passaggio dalla fede alla prassi implica sempre una mediazione storico-culturale. Non è infatti possibile indicare, una volta per sempre, con quali mezzi e in quali modi intervenire nel concreto delle situazioni storiche. Per definizione esse sono mobilissime; variano da luogo a luogo; si differenziano persino secondo i diversi ambienti culturali e sociali. Se è vero che i cristiani non derivano i principi ispiratori dall'analisi delle situazioni storiche, è non meno vero che non possono, in alcun modo, ignorarle, se vogliono che la loro azione sia concreta e le loro scelte illuminate. E' in tal modo che i cristiani inseriscono nel vivo del processo storico il fermento lievitante del Vangelo. Nasce di qui la doverosa attenzione al momento storico, ai fenomeni che lo caratterizzano, ai segni che lo rivelano; nasce di qui anche la possibile pluralità delle scelte e dei metodi. La parola di Dio annunziata, applicata e presentata dalla Chiesa, possiede infatti una carica così forte da animare non un solo disegno terreno, ma una molteplicità di progetti, che mai tuttavia riescono ad esaurire la sua forza divina e trascendente." (ivi, p. 102) Domenico Rosati, in qualità di vice presidente nazionale delle ACLI, partecipa attivamente al comitato promotore e a tutte le fasi del convegno su evangelizzazione e promozione umana. Riveste anche l'importante ruolo di presidente della commissione sul lavoro. Dalle colonne di Azione Sociale, in più occasioni, lascia trasparire tutta la sua soddisfazione e la sua piena condivisione dell'impostazione del convegno. Non manca nemmeno di sottolineare l'importanza della partecipazione di esponenti del no al referendum. Apprezza anche lo spirito autenticamente pluralista: "sembra […] che l'obiettivo non fosse quello di far apparire un'omogeneità fittizia, ma di registrare le articolazioni per una verifica ecclesiale concreta." (D. Rosati, Un atto di coraggio, in AS, 21 marzo 1976, p. 8). Sottolinea come il documento base sia stato approvato all'unanimità dal comitato presieduto da mons. Bartoletti e ritiene che ciò sia stato facilitato "dalla comune assunzione della piattaforma teologico-pastorale del Concilio come base di partenza e di convergenza." Infine sottolinea il contributo delle ACLI, che hanno scelto "l'approfondimento del rapporto tra fede e politica come terreno specifico d'impegno. E le molte iniziative già realizzate hanno dimostrato che esiste una profonda sensibilità su questo tema […] anche profondamente ecclesiale." Anche per Rosati il documento costituisce una pietra miliare nell'evoluzione del mondo cattolico italiano: "Rispetto all'elaborazione fino a quel momento compiuta per vie parallele dopo il Concilio all'interno di differenti soggetti (le ACLI, l'Azione Cattolica, lo scoutismo, l'Università Cattolica) si raggiungeva un punto di sintesi. La condizione del pluralismo era considerata come fisiologica dal punto di vista storico ed era assunta come luogo normale del confronto e della crescita intraecclesiale." (D. Rosati, Il laico esperimento, EDUP, Roma 2006, p. 67). Intervenendo a Bergamo al convegno delle ACLI lombarde su Ispirazione cristiana, cultura cattolica e azione politica (novembre 1975), mons. Clemente Riva, vescovo ausiliare di Roma, sviluppa in profondità i temi del documento base, insiste sul nesso inscindibile tra evangelizzazione e promozione umana e apre ad un autentico e sincero confronto tra le diverse visioni presenti nel mondo cattolico. Sottolinea che "il cristianesimo può ispirare ed animare una molteplicità di modelli umani, familiari e sociali, politici ed economici, e può non escludere molti altri che nella realtà storica gli venissero presentati da sistemi e programmi politici diversi, purché non siano in contrasto con gli insegnamenti essenziali di Cristo e con la vera libertà umana." (C. Riva, I cristiani e la costruzione di una società nuova, in Cultura cattolica ed egemonia operaia, Atti del convegno delle ACLI lombarde, Bergamo 14-16 novembre 1975, Coines, Roma 1976, pp. 45-71, alla p. 63). Per Clemente Riva l'assunzione autentica della finalità della promozione umana sollecita una revisione dello stesso concetto di azione politica: "Un'altra implicazione della promozione umana è il dovere del rischio nella vita e nella ricerca di soluzioni e di elaborazioni di progetti e di programmi di cui nessuno ha idee innate, né a priori, né rivelate. E qui vi è tutto il tormento e la sofferenza del politico intelligente e onesto, del politico e dell'amministratore che hanno una sensibilità agli avvenimenti, agli eventi storici, alla realtà sociale del proprio Paese." Dal punto di vista dei rapporti tra le ACLI e l'autorità ecclesiastica, la fase preparatoria del convegno nazionale su evangelizzazione e promozione umana segna una svolta significativa; ricorda ancora Rosati: "Era stata apprezzata da molti vescovi la mia duttilità nell'elaborazione dei testi preparatori e nella predisposizione delle iniziative di avvicinamento all'evento. Ma soprattutto si era aperto un secondo canale diretto, anche se informale, di comunicazioni tra ACLI ed episcopato italiano. Nel comitato avevo modo di incontrare periodicamente il cardinale presidente Antonio Poma, il segretario mons. Enrico Bartoletti (deceduto in quel periodo e sostituito da mons. Luigi Maverna) oltre a mons. Gaetano Bonicelli che era stato Assistente ACLI ed era allora segretario aggiunto dell CEI; ed avevo familiarità di rapporti con vescovi di prima schiera e con il top del laicato cattolico organizzato. Venne ad attivarsi così un circuito di informazione e di scambio che eliminava il monopolio della relazione tra ACLI ed episcopato, detenuto dal 1971 in poi dall'apposito ufficio della CEI per la Pastorale del lavoro." (D. Rosati, Il laico esperimento, cit., p. 56). Anche nei loro orientamenti ufficiali le ACLI sono molto interessate al confronto che si sviluppa nella Chiesa italiana su evangelizzazione e promozione umana. Nel già citato convegno di Bergamo del novembre 1975, Giovanni Bianchi, presidente delle ACLI lombarde, auspica un cambiamento di prospettiva non solo per le ACLI, ma anche per tutte le forze e associazioni popolari, democratiche e progressiste del mondo cattolico: "Il problema centrale che si pone oggi a questo insieme di forze consiste nella necessità di passare da una fase di distinzioni ed autoidentificazioni in negativo, che lo ha caratterizzato in prevalenza negli anni recenti, ad una fase propositiva, chiaramente costruttiva, di coinvolgimento, attenta alle dinamiche della comunità ecclesiale e alle domande emergenti, nell'attuale congiuntura storica, dal tessuto sociale del Paese." (G. Bianchi, Ispirazione cristiana, cultura cattolica e azione politica, in Cultura cattolica ed egemonia operaia, Coines, Roma 1976, pp. 7-44, alla p. 34). In questa direzione, il documento conclusivo del Comitato Esecutivo nazionale del 6 e 7 marzo 1976 afferma: "Le ACLI ritengono di potersi inserire a pieno titolo nella ricerca in atto nella comunità ecclesiale con questa loro autenticità di componente cristiana del movimento operaio, con le loro scelte - storiche e non ideologiche - di classe e anticapitalistica e con il carico di tensione, contraddizioni e speranze che nascono da questa loro atipica e originale collaborazione." (AS, 21 marzo 1976, p. 16). Scoraggiato dalla lentezza con cui procede il disgelo nei rapporti tra le ACLI e la gerarchia ecclesiastica, nel maggio 1976 Marino Carboni si dimette da presidente nazionale delle ACLI, per accettare la candidatura nelle liste della DC nel collegio di Tricase in Puglia. E' eletto Senatore della Repubblica. Viene rieletto nel 1979 nel collegio Roma VI (zona sud di Roma). Marino Carboni muore a Roma il 29 settembre 1979, all'età di soli 46 anni. La camera ardente è allestita nell'aula del Consiglio nazionale delle ACLI, nella nuova sede di via Marcora (nella zona degli Orti di Trastevere) che era stata costruita durante la sua presidenza. Il funerale si svolge il 2 ottobre nella chiesa di Santa Maria dell'Orto a Trastevere e il presidente nazionale Domenico Rosati, visibilmente commosso, pronuncia l'orazione funebre nella quale ricorda con ricchezza di dettagli il suo ruolo nelle ACLI. (Abbreviazioni: AS = Azione Sociale, periodico delle ACLI; ASA = Archivio storico delle ACLI nazionali; AO = Acli Oggi; NC = Notiziario della Conferenza Episcopale italiana; QAS = Quaderni di Azione Sociale; VCN = verbali del Consiglio Nazionale ACLI; VP = verbali della Presidenza nazionale ACLI)
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Federica Volpi, Marini Carboni, Aesse, Roma 2001 Domenico Rosati, L'incudine e la croce. Mezzo secolo di ACLI, Sonda, Torino 1994 Domenico Rosati, La questione politica delle ACLI, Dehoniane, Napoli 1975 Maurilio Lovatti, Giovanni XXIII, Paolo VI e le ACLI, Morcelliana, Brescia 2019
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